|
Il libro
|
|
Intervista a Leela Marampudi autrice di
Mal bianco
Come è nata l’idea di scrivere Mal bianco? Hai
in mente un lettore tipo che ti piacerebbe leggesse il tuo romanzo?
A far germogliare Mal bianco
dentro me è stato il cercare di osservare ad occhi aperti tante
situazioni all’interno del mondo femminile.
Ciò che mi ha colpito maggiormente nella mia osservazione è
stata la capacità di sognare di noi donne. Come se il sogno, qualunque
esso sia, a differenza dell’autenticità della vita, fosse
caratterizzato dal cercare di raggiungere un “copione” che
pensiamo qualcun’altra abbia già ottenuto.
Qualcun’altra: un’immagine di donna inventata da noi, per
noi, che forse pensiamo di stimare ma che, a volte, probabilmente invidiamo.
Un fantoccio nelle nostre mani, per sentirci più sicure, che asseconda
degli istinti perché non siamo ancora in grado di vederci, amarci
o perché chi ci ha viste non ci ha aiutate a capirci a nostra volta.
Altrimenti, siamo forse, istintivamente, tutte un po’ la Eva Harrington
di “All about Eve” che, nel film, dice: “…mi piaceva
inventare delle favole e recitarle a me stessa. Cose da bimbi, è
naturale. Ma quel mondo fantasioso e irreale cominciò a poco a
poco a riempirmi la vita. Finii per confondere la verità con il
sogno. Al punto che era quest’ultimo a sembrarmi reale.”
Non avevo in mente un potenziale lettore durante la stesura del romanzo.
Io ero solo i miei personaggi, con anche i loro problemi.
A posteriori, comunque, Mal Bianco
è un libro scritto in un modo semplice, adatto a tutti, uomini
e donne. Uno spunto per chi vuole, attraverso l’empatia, vedere
e capire contraddizioni, bugie a sé stesse, ma anche speranze e
valori del mondo femminile.
Quali letture sono state particolarmente importanti per la tua
formazione?
Ho iniziato tardi a dedicarmi, con un po’ di coscienza, alla lettura
di opere. Come una bambina, cercavo nella facilità e fingevo di
dedicarmi a ciò che mi veniva imposto. Ma quando una persona a
me molto cara mi ha regalato Oceano mare di Baricco, ho deciso di iniziare
realmente a leggere. Ma facevo fatica e non capivo perchè. Mi ricordo
che avevo scritto sulla prima di copertina: “Posso leggerti? Possiamo
essere amici?”
Ho pensato che in quel momento, forse, il mio timore era quello di non
rientrare negli standard dei lettori che lo scrittore aveva in mente.
Mi sentivo irrispettosa. Così, dopo aver scritto, a lato delle
pagine, delle lettere d’amore per aiutare un personaggio del libro
ad aspettare insieme un’amata, quel timore mi è passato del
tutto e ho riletto il libro facendone parte. Dopo di che ho scelto Kundera,
Pennac, Tagore, Fallaci… per decidere che, per il momento, il libro
che apprezzo di più è: La trilogia della città
di k. di Agota Kristof.
Attualmente sto cercando di dedicarmi maggiormente alla lettura, anche
per apprendere meglio la tecnica. Per poter arrivare ad un automatismo
mentale: non ti è mai capitato di essere al telefono e scarabocchiare
qualcosa con una matita su un foglio? Ecco: se la tecnica dell’illustrazione
possedesse già la tua mano, quello scarabocchio potrebbe essere
sorprendente.
Quali sono i tuoi interessi e come entra la scrittura nella tua
vita? Come ti definiresti come persona?
Mi fermo ad osservare tutto ciò che mi colpisce. Anche nei vari
ambiti artistici: letteratura, pittura, musica, cinematografia…
tutto può darmi un tassello in più per risolvere un’inquietudine
che ho visto.
Mi sono accostata alla scrittura nel modo più normale per una ragazza:
scrivere diari. Diari che, soprattutto durante la mia adolescenza, vivevano
di un’identità propria: dato che, secondo me, il mondo femminile
è spesso caratterizzato da un irrisolto complesso di Edipo, i miei
diari assumevano l’identità delle mie amiche. Per vedere
come si sarebbero comportate vivendo la mia vita. Ad un certo punto mi
accorgevo che quelle ragazze che per qualcosa stimavo avevano anche qualcosa
che non funzionava… qualcosa… un problema e allora il diario
continuava come storia inventata, per poterle aiutare a risolversi.
Credo di aver capito perché pubblico con uno pseudonimo: quando
scrivo fatico a riconoscermi. E ogni mio personaggio è un insieme
di identità che ho visto.
Come mi definirei? Rispetto all’argomento del libro, una donna come
tante… che, però, ha avuto la “fortuna” di trovare
uomini intelligenti che non l’assecondavano nei suoi copioni: sai
quando lei scoppia a piangere e si butta sul letto? La nostra regia vuole
che lui, entro cinque minuti, arrivi. Ecco: nei miei capricci non è
mai arrivato nessuno!
Onesta per necessità.
A parte le battute, sono fortunata nel poter vivere situazioni vere e
profonde e, a volte, permettermi di giocare coscientemente. Comunque,
scavando, scavando, io credo di essere una perenne bambina…
Pensi che si scriva per comunicare un messaggio, per rispecchiare
la realtà, per fare del proprio vissuto un modello di identificazione…?
Scrivo perché sento, nel momento in cui sta avvenendo il gesto,
che ciò che sto facendo ha un valore.
Un valore per me e per le identità a cui voglio bene attraverso
il cercare di risolverle.
Tutto il resto, per me, è solo una conseguenza.
Visto che sei di origine indiana, come ti poni di fronte alla
questione della interculturalità?
Penso che l’incontro tra culture diverse sia positivo. L’immigrato
che arriva in un paese straniero si deve confrontare, in primo luogo,
con una nuova realtà (partendo dalla lingua, che credo non sia
solo un mezzo per comunicare, ma anche una forma di espressione della
cultura che le ha dato origine) e, in secondo, con sé stesso, con
le proprie tradizioni a confronto con altre, per poter comprendere quanto
dalla cultura di origine gli sia stato imposto.
Questo è positivo perché, forse, l’immigrato, ma anche
chi si relaziona veramente con lui, può arrivare ad una nuova patria:
quella personale.
Per quanto mi riguarda, la mia condizione di adottiva mi ha portata inconsciamente
a cercare delle origini.
“Quella che noi chiamiamo rosa / con qualunque altro nome profumerebbe
con la stessa dolcezza”, scriveva Shakespeare: ma il profumo forse
viene percepito in modo diverso a seconda della cultura? Mah… mi
sembrava che alcune sfumature del mio profumo, qui, non venissero percepite
come le percepivo io.
Mi sono cercata più coscientemente attraverso viaggi di ritorno,
nella speranza di poter trovare un posto in cui stare a piedi nudi, perché
avere le scarpe, forse, vuol dire essere di passaggio e mi sono accorta
che anche in India accadeva lo stesso per altre sfumature ancora.
Nella totalità non mi ritrovavo da nessuna parte. Condizione questa
che mi dava una sensazione di grande libertà, ma anche di tortura,
perché credo che pure il più grande zingaro abbia bisogno
almeno di poter fare casa negli occhi di qualcuno e così credo
di aver fatto.
Ora mi sembra di poter dire che la mia patria è in ciò che
amo.
(Fara Editore, novembre 2006)
torna all'inizio
|
|