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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 49-50
Gennaio-Febbraio 2004
Editoriale:
Pubblica con noi e altro
Questo Faranews è una sorta di numero doppio dedicato
ai vincitori della II edizione del concorso Pubblica
con noi e ad altro interessante "materiale" letterario.
Il nostro concorso premia questa volta con la pubblicazione due autori,
uno per la sezione racconto e uno per la sezione poesia. Dopo un'accurata
analisi delle decine di opere partecipanti, generalmente di ottimo livello,
la giuria ha premiato:
Fabrizio Bolivar per la sua raccolta
di racconti Maledetta vita
Carmelo Calabrò per la silloge
poetica Cinquanta.
Il volume che riunisce le opere vincitrici è in
uscita.
Sono stati inoltre segnalati come particolarmente interessanti:
per la sezione A. (racconto) Elia Scanavini
(Pegognaga, MN) per Frammenti e Marina Vio
(Venezia) per Turris Babel;
per la sezione B. (poesia) Gabriele Quartero
(Santhià, VC)per Fuori sintonia, Andrea
Parato (Rimini) per Luoghi intravisti
e Mario Travaglione (Marano di Napoli) per Zarathustra.
In questo numero trovate anche una poesia di Christian
Sinicco, un racconto di Simona Cremonini, alcune
poesie di Adeodato Piazza Nicolai e una del brasiliano
Antonio Mariano Lima.
Segnaliamo infine alcuni siti interessanti.
Buona lettura.
Vincitori
La
signora che tossiva ai funerali
di Fabrizio
Bolivar
Era già alla sua terza birra. Il pub era strapieno di risate,
fumo e pacche sulle spalle. Dan si accese una sigaretta, la quinta.
Era di fronte a me, seduto ad un tavolo in un angolo del locale.
– Senti – mi disse guardandomi negli occhi – devo
dirti una cosa.
– Avanti, parla.
Aveva uno sguardo inquieto, quasi impaurito. Solo ora mi rendevo conto
di come si fosse comportato stranamente fino a quel momento.
– C'è una signora che tossisce ai funerali.
– Che cazzo dici Dan?
– Sì, la sento da anni, tossisce ai funerali.
– Sei sbronzo Dan.
– Prova a farci caso quando ti capiterà di andarci, ad
un funerale – disse lui appoggiando i gomiti sul tavolo e sporgendosi
verso di me.
– E come sarebbe questa signora?
– Non lo so, non mi è mai riuscito di vederla; eppure c'è,
sempre, non se ne perde nemmeno uno, di funerali. Ho iniziato a notare
questa cosa anni fa – continuò – e non l'ho
mai detto a nessuno, ma ora non è più un sospetto, è
una certezza.
– Dan, hai bevuto troppo.
– Ascolta, credimi, è tutto vero, interviene nei momenti
di silenzio, solo nei momenti di silenzio, per esempio quando il sacerdote
finisce una preghiera o un canto, oppure appena tutti si sono messi
in ginocchio.
– Sei pazzo Dan.
– In genere i colpi di tosse sono due, e arrivano da dietro, dal
fondo della chiesa. Spesso mi è capitato di girarmi di scatto
per riuscire a vederla, ma è stato inutile. Un paio di volte
mi sono anche messo nell'ultima fila, ma in quei casi i colpi
di tosse sono arrivati da un'altra zona, da una posizione più
avanzata rispetto alla mia, forse da un lato, non so. Non sono mai riuscito
ad individuare esattamente da dove provenissero quei colpi di tosse.
Mai nessun sospetto, mai nessun movimento strano in chiesa, che ne so,
qualcuno che si porta la mano alla bocca, oppure qualcuno che ripiega
il fazzoletto, niente, mai niente.
– Sarà semplicemente un caso – gli dissi.
– Non è un caso, i colpi di tosse sono sempre identici.
