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il
libro
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E la luna partì
di Vincenzo
D'Alessio
Il racconto scritto da Gilberto
Ciavatta che reca nel titolo la congiunzione per rafforzare l'idea
della partenza del pianeta conosciuto dagli esseri umano con il nome di
Luna prende spunto da un'affermazione dell'Autore inserita nel testo:
"La noia è un nemico attento e crudele" (p. 10).
Per vincere questo assalto non c'è altra soluzione della fuga?
Certamente c'è il viaggio!
Benissimo, allora la partenza per questo viaggio nell'immaginario del
Nulla viene organizzato dal Nostro per sé e per i suoi lettori:
"Mi ritrovo davanti alla mia immagine riflessa e mi vedo spogliato
e ferito. Quasi non mi riconosco. Ho paura di quell'immagine e i miei
occhi lacrimano quando la guardano."
Eccoci al punto di partenza del racconto. Alla necessità impellente
di lanciarsi nel buio della realtà per scoprire l'impossibile della
verità nel reale.
Per abitudine alla lettura mi ritorna alla mente la figura dello scrittore
Tommaso Landolfi e delle belle parole che Carlo Betocchi scrisse di lui
nel 1981: "Tommaso Landolfi era uno di quelli, rari come le mosche
bianche, che aveva capito a priori, così com'era nato, che tutto
non è che sembianza: ma non è vero nulla" (Gradiva).
Ciavatta nel suo racconto adopera lo stesso strumento espressivo, fa in
modo che l'irreale penetri senza far rumore nel percorso letterario e
stimoli, soggiogandolo, l'interlocutore-egli stesso, liberandolo dall'oppressione
di una dimensione e di una parvenza umana.
La prima cosa a cadere fuori dal racconto è il tempo, questa misura
opprimente dell'uomo moderno, e lentamente l'articolarsi delle vicende
raggiunge l'immaginario collettivo di un Infinito posto nel finito di
ogni essere vivente. La torre compare e scompare. La Babele delle generazioni
si compone e scompone come i mattoni di un muro: un altro mattone da togliere
o da inserire nel muro (un mito musicale comparso in molte canzoni del
finire dello scorso ventesimo secolo).
Il ricorso all'angoscia, al dolore metafisico, alla scrittura giornalistica
fatta di periodi brevi incollati come in un articolo, mescolati insieme
danno l'idea di un linguaggio emozionante, forbito, ludico, che avvicina
il lettore a quella semplice essenza di fondo che è la visione
filosofica ironica: l'esitenza non è altro che la parvenza di sé,
l'antro da cui guardare, il velo da squarciare, la parola da corrompere.
Infine il gioco prende il sopravvento e il bambino abbraccia sé
stesso, come in un opaco specchio dei desideri qual è la Luna:
"Il silenzio in quel momento era l'unico modo per vivere e trasmettere
quello che provavava. Il bimbo vedeva nel suo cuore perché l'amava
e questo era tutto" (p. 73).
Dalla lettura di questo "presunto" testo scaturisce il testo
vero della realtà che c'è intorno a noi.
Montoro Inferiore, febbraio 2005
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