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Scheda:
Paolo Galloni
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SECONDO PROLOGO
(Chat Room)
Dimmi ancora qualcosa di te
Qualcosa di intimo?
Qualcosa di vero
Sono alta e sottile, ho il seno piccolo e mi piace tenere i capelli raccolti.
Ce li ho scuri
E gli occhi?
Chiari, Eric dice anche svagatamente impauriti
Lui come sta?
Abbastanza bene, considerata la sua età
La tua storia è proprio strana. Non ho ancora deciso se sia affascinante
o riprovevole, ma mi attira
È bizzarra, lo ammetto: come ti ho già detto mi permette di studiare
e avere una casa
Dove giri nuda sotto gli occhi di un vecchio
È un grande pittore e io mi sento nobilitata dal suo sguardo. Non pretendo
che tu capisca. Prendi atto e accettalo, per favore
Ti lascia vedere i suoi disegni su di te
Sì (rido) me li ha anche promessi in eredità. Tu non lo
troveresti imbarazzante?
Mi disturba di più il pensiero che tu stia lì fino a quel
giorno
Penso che perdere i suoi sguardi su di me sarà come perdere la
mia giovinezza
E continua a non toccarti
Sono i patti
Vorrei essere lì e dipingerti
Persuasore (un giorno mi dirai il tuo vero nome), mettiamo il love-chip
Non ancora, voglio sentirti meglio, più vera
Per esempio, vuoi sapere a cosa mi pace pensare quando godiamo con il
love-chip?
No, per esempio cosa ti fa felice
Esserti fedele, forse mi farebbe felice. Dio, mi è venuta così.
Che assurdità
Non tanto. È così difficile trovare legami che rendono felici.
Ci stiamo avvicinando, Emma
Dove sei, Persuasore?
TERZO PROLOGO
(La foresta)
La foresta è come la memoria di mille vite. Forse si potrebbe
dire la stessa cosa delle città, ma con una differenza, che quello
che nella città si offre alla vista nella foresta ti si deposita
addosso in forma di umidità, sudore, liane, ragnatele, punture
di insetti, gonfiori, stordimento, suoni, stridii, fruscii. Gli agguati
e la paura, quelli anche la città li propone con abbondanza e generosità,
ma quasi solo di notte. E poi nella foresta quelle umane non sono che
vite tra tante.
La foresta è un laborinto senza orizzonte, un laboratorio in allestimento
di segni e linguaggi mescolati insieme, Babele appena dopo il crollo,
con la polvere delle macerie che ancora si solleva. Ma è anche
un libro di parole nitide, a conoscerle, animali, piante, foglie, percorsi
mai tracciati una volta per tutte eppure visibili, cancellati e ritracciati
dalla fecondità vegetale.
La foresta è memoria e persone, vivi e morti.
I popoli della foresta danno un'importanza smodata alla genealogia. Di
chi sei figlia, e chi era tua nonna, e il padre di tuo nonno come si chiamava,
e il padre di lui, e il padre di suo padre. E se vien fuori un nome famigliare,
ecco nascere una parentela metaforica, un'accoglienza diversa. Sarai mia
nipote, sarai mia cugina.
Le case dei morti vanno abbandonate perché le anime continuano
a frequentare la dimora della vita e a implorare azioni e memorie di parentela.
Le uniche possibili sono la pietà e la commozione. E i vivi non
amano cercare la tristezza. La genealogia è la sola memoria dei
morti, la loro sopravvivenza nella società dei discendenti. Ci
sono anche dei morti speciali, non legati a un luogo particolare che si
possa dire loro. I Piro del basso Urubamba li chiamano gipnachri. Non
sono, a dire il vero, morti identificabili, con un nome. Forse sono i
morti di cui si è perduta la memoria e dunque ansiosi, astiosi,
sradicati, vendicativi. Cercano i vivi per assassinarli e divorarli. I
gipnachri, però, sono anche i protettori dell'ayahuasca, detto
anche il nettare cadavere, l'allucinogeno che dà la visione dell'invisibile
che ovunque si cela dietro l'apparenza della foresta. Gli esseri potenti,
signori e custodi dei luoghi, Yacumama, la madre fiume, Yacuruma, la persona
fiume, Sachamama, la madre foresta, tutti loro si rendono visibili se
evocati dal canto dello sciamano che ha preso l'ayahuasca.
Esistono, li ho visti. Molte volte li ho chiamati in soccorso e sono venuti.
QUARTO PROLOGO
(Moira)
Per un istante vede le montagne. È mentre si gira
per controllare che non ci siano altre auto. Quasi un regalo inaspettato:
una giornata così limpida non è frequente, né in
quella parte della città è facile trovare un punto in cui
i palazzi lasciano via libera alla vista. Poter vedere le montagne gli
avrebbe fatto davvero piacere se ci fosse stata la neve. Il sole basso
prossimo al tramonto avrebbe aggiunto una pennellata di colore al bianco
delle vette. Così gli sarebbe piaciuto.
Che non si era mai visto un settembre tanto stupido lo dicono tutti almeno
dieci volte al giorno. Come se il significato di una stagione provenisse
dalla meteorologia. Questa opinione poteva essere valida, ammesso e non
concesso, quando gli uomini temevano di allontanarsi dal proprio villaggio
e la loro vita si concentrava sui cicli dell'agricoltura. Nell'epoca della
comunicazione di massa, dei diritti umani e della fame nel mondo è
diverso. Deve essere diverso. È anche vero che dovrebbe essere
diverso il mondo. Che i mezzi di comunicazione dovrebbero favorire la
comunicazione, che i diritti umani dovrebbero esserci e la fame no. Che
le persone dovrebbero essere fini e non mezzi. Risorse umane: si dice
così; e suona perfino normale.
E parcheggiare è sempre un problema.
Gli tocca correre. Se almeno il treno fosse puntuale si risparmierebbe
l'attesa al binario.
Il ringhio del convoglio in frenata lo fa subito sentire a disagio. Il
suo sguardo vaga tra i passeggeri che scendono e s'affrettano. All'interno
del suo campo visivo scorrono i tre orientali spaesati, la donna con gli
occhiali e il violino, o il mitra, nella custodia, le quattro ragazzine
che ridono unite da una complicità corporea che trova seducente,
gli uomini d'affari con la valigetta e il quotidiano economico sotto il
braccio, il capotreno e, dietro, una ragazza che si riavvia i lunghi riccioli
rossi con gesti stanchi, scocciati.
È lei. È tornata.
Ora che la vede non è più così sicuro di riconquistarla.
Lui allarga le braccia, l'accoglie con devozione, l'accarezza.
Prende le valigie.
Lei non sa cosa dirgli.
Di nuovo si riavvia i lunghi
riccioli rossi.
Vorrebbe una parola
che fosse allo stesso tempo
sì e no.
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