Stesso stile, stessa sonorità, stesso timbro. E poi, come se
non bastasse, la settimana scorsa sono stato al funerale di un mio vecchio
zio, in Liguria, a trecento chilometri da qui, e quasi a fine cerimonia
li ho sentiti, quei dannati colpi di tosse. Mi si è gelato il
sangue. Ma non è finita – continuò – da quel
giorno sento la sua presenza ovunque, anche per strada, al lavoro, anche
qui.
– Non esagerare, Dan, tutta quella birra ti ha dato alla testa.
– Non sono mai stato così lucido, tu non capisci, non vuoi
capire, quei colpi di tosse, sono dei segnali.
– Smettila Dan.
Lui si voltò un attimo guardandosi alle spalle, poi i suoi occhi
tornarono su di me.
– Quei colpi di tosse, cazzo, quei colpi di tosse è la
morte che li dà.
– Stai farneticando, Dan.
– Tu non mi credi ma è così, la morte tossisce ai
funerali per rivendicare le sue azioni, per firmare la sua presenza,
come se fosse una minaccia, un monito per chi è rimasto. Da quando
l'ho capito non dormo più la notte e sono sicuro che lei
avverte la mia paura, e che mi segue. Ed ora è qui, la sento,
cazzo, la sento, è qui.
– Vai a casa Dan, vedrai che domani ti sentirai meglio.
Quella fu l'ultima volta che lo vidi. Al suo funerale, alle mie
spalle, una signora tossì. Due volte.
(da Maledetta
vita, raccolta di racconti vincitrice del concorso Pubblica con
noi 2003: per l'ironia e il disincantato umorismo con cui ci presenta
in modo godibile e incisivo squarci di vita più reali di quel
che può sembrare di primo acchito)
Fabrizio Bolivar (1968)
vive a Mantova e lavora come impiegato in una ditta che si occupa di
servizi sul territorio. Ha scritto parecchi racconti e sta ultimando
il suo primo romanzo. Assieme ad un amico scrive sceneggiature per il
cinema: hanno realizzato un lungometraggio amatoriale www.trafficografico.com/bolivar
mentre la loro sceneggiatura di un corto è stata realizzata da
Studio Universal.
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Cinquanta
di Carmelo Calabrò
A MASSIMO
Quella smorfia antica
che si confonde col dolore
come il solco di una vita
come il senso di un amore
Quei silenzi intimiditi
nel rispetto di un pudore
nel sorriso la tristezza
dolce come una carezza
Ho cercato di raggiungerti
anch'io di penetrare
il profondo del tuo mare
ti hanno impedito di restare
Adesso sono qui
costretto a ricordare
ma tu lo so da lì
continuerai a girare
BICCHIERE VUOTO
È come un bicchiere
vuoto
è stato gettato per terra
è così questa notte
rotta e fredda di vetri
appannati come gelo che stringe
non c'è sguardo che ti sfiora
non un abbraccio
nessuno si avvicina stanotte
nessuno vuoi accanto
polvere sui libri
ti scontri con una parete di assenza
un filo sottile
bruciante dolore nel cuore
un fiore che muore
buio di pagine che non intendi
la porta non si apre
nessuno entrerà
lei sarà il sogno
che speri d'amare
è il calore che invade
ma non c'è
non puoi né sai
e dentro un piccolo tramonto già muore
NON È DOMENICA
scendi per strada
in questo mattino
che sa di fiocchi di burro
e di pane caldo
io resto qui
sotto coperte di torpore
nelle voci dei giornali
fuori da ogni rumore
cammina eccitata
da questo giorno
che non è domenica
ma gli somiglia molto
respira come un gatto
contento del suo respiro
con le tue calze viola
col tuo sorriso in gola
lascia andare i tuoi occhi
che tutti li guardino
che tutti pensino
sono stelle in un giardino
allacciati la scarpa
chinandoti leggera
che tutti ti respirino
fra le tue gambe e il cuore
ma poi torna da me
vieniti a sedere
ho un pranzo di sorrisi
che mi regalerai
e aprendo la finestra
coloriamoci di bianco
in questo giorno pulito
senza guerra nel cuore
(da Cinquanta,
raccolta di poesie vincitrice del concorso Pubblica con noi 2003: versi
cristallini e intensi che catturano per la freschezza e l'immediatezza
delle immagini evocatrici di ricchi mondi interiori)
Carmelo Calabrò
(1973), siciliano, vive a Pisa da ormai più di dieci anni. è
prossimo a finire un dottorato di ricerca in Filosofia del diritto.
