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Il libro
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Intervista ad Armando Conti
autore di Stati di nebbia e altri racconti
Cosa puoi dire di te a chi non ti conosce per dargli una idea
di chi sei, di cosa ti piace, del tuo passato di autore e non solo?
Come hai scoperto l’amore per la scrittura e quali
sono stati i tuoi testi “capitali”?
Cosa pensi del mondo del libro oggi?
Posso cominciare da dove voglio?
Bene.
Allora… Dalle mie parti c’è una stradina che si perde
nella campagna. “Strada della Maestà dei Violini”,
si chiama. Sono anni che, ogni tanto, ci passo davanti e, mentre passo,
do un’occhiata di sfuggita. Mi piace il nome e ancora di più
il suo serpeggiare e perdersi nella pianura fin chissà dove. Ma
non l’ho mai percorsa. Alcune curiosità sono destinate ad
aspettare, prima di essere appagate.
Oppure… Un giorno, sarà stato il febbraio di un paio d’anni
fa, ho alzato la mano e ho raccolto, tra i rovi che pendevano da un vecchio
pergolato, un grappolo d’uva strinato dal gelo. Mentre assaggiavo
con circospezione un acino amaro, ho individuato tra gli arbusti il tronco
contorto della vite, tanto grosso che non riuscivo a circondarlo con entrambe
le mani. Era quanto restava della piccola vigna che, in base al capitolato
delle Regie Ferrovie, con il forno e poche altre cose costituiva l’arredo
esterno dell’abitazione del “guardafili”, una specie
di cantoniere che sul finire dell'800 aveva l’incarico di sorvegliare,
armato di schioppo e sciabola, un tratto dei binari. Oggi è solo
uno dei tanti “caselli” abbandonati e fatiscenti lungo la
Parma-La Spezia.
Sono solo due esempi e, sinceramente, non so neppure quanto possano essere
esemplificativi per chi mi ascolta.
Il mio lavoro mi porta spesso in giro per luoghi appartati e solitari
(e, intendiamoci bene, possono essere tali anche se le automobili sfrecciano
a pochi metri di distanza); a volte mi fa incontrare persone che dal microcosmo
della loro vita e della terra che li circonda hanno elaborato personali
teorie sulle cose del mondo e sulle leggi che governano l’universo.
Sarà una specie di effetto collaterale, ma da questi luoghi e da
questi incontri io, senza volerlo e senza neppure accorgermene, mi porto
via pezzi di ricordi non miei, frammenti di piccoli miti locali, zoologie
fantastiche, storie reali, sognate o solo possibili, e tante altre cose,
che continuano a girarmi disordinatamente per la testa. A volte se ne
stanno buone per anni e, ad un certo punto, riaffiorano improvvisamente
alla memoria.
Ora, se io fossi un brillante conversatore, forse mi accontenterei di
liberare tutte queste fantasie e questi embrioni di storie tra i tavolini
di un bar, ma, siccome non sono un abile intrattenitore e in queste situazioni
sono piuttosto quello che ascolta, solo la scrittura mi consente di scontare
un processo affabulatorio per me abbastanza lungo e faticoso.
Io sono nato l’8 giugno del 1959, ho fatto senza infamia e senza
lode i miei bravi studi classici e poi quelli scientifici, e posso parlare
con cognizione di causa solo di quello che conosco. Ne consegue che quello
che scrivo e descrivo è saldamente legato al territorio in cui
vivo e a un mondo empirico che potrebbe anche diventare sperimentale,
qualora si verificassero - e talora succede anche per le situazioni più
strane e fantastiche - quelle particolarissime condizioni di contorno
che proiettano nel reale anche l’irreale.
Ho letto abbastanza per studio e altrettanto per piacere, ma sono sempre
stato un lettore poco metodico; poi, a un certo punto, ho scoperto che
il mondo che conoscevo non era solo quello del qui e dell’ora, ma
che poteva non avere confini di tempo e di spazio: mi trovavo benissimo
tanto nei mondi contigui e geograficamente vicinissimi di Malerba alla
scoperta dell’alfabeto e di Cavazzoni vagabondo per la pianura e
per biblioteche notturne, quanto nelle pampas di Soriano; nelle divagazioni
per la campagna inglese di Sterne, quanto nelle foreste di Turgenev…
Io, la mia tesi di laurea l’ho battuta con una IBM elettrica a
testina rotante e le copie le ho fatte con una fotocopiatrice; se mi fossi
laureato qualche anno prima, avrei dovuto usare strati alternati di carta
velina e di carta a carbone e pigiare forte sui tasti di un vecchio arnese
meccanico. Probabilmente, se non ci fosse il computer (e prima ancora
certo cinema e certa televisione), non mi sarei mai messo a scrivere nulla
di più di relazioni tecniche e di altre cose “utili”.
Leggere, si può leggere sia su una pagina di carta che su un monitor.
Eppure, ancora oggi, non c’è nessuna tecnologia che possa
sostituire il piacere di salire in equilibrio precario in piedi su una
sedia (se si è da soli senza togliersi neppure le scarpe), per
prendere un libro dallo scaffale alto; poi sedersi e sfogliarlo.
Il libro dà peso, volume e consistenza alle parole, le coglie e
le fissa definitivamente in una forma e in una sequenza.
Le parole sono ancora troppo fragili per lasciarle vivere solo negli effimeri
flussi elettronici di un circuito.
(Fara Editore, febbraio 2005)
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