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Verrà l'anno
recensione di Chiara De Luca
Vera Lúcia de Oliveira parla
"in due lingue da sola", affida al vento un messaggio, invita
attorno al fuoco parole, chiamando "le cose ad accompagnarle".
Ed è così questa poesia: non un mero tentativo di nominare,
bensì un evocare le cose mediante la scelta accurata di parole
"semplici", quotidiane, dirette, eppure vibranti, sospese in
una tensione continua, che ne accresce le potenzialità iconiche.
"Pare che piova fuori è il primo di gennaio
pare che ci sia festa che scoppino i botti
io qui mi copro bene è freddo
ho costruito una cuccia tutta pronta
per le tempeste adesso nulla
più accadrà che non saprò risolvere
da sola"
A partire da questa poesia di apertura, si configura quello che è
l’elemento portante di Verrà l’anno, ovvero la dialettica
dentro/fuori, (buio/luce), dove il dentro, il nucleo non è
tanto uno spazio fisico (benché simbolicamente rappresentato dalla
casa), quanto piuttosto un luogo dell’anima, pronta ad accogliere
vite, oggetti (e sensazioni), e a lasciare nel fuori tutto quanto
in essa non può trovare accoglienza e riparo ("la casa è
un’altra in questa / non c’è posto per gli estranei"),
benché faccia parte dell’esperienza dell’ospite, di
colei che apre la porta, o che, per meglio dire, non la chiude.
Nella casa possono entrare le piante, che come il poeta cercheranno la
luce, "potranno crescere sugli angoli fino / alle finestre e poi
girare i loro rami / sopra le porte e fare della casa / una piccola foresta".
E possono entrare animali con cui in qualche modo il poeta si identifica:
un passero, che "quando vorrà potrà anche uscire»;
un gatto, insieme al quale il poeta, "questo grosso gatto strano",
immagina di uscire, per "annusare il muro e guardare il cielo",
per misurare i propri "passi esatti", "e poi ritrovare
l’uscio"; i ghiri, che come il poeta «hanno il segreto
del sonno» e avvertono la notte respirargli dentro, perché
"tutto è come prima / per cui puoi dormire di più anzi
volendo / potresti dormire per sempre" (la differenza è che
non ci si sveglia); le rondini che nel tepore del letto caldo "crederanno
di volare ancora / godendo il tepore del sole".
È questa dialettica – viva e orchestrata con perizia –
a realizzare la forte coesione che caratterizza Verrà l’anno,
facendone un percorso in cui anche il lettore è indotto ad entrare
e uscire dai luoghi dell’anima, passando incessantemente dal buio
alla luce, attraversando le stanze della memoria, dove il fuoco del ricordo
appare in una certa misura "addomesticato". Nella sicurezza
dell’interno, della "cuccia" costruita dalle macerie di
appena accennati, eppure ben presenti dolori, il poeta può guardare
al freddo del fuori con maggiore equilibrio e consapevolezza,
che le conferiscono il coraggio di affrontare le future "tempeste".
Mentre di notte tutti escono a guardare i fuochi d’artificio, il
poeta resta dentro, felice di non dover uscire "e dire che bella
tutta quella lucentezza", di non dover ammirare una luce artificiale,
cui preferisce il bagliore della candela, anch’esso artificiale,
eppure vivificato dal suo stesso fiato (là fuori la luce era artificiale),
perché la notte è "sorella" (ora nella mia casa
la notte), "perché l’amore ha un buio" (bene diceva
bambini miei ora vi amo). L’amore è chiaroscuro, compresenza,
la stessa che abita l’animo del poeta, che anche in sonno resta
sveglio ascoltando il cuore e lasciandosi portare dal sangue (la differenza
fra il mio e il tuo sonno), mentre "[…] il sole entra / di
notte a cercarti pensi di sognare / ma sei sveglia (puoi disfare le valigie).
Così la luce sognata dal «fuori» si unisce alla luce
custodita nel «dentro»: «mi sveglio dentro ho la luce
/ all’interno delle vene ho tutte le luci / accese non so spegnerle
/ la notte esse vanno a letto / insieme ai miei sogni".