Per professione si occupa di storia della cultura socialista. Per passione
scrive poesie, finora rimaste tutte rigorosamente inedite. Con alcuni
amici ha dato vita a Idee www.idee.fi.it
un "foglio" on-line di critica politica, aperto a tutti i
temi di rilevanza culturale, inclusa ovviamente la letteratura.
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Segnalati
Ri-scontri
di Elia
Scanavini (Pegognaga, MN)
L'inizio delle nostre attività, dopo la pseudo-pausa
estiva, venne decretato ufficialmente. Le riunioni che fino ad allora
si erano susseguite a cadenza più o meno regolare si caricarono
di tematiche sempre più legate alla politica sia nazionale che
locale e si tennero con frequenza via via più serrata.
Ricordo benissimo che passammo più di una assemblea a discutere
su come ci saremmo dovuti comportare se ad una delle nostre iniziative
si fosse presentato qualche neo-fascista, con tanto di croce celtica
stampata sulla maglietta e su chissà quale provvedimento avremmo
dovuto adottare per spiegare al mal capitato che non era il caso che
si trattenesse lì più del dovuto.
Oppure su come ci saremmo comportati se all'ingresso, la sera
successiva, si fosse presentato il buon Don Francesco, il parroco di
Quingentole. Una persona con una tale cordialità e una bontà
d'animo che forse avrebbe stentato ad ammazzare una mosca…
L'aver deciso di seguire una corrente di pensiero e aver sposato
una parte politica a scapito di un'altra ci imponeva di fare i
conti, nel concreto, con chi non la pensava come noi. Nessun libro ti
diceva come fare, nessuna ideologia entrava così nel merito da
consigliare ad uno come me quale era il modo giusto di rispondere a
quesiti del genere.
Ero profondamente combattuto. Risposte del tipo “il fascio di
merda lo cacciamo a pedate nel culo” oppure “che il prete
le prediche le vada a fare in chiesa e non alla Kà del Diavolo”
erano quelle che avrebbero dovuto fugare i miei dubbi e le mie perplessità?
No. Erano troppo oltranziste, anche se la pedata nel culo ci stava tutta…
Mi stava stretto questo modo di ragionare fatto di soluzioni preconfezionate
che ti impedivano di sviscerare i problemi, di confrontarsi concretamente
sulle questioni.
Analizzando a posteriori questa singola situazione ti accorgi di come
un problema così grande come il rapporto con il diverso sia stato
bruciato dando voce a semplici stereotipi che possono sicuramente sintetizzare
concetti condivisibili, ma che in un momento di confronto interno al
gruppo fugavano ogni dubbio su chi era con noi e chi era contro di noi.
Perciò era alto il grado di difficoltà nel cercare di
portare perplessità, se volete infantili o personali, in un auditorio
sicuramente composito, ma comunque trascinato dalla fermezza e convinzione
di alcuni.
Io avevo origini molto diverse rispetto a tutti gli altri nella Kà
del Diavolo e ciò mi rendeva diverso.
Provenendo da una famiglia cattolica e praticante, avevo fino ad allora
seguito con una certa continuità le attività della parrocchia
e conservavo un buonissimo rapporto con il rappresentante del clero
quingentolese: don Francesco.
Mi trovavo ora a confrontarmi con i miei amici che, chi per scelta politica
chi per altri motivi, avevano optato per repentino taglio di ogni rapporto
con la religione, i suoi rappresentanti e con tutto ciò che gravitava
attorno ad essa. Non solo, tutto ciò che aveva a che fare con
la religione era pericoloso e sbagliato.
