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Intervista
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Cercando il Nord. L'inarrestabile Teresa
di Chiara De Luca
Cercando il Nord
non è un libro di poesia, né di narrativa, non è
un saggio, non è un semplice resoconto, né un’autobiografia,
ma è tutte queste cose messe insieme, in un lunghissimo canto d’amore,
che dice “una vita di cose care, di esistenze dure e semplici, ma
alfine vissute in concretezza e serenità”. E la dice con
un linguaggio limpido e diretto, ma mai sciatto, in un tono caldo, amichevole
e comunicativo, perciò poetico. È un fiume che ci coinvolge
in una esistenza in corsa, mossa dall’inesauribile desiderio di
portare il bene, desiderio che pare abbattere ogni ostacolo, che ci travolge,
poi quasi ci semina e confonde per quanto è caparbio, coraggioso,
disposto a qualsiasi sforzo, a qualsiasi sacrificio e privazione pur di
arrivare al suo obiettivo, “la parte più sfortunata del mondo”.
Qualcosa di molto grande si era perso, qualcosa che le bruciava dentro
senza lasciarsi vedere. Doveva scoprirlo prima che il bruciore diventasse
abitudine. Da qualche parte c’era qualcosa di ben definito che le
apparteneva. Era come affondata in un sonno, dove la difficoltà
a dissetare gli occhi si fa sempre più forte, dove la sensazione
di impotenza, dove il dormiveglia si fa sempre più angosciante.
In qualche modo, ad un punto del suo vivere, doveva essersi perso questo
attimo che ora col respiro le bloccava il passo. Stava lottando contro
corrente, qualcosa che non poteva intendere pareva aver mollato una chiusa
e l’impeto dell’acqua rischiava di trascinarla. Bisognava
essere decisi e rapidi, lasciarsi portare fino ad incontrare l’ansa
larga dove le acque riprendono ritmo e girando su sé stesse depositano
tutto ciò che la piena ha divelto e trascinato nel cammino. La
strategia pareva essere la giusta, l’ansa larga era un invito e
una sfida, dolci e sofferti, dettagliati e lucidi, lentamente i ricordi
apparivano alla memoria. È da qui che Teresa alias Laura, comincia
a ripercorrere la propria storia, dalla prima infanzia, vissuta in pieno
dopoguerra, in una famiglia poverissima ma colma d’amore (che fa
da invincibile collante tra tutti i suoi membri), attraverso la giovinezza
e l’adolescenza, e fino alla maturità e alla vecchiaia, che
in lei pare solo anagrafica.
È dalla consapevolezza dell’impossibilità di tornare,
di ripiantare nella terra d’origine le proprie radici da troppo
tempo divelte, che cresce in Laura l’ansia di abbandonare il luogo
che non sente più suo, per tornare a quella che è la famiglia
che si è scelta, nella terra che è divenuta sua, che ha
visto nascere e concretizzarsi i suoi sogni.
Ma cosa sogna Laura? Fin da bambina sogna l’altro, sogna di migliorare
le condizioni di chi ama, di chi necessita del suo amore. Dapprima, dopo
la morte della madre, si prende cura dei fratellini, poi decide di acquisire
il titolo di studio di scuola media inferiore per potersi specializzare
come infermiera nella cura dei bambini svantaggiati da disturbi psicomotori.
Poi viene il distacco dal paese natio, la partenza con la famiglia per
la Svizzera.
Con la morte del padre: "Bisognava per la seconda volta inventarsi
come non morire”. Così Laura si iscrive alla scuola di puericultrici,
rimettendosi con fatica sui libri.
In seguito, animata dal desiderio di occuparsi più da vicino (e
non più da semplice puericultrice) dei bambini neurolesi, Laura
decide di frequentare la scuola per Tecnici di Riabilitazione, che richiede
il diploma presso la Scuola per Infermieri, che a sua volta richiede il
titolo di scuola media inferiore. Lungi dal perdersi d’animo, Laura
si iscrive a una scuola serale, e comincia la trafila.
Durante un periodo di lavoro estivo a Lugano, in una colonia montana di
bambini con problemi psicofisici, Laura si rende conto che il loro problema
non è “Il loro modo di camminare storto, il loro non poter
usare le mani a modo (…)” bensì il fatto che “I
bambini svantaggiati vogliono solo, come tutti i bambini del mondo, essere
prima di tutto dei bambini felici”.
Al suo ritorno, Laura inizia un lavoro di due mesi al reparto infantile
neurolesi di una casa di cura della Riviera Romagnola, due mesi che diverranno
poi trent’anni.
