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Intervista
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Verso Occidente
di Maria Lenti
Fluisce caldo, senza interruzioni e di poesia in poesia, quasi a coagularsi
in poemetti, il verso di Narda Fattori
nel suo ultimo libro, Verso
Occidente (Fara, 2004) in una rara, e nuova anche per lei,
forma in cui non si dà distacco tra creatività e pensiero,
tra immagine e parola che la significa. Un respiro arioso, assurto a trama
linguistica e stilistica, dato alla caratteristica già presente
nelle raccolte L’una e i falò del 1998,
Terra di nessuno dell’anno successivo: la cantabilità,
con le varianti in cui essa si dipana, cioè l’ironia leggera,
l’apoditticità, l’antilogia, certe gradazioni toniche
discendenti.
In questo tessuto si snoda il colloquio con l’entità vita:
affettuoso per il tanto amore che le si porta, risentito per quanto essa
non restituisce, per gli agguati che tende agli inseguimenti. Ma chissà
che tutto non stia, invece, nel gioco che si apre con il venire al mondo,
apertura guardata per tutto l’arco dell’esistenza nei gesti
e nelle parole, negli insegnamenti e nel silenzio, nelle durezze e nelle
lontananze, nel volere e desiderare e fare, in libertà, anche e
nonostante i doveri. Dall’alba al tramonto, con ciò che lo
spazio di tempo ed il suo luogo contengono di prosaico e di sublimine,
di evidente e di nascosto, di percepito (o intuito) e di reale con i suoi
sconfinamenti.
"Forse il dolore è l’insonnia degli dei / forse è
solo il by-pass per traghettare / un altro giorno" scrive Narda Fattori.
Il dubitativo per una domanda nata forse con la nascita stessa dell’essere
umano, domanda che corre accanto al vivente e lo rincorre o lo anticipa,
incardinata su un perché senza risposte e sciolta attraverso uno
sguardo ostinatamente amoroso: è la domanda sul tempo che passa,
l’infanzia che s’allontana con la sua innocenza e la sua inconsapevole,
dunque irreale, felicità, le braccia del tempo e degli altri, calde,
restate lì dove ci hanno abbracciato o svanite nell’aleatorietà
del sogno sfibrato su un desiderio che resiste.
"Ti dicevo che era come un perdersi / dentro una ragnatela d’oro
/ dove abita l’agguato a tutto tondo / l’amore un desiderio
un canto / dentro la carne ed è resa dei conti". La poesia,
allora, come è stato da sempre ed in ogni latitudine, diventa culla
di una religione della vita a cui non si rinuncia pur nello scacco della
rinuncia obbligata.
Nel tempo di oggi, in cui tutto appare sfaldato, sfibrato, in cui i rammendi
appaiono rabberciamenti forniti alla e dalla memoria per i nostri giorni
in ogni caso da vivere, quella domanda e la poesia che la contiene si
snodano non più alla ricerca di un senso (il novecento ci ha lasciato
anche in tale frangia a mani vuote e nemmeno su una soglia, dietro un
paravento) ma nel fluire della constatazione appassionata e/o irridente,
a volte ancora appesa a un filo di conferma e di acquisizione di essa.
Una sorta di “sapere” non taciuto. Mai smentito.
In questa modalità può essersi già insinuata, o può
aver fornito l’humus di partenza, la poetica (le poetiche)
di autori di un sottofondo contestuale fatto proprio perché lì
sono le radici: un terreno fertile, per esempio, come quello della Romagna,
andato oltre se stesso per depositarsi nel novecento letterario italiano
come poesia che connota la lingua (anche
quella del dialetto) e i versi da Pascoli in poi, fino ad oggi, fino a
Guerra, a Baldassari, a Giuliana Rocchi - per restare alla terra dell’autrice
di Verso Occidente
- e connota anche un filone (i poeti veneti, altro esempio, o scrittrici
dal cuore caldo nei versi e nella prosa, ma anche gli spagnoli della “terra
e della vita” conosciuti dentro gli anni sessanta-settanta) che
si misura con quelle radici segnandone il distacco.
Con questi materiali Narda Fattori connota il suo (il nostro) oggi. Un
oggi, hanno rilevato i suoi critici, Andrea Brigliadori, tra gli altri,
è sì un oggi privo di un personale goduto a piene
mani nell’infanzia e nell’adolescenza, goduto perché
era stato possibile, in quel tempo, sentire, prefigurarsi un seguito,
chiamato banalmente futuro, e adoperarsi perché fosse: dunque,
non solo l’illusione bella, amica della bella giovinezza, ma anche
la speranza che il nostro fare confluisse in un costruire. Per sé
e per altri. Con altri. Verso
Occidente accoglie, di quel tempo, parole e gesti, simboli
(lucciole e arcobaleni), le sere, gli altari, i tabernacoli, l’aratro
nel campo, le mani di fatica, ecc. Di oggi, accoglie il silenzio, le insignificanze,
le attese che non finiscono e tuttavia inutili, il sottofondo di nullità
nella proposta di un antidoto alla crisi o di un lenimento del danno;
accoglie un monologo-dialogo fitto con la madre che ha dato la vita e
che, ora nel momento della sua malattia e della sua morte, la toglie togliendo
il fiato a sé e a chi è lì a vedersela morire, incapace
di farla vivere, impossibilitata a farla guarire.
Un poeta sa, Narda Fattori sa, che chiudendo la sua raccolta con il canto
alla madre, Canto per Maria, andrà a toccare i
gangli profondi di quel segmento in cui madre e figlia si
ritrovano: la vita che si sottrae e quella che continua, il dolore in
ogni caso, il coraggio e la forza in ogni caso, la lingua da trovare per
dire tutto ciò, la coscienza di una supplica, un desiderio ancora:
"Ma non andare là dove gli ulivi invecchiano in fretta / (…)
resta dove il mirto ha bacche rosse / (…)". Non si vada verso
occidente, pur andando verso occidente. Si vada dove si può continuare
ad essere.
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