A me gestire questa diversità di vedute veniva naturale, stavo
seguendo un percorso di emancipazione dall'ambiente cattolico
che cominciava a starmi troppo stretto. Però ero lontano (e lo
sono tutt'ora) dal capire l'origine di questa ottusità
di vedute.
Avevo bisogno dei miei amici, avevo bisogno della Kà del Diavolo,
avevo bisogno di vivere qualcosa di diverso e solo loro potevano aiutarmi.
Cercavo, come altri, delle risposte che era difficile recepire in discussioni
che trattavano temi a volte troppo lontani e a volte teorici a tal punto
che in tanti preferivamo stare zitti e ascoltare.
In alcuni momenti sentivo di non essere d'accordo, ma l'anello
mancante che mi avrebbe consentito magari di dissentire o contraddire
una posizione piuttosto che un'altra era la conoscenza, il sapere,
la dialettica che alcuni tra noi possedevano più di altri. In
alcuni di quei momenti la paura di perdere il contatto con questa realtà
aveva la meglio sulla necessità di opporsi.
Per certi aspetti è stata anche questa una scuola; imparare che
si può anche essere ignoranti nella vita non è cosa da
poco, il più è che l'ipotesi di questa scoperta
venga presa in considerazione da tutti i partecipanti. Che ci possa
essere la remota possibilità di imparare qualcosa dagli altri
senza considerarsi per questo sconfitti.
(da Frammenti: una scrittura veloce e
avvincente “per non dimenticare” la storia della formazione
sociale e culturale di un gruppo di ragazzi nelle campagne mantovane)
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Turris
Babel
di Marina
Vio (Venezia)
Dileggiandomi, mi chiamano il profeta e dicono che sono
pazzo. Che sia un profeta è vero, che sia pazzo non so. Si dice
che quella che è saggezza davanti agli occhi di Dio, spesso appaia
pazzia agli occhi degli uomini. E dunque, potrei anche essere pazzo
pur essendo profeta.
Ma profeta non sono sempre stato, e forse nemmeno pazzo.
Un tempo, ero uno di loro. Mi alzavo ogni mattina e andavo a lavorare
per Lei, nei suoi luridi templi, sedi dell'abominio e della menzogna.
Borsa, era il nome della Bestia immonda che mi ero dato a servire, senza
sapere ancora cosa esigeva dai suoi seguaci e quali sacrifici chiedesse.
Anch'io, come molti di loro, mi ero abbeverato del suo vino ed
avevo goduto la sua prostituzione. Anch'io mi ero ammantato del
suo oro, vestito del suo bisso, ed adornato con i suoi tesori. Anch'io
mi ero inebriato del potere.
Ma, come dice il Siracide, il successo dell'uomo è nelle
mani del Signore. E all'improvviso il Signore segnò con la Sua
mano la mia vita, perché aderissi ai piani che da immemore tempo
aveva stabilito per me.
Non so che cosa accadde, non lo ricordo. La mia ricchezza si polverizzò.
Mi trovai solo e nudo, ed essi mi scacciarono dai templi. Ero fallito,
dissero. Dunque, secondo quanto afferma Geremia, il mio peccato con
uno stilo di ferro, con una punta di diamante è inciso sulla
tavola del loro cuore e sugli angoli dei loro altari, come per ricordare
ai loro figli! E da questo peccato io fui perduto, dato che essi non
professavano il perdono.
Cercai di rimediare. Ricominciai. Ma il segno del peccato mi condannava,
ed io non ero più dei loro. Non ero più degno seguace
della Bestia, perché non ero tra coloro capaci di adorarne il
nome.
Questo era molto grave.
La Bestia infatti faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi
e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra
e sulla fronte, in modo che nessuno potesse comprare e vendere all'infuori
di coloro che portavano il marchio, cioè il nome della bestia
o il numero del suo nome.
Chi non aveva questo marchio era perduto, e non poteva commerciare.