Nel frattempo, Laura ottiene la presentazione necessaria per l’ammissione
al corso di specializzazione al trattamento delle Cerebropatie Infantili
a Firenze, e “Iniziò a scoprire che la sua casa era dove
lei viveva, dove vivevano le persone che appartenevano al suo vivere”.
In seguito, l’inarrestabile Laura presenta domanda al nuovo reparto
pediatrico cittadino. Poiché le nuove leggi scolastiche ospedaliere
pongono l’obbligo della scuola media superiore per tutti i lavoratori
fisioterapisti, si iscrive a una scuola serale per ottenere il diploma
di maestra d’asilo.
Un bel giorno, nella cappella dell’Ospedale di Rimini, Laura legge
un annuncio destinato a cambiarle nuovamente la vita. Si tratta dell’appello
di una Dottoressa missionaria in Zimbabwe: cerca infermieri per l’Ospedale
africano, in cui Laura scopre esistere una Maternità con annesso
Reparto Pediatrico, ovvero con annessa la possibilità per lei di
portare conforto e amore a bambini sfortunati. Laura parte quindi per
una “vacanza lavoro” in Africa.
In occasione del suo ritorno al paese si rende conto che “qualcosa
le stata scappando di mano, qualcosa si stava fermando (…) Arrivava
al paese volando ma bastavano un paio di settimane perché risentisse
la voglia di andarsene, senza poter intendere il dove, senza poter intendere
il perché”. Laura capisce che “La vita che andava vivendo
non era la sua. Inconsciamente aveva iniziato a vivere ai margini della
vita degli altri. Stava perdendo il senso di quello che era”.
E cosa è Laura? Una persona che ha votato la sua vita alla grande
famiglia che ha scelto per sé, a decine di figli adottivi, bambini
bisognosi di un’attenzione maggiore rispetto agli altri, di un supporto
morale e materiale, ma soprattutto di tanto amore, un amore che abita
Laura, la impernia di sé, e che nella sua terra d’origine,
ormai da troppo tempo abbandonata, non ha la possibilità di esprimersi
in tutta la sua forza, e preme come un fiume in piena frenato dagli argini.
Così Laura decide di partire nuovamente, stavolta per il Centro
Denutriti di Santa Cruz in Bolivia.
Con la consueta caparbia e tenacia, Laura chiede ed ottiene il permesso
per costruire un Centro di Abilitazione Motoria per Cerebrolesi, che prende
avvio nel salotto della sua casa. Scrive un libro di ricordi in dialetto
con testo a fronte italiano, utilizzando poi i proventi delle vendite
per migliorare le condizioni del Centro.
In seguito, tra grandi difficoltà e impedimenti finanziari d’ogni
genere, Laura fonda il Giardino d’Infanzia "La Casa del Mandorlo",
dove avvia una cooperativa tessile di cui fanno parte le mamme dei bambini
cerebrolesi. Questa attività le consente di procurare un piccolo
aiuto finanziario alle mamme dei bambini, e, al contempo, di coinvolgerle
più attivamente nelle recupero psicomotorio dei loro figli.
Laura avverte poi il desiderio di conferire legittimità giuridica
alla Casa del Mandorlo e decide di costituire una Fondazione. Inizia la
stesura di un nuovo libro, avvia una produzione di borse di tela dipinte
a mano, e un forno, con sede nel solito camaleontico salotto di casa sua,
finché “Il 4 novembre 2004 poté realizzare la cosa
che da sette anni, senza riuscire a capirlo bene, vagamente intuiva. Era
arrivata in Bolivia cercando una famiglia, dando voglia di vivere e speranza
di giorni meno duri a chi ancora era la sua famiglia, quella che si era
creata per sé”.
La vicenda di Laura fa riflettere, induce a fermarsi, a pensare cosa davvero
conta nella vita. La sua storia così piena di solidarietà,
di profondo senso di umanità e spirito di sacrificio (da lei neppure
avvertito come tale), pare quasi inverosimile a noi trascinati nel correre
cieco delle nostre città, dove occorrerebbe prendere e dare gomitate
per restare a galla, per realizzare sogni che non sempre contemplano le
esigenze dell’altro, ma scaturiscono piuttosto da sentimenti di
riscatto o desiderio di auto
affermazione e realizzazione personale.
Allora è bello fermarsi un attimo, pensare che volere talvolta
può divenire davvero potere, e che – pur senza possedere
il coraggio immenso e la forza sorprendente di Teresa – quella nuova
possibilità creata potrebbe coinvolgere altri, non necessariamente
nella parte più sfortunata del mondo, ma intorno a noi, a due passi
dal nostro naso.
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