È questa la luce che il poeta cerca, che il poeta canta ("la
luce ti canto la luce"), quella che entra nel "dentro",
"che acceca e rovista / in tutte le direzioni / anche dove non vorrei",
che si insinua nell’anima, che trova nella natura il suo specchio:
"Il bosco è una casa di occhi
li vedevo nascosti e mi vedevo
a guardarli rompersi dai gusci
e venire fuori a salutare il giorno
buon giorno la luce lambiva
ogni piccola foglia ogni piccola
fessura"
Nella casa, nel dentro, possono entrare i ricordi, e "c’è
posto per i morti essi" debbono però "stare in silenzio
come si conviene / ai morti sennò cominciano a lamentarsi / e non
ho il cuore per tanto dolore". C’è posto per le fotografie,
ma rovesciate, perché facciano "cadere dalle poltrone i loro
morti", strappandoli al silenzio e all’immobilità, inducendoli
"a raccontarsi tutto quello che hanno visto / per decenni fermi nelle
loro cornici" (in questa casa metto le fotografie al rovescio). E
c’è posto per i volti familiari, come quello della madre,
che non riemerge dai ricordi di bambina, bensì da quelli di adulta
che ridiviene bambina (per certi bordi cammino mamma, la mia mamma mi
cullava quando ridiventavo bambina, certe mamme dimenticano), manifestando
il desiderio di tornare nella prima casa, nel calore dell’utero:
"la voce della mamma è un lungo filo / che attraversa l’oceano
/ io ci abito sempre che il telefono suoni / mamma mi fai entrare un po’
di nuovo / in quel cordone?". Il padre ha invece il volto del dolore
(il babbo era sempre in ansia, mio padre ci comprava i botti, se amava
era con dolore), un dolore che se prima era inspiegabile, adesso è
divenuto familiare, di casa nel "dentro", custodito, quasi vezzeggiato,
sempre acceso: "non ha porte per i dolori / questi sono già
dentro / i dolori che sono dentro / sono come animali / domestici se li
lasci / guaiscono / poi riprendono a guaire / se torni".
Altro elemento portante di questa raccolta è il tempo. Anche in
questo caso non si tratta tanto di un tempo fisico, quanto piuttosto di
un flusso modulato dai battiti del cuore, di un precipitare di esperienza
che supera l’effettiva scansione temporale: "ho tolto l’orologio
/ per saltare qualche minuto / e poi ritrovarmi avanti e / pensare ma
che era quel / pungolo da una parte del / cuore che per sé batteva
/ con la punta fuori dal tempo?". Il tempo appare come una costrizione,
una catena da spezzare per rompere la monotonia, per lasciare il fuori
libero di avvicinarsi all’interno dell’anima, che decide la
scansione della sue giornate sulla base dei propri moti più profondi:
"il calendario fu inventato da un sadico / certi giorni sono fatti
per essere sempre sabato / altri giorni un giovedì altri una domenica
/ sicché ci sono giorni che non sono mai quello / che sono solo
quello che avrebbero voluto essere".
Eppure il tempo procede il suo corso, ogni suo più piccolo sussulto
genera cambiamento, ed è destinato ad essere registrato: "c’è
una goccia in cucina / che misura i secondi / non uno va via / senza che
lei lo conti".
Ma il tempo è anche quello del succedersi delle stagioni della
vita, nel passaggio dall’infanzia (rievocata a più riprese,
in flash di memoria) all’età matura, un avvicendamento in
cui il tempo pare proseguire su due binari paralleli, in cui il tempo
(fisico) della crescita esteriore non corrisponde a quello della maturazione
interiore: "ci sono momenti in cui cresciamo fuori e ci vedono /
ci sono momenti in cui cresciamo dentro e solo / noi vediamo e siamo più
grandi di un palazzo / e più grandi di una balena e nessuno dico
nessuno / è capace di vedere quanto siamo cresciuti".
Questa evoluzione, questo passaggio da una fase all’altra della
vita si riflette nel cambiamento dell’aspetto della casa, ovvero
nella metamorfosi che subisce il "dentro", l’anima, con
l’accumularsi del dolore e dell’esperienza. Dalla "cuccia"
della sua casa bianca, che si preoccupa di non riempire troppo, affinché
"ci sia posto anche per noi", il poeta può riguardare
alla "casa gialla", a quel tempo interiore dell’anima
in cui tutto era luce e calore, e che "aveva bei finestroni che io
schiudevo / alla luce e tutto era giallo dalle posate / alle tende dalle
finestre alle pentole". E può guardare alla "casa nera",
all’anima colma di notte e divenuta prigione: "ed eri felice
perché la notte non / la temevi ma io dentro la notte / ero caduta
dicevo non ci so stare / non trovo l’entrata né mai sono
/ capace di ritrovare l’uscita". E può infine guardare
a quell’altra casa, a quell’anima che occorreva lustrare continuamente,
che doveva essere "ripulita non so da cosa ma il / fatto è
che era sempre sporca".
Ma la casa ideale, quella del sogno, è il guscio della lumaca (sognavo
una casa sulle spalle), la dimora che avvolge, affinché si resti
nel dentro, con la "la comodità di partire / con
dentro il corpo le pareti / per avvolgerlo", affinché l’interno
sia protetto, e il corpo abbia in sé la difesa dal fuori, quella
"culla" dove custodire esperienza e ricordo.
Ma anche al di fuori del sogno, anche nella "casa bianca" è
entrata la quiete a sanare ferite che parevano inguaribili, così
che l’anno nuovo è davvero libero di entrare:
"io guarisco da sola ritrovo
il mio letto mi stendo poi
leggo mi svago immagino
viaggi da fare partenze
fermate ritorni poi mi
stanco rimbocco le
coperte dormo".
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