Dunque, per non cadere schiavo dei miei nemici, vagai nei territori
deserti ed infecondi dell'abiezione, mangiai alle mense dei poveri,
dormii all'aperto, negli angoli più bui, steso sopra ai
cartoni. E forse bevvi vini molto più forti e ripugnanti di quello
del potere, fino a confondermi.
Ma la misericordia di Dio discese su di me e un giorno, un freddo giorno
d'inverno in cui per caso stavo nei sotterranei di un palazzo,
vidi il Signore al pari di Isaia. Lo vidi seduto al centro della stanza
povera e nuda dove mi trovavo, e i lembi del suo mantello la riempivano.
Vibravano gli stipiti delle porte alla sua voce, e la stanza si riempiva
di fumo. Poi io udii la voce del Signore che diceva: “Chi manderò
e chi andrà per Noi?”. Ed io risposi con le stesse parole
di Isaia: “Eccomi, manda me!”.
E iniziai a predicare. Andavo davanti ai loro templi, sempre vagando:
sempre cercando il massimo dell'abiezione per portare salvezza
e dissuadere gli empi, coloro che riponevano fiducia soltanto nella
carne e nell'oro.
Citavo l'Ecclesiaste ed esclamavo: “Vanità delle
vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava
l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole?”
Ma essi mi guadavano con commiserazione, come se fossi folle, come se
non capissi che occorreva il denaro. (…)
(da Turris Babel: per la capacità
con cui sa rievocare l'11 settembre in modo al tempo stesso realistico
e visionario confondendo poeticamente il confine fra pensieri ed emozioni,
ragione e mistero)
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Questo
è il dire più muto
di Gabriele Quartero
(Santhià, VC)
Questo è il dire più muto.
Un niente, un piccolo clic.
Lo si ama in virtù
di ciò che non dice,
lo si ama prevenendo
ogni suo ultimo, clamoroso gesto.
Le rime più belle:
“parole”
e “appendice di vita”,
“parole”
e “motore interminabile”,
“essere come cosa”
e “parole”.
Una volta ho aperto
una parola.
Cosa c'era dentro?
C'era
la follia d'estate,
c'era “fabbricazione”
e ingranaggi fuori uso;
strani indumenti.
Ho guardato.
Gli occhi bruciavano
per il troppo guardare.
Se ne può cavare fuori qualche cosa?
A tuo rischio e pericolo,
ma se ti va bene
quella poi ti appartiene
per sempre.
(da Fuori Sintonia: versi quasi prosastici
dal ritmo sinuoso e franto, ricchi di efficaci accorgimenti retorici)
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Da
luoghi intravisti
di Andrea Parato
(Rimini)
non est poesis sine desperatio
desperatio sine spes non est
“Per i pellegrini nel tempo, la verità è
altrove; il vero luogo è sempre a una certa distanza, lontano
nel tempo. Dovunque il pellegrino sia ora, non è il luogo dove
dovrebbe essere o dove sogna di essere” (Zygmunt Bauman, La
società dell'incertezza)
Da luoghi intravisti
la meraviglia e l'orrore
dell'essere,
del verbo la passione
della carne la voce
il senso subito dimentico
dell'umore del bimbo
del mistero irrisolto di uomo
che cuore di donna mai sfiora,
la città a decantare in coltre nera
con tremule luci nel silenzio ventoso,
la voce di cosa mai dette
la voce degli Umili.
Crepuscolo di segni
Le sere
amari ricettacoli di nulla
le riempie una musica sola,
seguendone i pensieri
suggerisce una cedevole strada
e vibra piangendo
per il giorno perduto.
Immerso nel continuo brusio
di segni e simboli
si sfalda ogni vero
nell'ombra in mutevole prospettiva.
(da Luoghi intravisti: versi lucidi e fluidi, attenti
alle sonorità, alle potenzialità della sintassi e al ritmo
mutevole dell'anima)
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Zarathustra
di Mario Travaglione
(Marano di Napoli)
01 Benedicimi sole
Benedicimi sole che inondi
di gioia e di luce i monti aspri,
la terra bruna, le foglie,
la pianta che si veste
d'ombre coi tuoi raggi,
che sciolgono la linfa nelle vene.
