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il
libro
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Il coraggio dei sogni: un capolavoro
di Vincenzo
D'Alessio
Aprire le pagine di un libro, mettere in moto il motore del racconto
che l'autore/autrice ha realizzato meticolosamente, significa ascoltare
la voce che narra di tematiche diverse e di fenomenti sociali rilevanti.
Le persone che narrano della propria esistenza, delle vicende personali,
dell'avventura, dei sentimenti, delle perdite, racchiuse in questo stupendo
volume (357 pagine) confluiscono in quel fiume (Spoon River) della narrative
che si definisce dell'emigrazione.
Il tema è antichissimo e moderno al tempo stesso: un pendolo costretto
a oscillare in continuazione a causa della natura dell'Uomo, dei luoghi,
delle eterne vicende economiche/etniche. Eppure continuamente rimosso,
questo movimento, per paura di vedere il fondo del dolore che accompagna
il distacco dalla terra madre conosciuta, all'altra sconosciuta e definitiva,
se non addirittura necessaria.
Questo è quanto emerge dai racconti degli intervistati, di questa
seconda generazione del secolo ventesimo che ha conosciuto, o si è
ricollegata, alla prima emigrazione tra fine Ottocento ed inizi Novecento.
Fluire, disperdersi, annullare il dolore della perdita.
Zina Righi, autrice dell'opera, ha saputo cucire bene le voci e i dati,
come un coro, che all'unisono intona il suo "va pensiero" verdiano
(Nabucco) per quella terra che lo scomparso Semerano chiama: terra del
tramonto (Italia).
Letteratura dell'emigrazione, letteratura meridionale, ripresa dei contatti
con quelle riviste italiane sparse in tutti i continenti («Forum
Italicum», «Italian Quarterly», «Differentia»,
ecc.), il capolavoro di Righi apre le speranze che dell'emigrazione italiana
si parli in termini socioantropologici per accogliere chi ritorna senza
il dolore dell'estraneità.
La causa comune, per molti degli intervistati nel volume, dell'allontanamento
dall'Italia è stata la famiglia numerosa. In qualche caso la mancanza
di lavoro e la povertà. Soltanto sporadicamente per fattori politici.
Tutti però concordano che il ritorno è stato più
faticoso dell'allontanamento e del vivere lontani dai luoghi natali. Luoghi
che si sono rivelati ostili, insofferenti, inadeguati ad accettare costoro
che tornavano carici di differenti esperienze sociali. Vorremmo riprendere
le parole di un nostro irpino, Angelo Di Pietro di Morra de Sanctis: "Qui,
in Romagna, sono vent'anni, e sono ancora un estraneo" (p. 272).
Nel 1975, sul numero 185 della rivista «Vita Italiana», si
scriveva: "La conferenza nazionale dell'emigrazione si è conclusa
a Roma nella prospettiva di un superamento del fatto migratorio come necessità
imposta, a favore di una più libera scelta di mobilità da
parte dei lavoratori."
Quella 'libera scelta' non è mai stata tale, ad ascoltare le testimonianze
degli emigranti contenute in questo stupendo lavoro sull'emigrazione.
Quasi tutti hanno provato l'amarezza descritta nel bel romanzo di Saverio
Strati: Mani vuote. Tanta fatica, sacrifici, pianti,
amarezza, per una terra, quella di origine, e per i famigliari che si
rivelano perfetti nemici.
Chi è dunque l'emigrato che emerge dalle testimonianze contenute
nel volume? Il disagiato, l'analfabeta, il terrun? Scrive l'Autrice: "La
disoccupazione si ripropone continuamente e ciò costituisce la
riprova del fatto che l'emigrazione non rappresenta quel rimedio, quella
risorsa che si è sempre creduto" (p. 39).
Scrive Alfredo Varvara: Il boom economico lo hanno fatto i nostri emigranti!
Con i soldi che mandavano a casa. Per il resto, l'industria è quella
che ha rovinato l'Italia. Hanno saputo solo farsi mantenere dallo stato.
Privatizzare gli utili e socializzare gli oneri. Questa è stata
sempre la politica degli imprenditori italiani. In Germania esiste il
senso dello stato che manca da noi" (p. 344)
A nostro avviso questo libro va letto e diffuso. Amato e conteso. Trasmesso
e: "tutto va detto. Per sottrarre il passato al suo destino di oblio,
come si diceva all'inizio. Per dare spessore anche al presente" (p.
30).
Montoro Inferiore, luglio 2005
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