Benedici questa pianta
che cerca le radici dell'amore
dove la fonte limpida disgorga.
Ho scalato la tua luce
e fermato il cammino con le tenebre,
sempre reggendo a spalla la bisaccia
con l'urna delle ceneri da spargere
nel vento del tuo lume,
che splende sull'asprezza delle cime.
Benedicimi sole.
02 Strisciai tra alte felci
Strisciai tra alte felci e rovi,
nell'ombra della selva,
con l'occhio alla vena di lusinghe
che sgorgava dal monte della conoscenza.
La tua luce deluse la speranza, sole:
dall'alto della rupe, mirai
uomini come bestie alle catene,
a guardia né cerberi né cani,
ruotare le pietre dei mulini
legati dal miraggio di colmare
voragini di fame;
folle, che latravano arretrando
al passo dei padroni,
pronte a volgere in rotta se la frusta
taglia decisa l'etere vibrando.
Con l'urna delle ceneri tradite
ridiscesi il sentiero della valle.
03 Non porto doni
Scendo dal monte a mani vuote.
Non porto doni dalle cime
battute dal vento e fredde.
Non cresce pianta, né frutto,
nel vento delle cime.
Dissodate l'orto con passione
e stabbiate le zolle col sudore
perché germogli ancora la speranza
e brilli la dignità nel vostro campo.
(da Zarathustra: quasi aforismi in forma poetica che
rivelano una sapiente maturità stilistica)
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Contributi dagli amici di Faranews
Ci
sono attimi come perderti
di Christian Sinicco
(Trieste, redattore di Fucine Mute)
Ci sono attimi come perderti
dove sei e dove hai chiuso, ma quale ansia
hanno truccato sulle labbra e quale carta hai scelto?
Dove le strade sarebbero state non guardasti,
fu prima che una goccia scegliesse il giorno
che non sappiamo più sotto la pioggia.
Dove questa convulsa e luminosa corsa allunga
dove sfogli la pagina, soffiando
come in uno specchio, sopra i detriti
camminando nelle pozzanghere, qualsiasi fango sbricioli
e chiunque non abbia mai pensato
sui vetri opachi…
I segni non cancellano,
il materiale le cui infrante labbra appoggi non è tuo,
l'hanno truccato. La storia, i battiti
elettrizzano l'aria, la gravità
sostituita con qualsiasi cosa. E quale carta hai scelto?
Questa, il braccio che le conficcasti, è un cuore.
Qualcosa di forte si ferma,
ma continua a piovere
non trattenendo, continua a piovere dove sei.
Sapremo mai cosa c'è oltre? Nelle strade
nei giorni cosa c'è
dove non sei più invisibile di ciò che stringi?
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Anche
gli assassini
di Simona Cremonini
(Montanara, MN)
Avresti dovuto fare qualcosa appena uscita dalla casa
di Roberta… Che stupida sei stata!
Avresti dovuto fare retromarcia e suonare il suo citofono. Avresti dovuto
dirle che qualcosa non andava e andare di sopra, a casa sua, al sicuro.
Invece no, stupida testarda!
Anche dopo aver girato due volte, anche dopo aver visto la sua ombra,
quel riflesso tenebroso, ritrarsi nel buio, non sei tornata indietro,
hai voluto proseguire!
Appena uscita dal condominio della tua amica, hai notato qualcosa di
scuro oltre i due garage a fianco dell'ingresso. Non sapevi se
si trattava di un cassonetto o di qualcos'altro, eppure ti sei
sentita subito inquieta. Hai camminato per qualche metro per non pensarci,
poi hai svoltato in un'altra via, più piccola e più
interna. Ti sei voltata indietro, per controllare, e hai deviato di
nuovo, per percorrere un tratto del lungo viale Manzoni. Hai sbirciato
di nuovo dietro di te, e proprio in quel momento l'ombra è
spuntata da dietro quel palazzo e si è ritratta, come accorgendosi
di essere in vista. Avresti dovuto tornare indietro, tagliare in altre
vie del quartiere e citofonare a Roberta, ma invece hai accelerato.
E pensare che non avresti dovuto nemmeno uscire stasera, visto che la
tua automobile è dal meccanico; ma purtroppo proprio un mese
fa Roberta e Francesco hanno rotto e non te la sei sentita di lasciarla
sola, sapendo che lei ne soffre tantissimo. Così sei andata a
piedi fino a casa sua…
E ora?
Ora cammini, accelerando, poi decelerando, fingendo, sperando che i
passi che senti non siano i suoi, ma i rintocchi dei tuoi tacchi sull'asfalto.
Eppure lo sapevi che era imprudente uscire soli nella tua città
di notte. Era sconsigliato dalla polizia, che ancora non è riuscita
a catturare l'assassino soprannominato Capitan Uncino, per quel
modo grezzo e affrettato di sgozzare le sue vittime con un oggetto appuntito,
come un uncino appunto.
Continui a camminare. Ti chiedi se non stai esagerando; per un'ombra
intravista nella notte ti sembra già di vedere i tuoi amici,
i tuoi genitori, i tuoi zii che piangono per la tua morte!
Ti senti un po' ridicola, ma se la tua fantasia è troppo
sfrenata, perché non riesci a fermarti, perché non riesci
a voltarti e guardare la strada che ormai dovrebbe mostrare chiaramente
se uno sconosciuto ti sta seguendo?
Lo sai il perché. Perché è vicino. Perché
è sempre più vicino.
L'eco dei passi si avvicina. Non sai se l'asfalto possa fare rumori
diversi tratto dopo tratto, magari per una diversa consistenza, magari
per una diversa distribuzione degli strati sottostanti, ma non te la
senti di controllare. Il tuo cervello non è minimamente interessato
a questa informazione scientifica.
Hai paura. Le tue gambe sono come percorse da un liquido diverso (adrenalina),
che è sale per il tuo sangue, che è collagene per i tuoi
movimenti, sempre più legati, sempre più lenti.
Poi la vedi. È un insegna bianca, con una scritta rossa. C'è
un simbolo, simile a una forcina, con tante piccole gambe. E pensi…
Pensi che è necessaria una tessera per entrare, e tu hai quella
tessera!
Semplice, apri la borsetta, mentre le gambe sembrano di nuovo in forza
e hai l'impressione di camminare più in fretta.
Apri la cerniera all'interno della borsetta e sfili il portafoglio.
Anche se è buio, guardi appena l'asfalto scuro che scorre
sotto i tuoi piedi. Fai schioccare il bottone che è sopra il
portafoglio e nel buio tasti le fessure predisposte per infilare le
tessere. È la terza fessura quella che ti interessa.
Nel frattempo il simbolo rosso è sempre più vicino. Di
nuovo cammini con foga.
I polpastrelli avvertono la plastica liscia sotto di loro e allora,
con delicatezza e con decisione, le tue dita la sfilano. La porta nel
frattempo è ormai davanti a te. Tendi la mano e infili la tessera
con la banda metallica verso l'alto, sulla sinistra, come sul disegno
che hai di fronte e che mille volte hai controllato su porte simili.
La porta scatta, la tiri, entri nell'ambiente angusto e vetrato
e la richiudi dietro di te, velocemente. Ti assicuri che sia veramente
chiusa.
Fuori è buio, ma sul marciapiede si riconosce una sagoma umana.
Alla sua destra qualcosa di metallico riluce sotto la luce bianca dell'insegna
appesa sopra la porta, esposta di traverso perché sia visibile
dalla strada. Dall'altra parte, vedi che una mano sta frugando nel buio.
Fruga e infine trova. Trova una piccola tessera, simile alla tua.
Anche gli assassini hanno un bancomat.
(L'autrice è nata nel 1979 e vive tra il paese
di Montanara e la casa estiva sul lago di Garda; ha partecipato al concorso
Verbamarket,
nelle edizioni del 2000 e 2001, pubblicando entrambi i racconti inviati
e altri su www.stampalternativa.it;
il romanzo "Il Visitatore Notturno" è apparso a puntate
su www.alidicarta.it)
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L'altro
labirinto
di Adeodato Piazza
Nicolai (Padova, 16 gennaio 2004)
La mia sensibilità al nuovo è terribile;
mi sento calmo
solo nei luoghi in cui sono già stato. (1)
Sull'orlo di un sentiero mai prima calpestato
gli dono un girasole inzuppato di luce. Lei
lo prende, lo annusa, gira intorno e se ne va.
Qui non centra l'argomento di Ungaretti
sull'inesprimibile colto e donato
e nemmeno il girasole di Montale
ma c'è qualche cosa che sfugge al contatto,
brucia la pelle dei polpastrelli.
È farfalla monarca (2) sospesa nel vento
la mia vita intrappolata da una foto,
un'orchestra misteriosa; non so
quale strumento suoni, strida dentro
di me: corde o arpe, cimbali o tamburi.
Specchio, specchio appeso al muro
rifletti un vero impuro, mai la cosa
tutta intera; sei l'essenza immaginaria
più sfuggevole dell'aria.
Sono io la periferia di una città inesistente,
la chiosa prolissa di una poesia mai scritta.
Non sono nessuno. Non so sentire, non so
pensare, non so volere. La mia poesia
è un maëlstrom nero, una vertigine
intorno al vuoto, il movimento
di un oceano senza confini
intorno ad un buco nel nulla. (3)
Giù nello Stretto le onde schiumano
come dicono qui. Il mare è mosso e meno male.
Mentre me ne stavo lì sdraiato a occhi chiusi
dopo essermi immaginato come sarebbe stato
se non avessi davvero potuto rialzarmi, ho pensato a te.
Ho aperto gli occhi e mi sono alzato subito
e son tornato a essere contento.
È che te ne sono grato, capisci. E te lo volevo dire. (4)
Adesso sono io che non so come dirti
di questo sottile bruciore di zolfo
senza che accenda un fiammifero.
Non riesco neppure a spiegarti perché
sono felice. Ho soltanto strappato uno stelo
per dartelo, senza conoscerti,
al bordo di questo mattino.
Note
(1) Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine di Bernardo
Soares, Prefazione di Antonio Tabucchi, Feltrinelli, 2002,
p. 30.
(2) "Farfalla monarca": uno scarto interlinguistico, riferimento
alla “Monarch butterfly” (Danaus plexippus), farfalla di
colore nero e arancione che si trova negli Stati Uniti.
(3) Pessoa, p. 32 e 53: “Credo che nessuno ammetta davvero la
reale esistenza di un'altra persona. Può ammettere che
tale persona sia viva, che pensi e senta come lui: eppure ci sarà
sempre un ineffabile elemento di differenza, uno scarto materializzato.”
Per licenza poetica, qualche parola nelle citazioni
è stata cambiata (NdA).
(4) Raymond Carver, Per favore, non facciamo gli eroi,
Edizioni minimum fax, 2002, p. 151-3: “Tutte le cose che accadono
nella poesia erano effettivamente successe in questo o quel momento
della mia vita, me le ricordavo e le inserii in dettaglio nella poesia.
Però – e questo è importante – l'emozione
che pervade la poesia, il sentimento (da non confondere con il sentimentalismo)
è autentico in ogni verso ed è reso con un linguaggio
chiaro e preciso. Inoltre, i particolari della poesia risaltano in maniera
vivida ed esatta. (...) A proposito di "per Tess" mi sono
anche reso conto, a metà della poesia, che quello che stavo scrivendo
era niente di meno che una poesia d'amore.”
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L'angoscia
di un computer
di Antonio Mariano
Lima (Brasile)
Io pensai a lungo
che quella lingua fosse il mondo
e le idee persone.
Aspettai un contatto.
Non trovai parola.
Aspettai un verbo
e trovai la solitudine.
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