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Intervista
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Verso Occidente
di Anna Maria Tamburini
Ciò che attiene a un tempo passato della durata, forse non ancora
– o mai, finché c'è vita – concluso, suscita
"parole piene" (p. 39) anche quando il ricordo sfiora momenti
di fame, o di freddo; ma c'era anche allora un bisogno, un vuoto da colmare,
come ora. La nostalgia di oggi volge alla terra dell’origine e però
non si nutre di illusioni sulla fiaba dell'infanzia. È la "vocazione"
che si riconosce innegabilmente – e non si può tradire –
"al tutto pieno" (p. 45).
Palpitante di vita, pure perfettamente consapevole delle sue disillusioni,
questa poesia affabula un vissuto del quale non può perdere le
connessioni biologiche affettive e culturali esistenzialmente necessarie
al vivere qui e ora, al tempo stesso in cui fulmineamente coglie e ferma
le situazioni, i sintomi e i postumi del malessere individuale e sociale
dell'oggi, che è disagio e malattia, è corsa frenetica e
percorso nel labirinto o nella selva. Il by-pass si colloca dunque in
una topografia – e "cognizione" (p. 48) – del dolore,
anche e soprattutto personale, esattamente come il telepass nella schizofrenia
della corsa che la metafora della strada esemplarmente rappresenta di
questo malato modello sociale d'occidente: "La via Emilia
non è più una strada / è inscritta nella pelle come
il destino / dove la vita è una corsa scalza / e d’ improvviso
Piazza Grande tace" (p. 37); e ora non più il canto, ma con
sottile triste ironia, "i liquami e i detriti sono
giunti alle stelle" (p. 57). Il participio presente – di Verso
Occidente – da cui deriva questo sostantivo storicamente così
dominante, così imperiosamente imperante, è insidiosamente
tragico nel suo destino, in questo lessico che ormai agisce sulla sintassi
forzandone le funzioni, agendo sulle contiguità semantiche tra
verso e verso ("Fu come l'avessimo sempre saputo / che si compie
a ruzzoloni il gran tragitto / una finestra che non chiude la chiave che
manca / il gradino spaiato e giù in ginocchio", p. 36).
La poesia di Verso occidente
scaturisce dal medesimo sguardo, scrutatore anche di frazioni di attimo,
di Terra di nessuno; l'occhio non è mutato, ma la lingua,
sempre attuale, testimonia di nuovi passaggi del vissuto, di "abbrivi"
(p. 40) e forzature, come "in-coscienza" (p. 28), "dis-amore,
dis-peranza, dis-ancorata" (p. 43). Le forme verbali o nominali insistono
e anche ambiguamente giocano sulle funzionalità sintattiche: "arabesco
la via d'uscita" ( p. 42), "mal intesi" (p. 42); ma in
questo reiterato nostro essere "niente" è programmaticamente
annunciata già in incipit l'urgenza di ridefinire un senso: "ridisegno
la pianta del mio esistere" ( p. 27), necessità rimarcata
anche graficamente. D'altra parte "perdersi è infine ritrovarsi";
e se pure ognuno è niente, "tu sei meno di niente e pure tutto
/ forma finita e infinito incanto": non a caso nella successione
sintagmatica il chiasmo fa perno sull'ossimoro che si crea, raddoppiandosi
nel secondo verso, tra aggettivo e attributo, semanticamente opposti per
derivazione negativa, ma fonologicamente il secondo inclusivo del primo.
Ai poeti amati più vicini come Leopardi Montale Dante Pascoli si
associa ora un nome nuovo, ancora poco noto forse ma non meno vicino,
non meno familiare anche per contiguità geografica, del quale si
avverte una lettura attenta, che interpreta e interloquisce: già
in apertura di raccolta il primo explicit annota "vittime e carnefici
al tramonto / inestricabile che si chiama vita"; e, a seguire, la
presenza di alcune parole chiave e poliedriche – tra le quali in
primo luogo "dispera", ad altre affini, come "disamore",
polisemiche per via del prefisso che accusa al tempo stesso una mancanza,
o separazione, e un'anomalia fisiologica, o alterazione –. Ed è,
inevitabilmente, Agostino
Venanzio Reali che è divenuto ormai presenza amica e fraterna,
spesso consonante: una speranza, magari "di-sperante", informa
sempre anche questa poesia, calda d'affetti per quanto scevra da sentimentalismi.
Quel "cerchio di immagini" che sostanzia la poesia di Narda
Fattori cui fa riferimento Andrea Brigliadori nelle vesti del prefatore,
tratte dalla realtà agreste dell'ambiente paesano che rimandano
ad "un corredo poetico già profondamente assimilato dalla
tradizione novecentesca – capostipiti Pascoli e in una certa misura
Montale" –, non è inattuale non solo perché costituisce
l'ambito in cui si è più intensamente radicata l'esperienza
esistenziale della scrittrice ma perché esattamente restituisce
volti, presenze, caratteri, costumi di quelle medesime terre, pascoliane
o realiane che siano, magari morfologicamente diverse, ma non socialmente,
non culturalmente. Il ciocco, i pasquaroli… appartengono non a tratti
folklorici del passato ma a una storia che riconosce volti cari dietro
ai riti che hanno ritmato le stagioni della vita e che spesso è
trascritta al presente, senza soluzione di continuità.
"Ho cercato in questi versi che hanno faticato a vedere la luce per
mancanza di un progetto (il mio stato di salute non me lo concedeva) di
eliminare la dicotomia presente e passato, non c'è un prima e un
dopo ma uno scorrere un fluire della vita che chiede di farsi voce anche
quando il silenzio la sovrasta. E chiede ragioni e verità. Così
il sé e il fuori di sé si intersecano", confida Narda.
I luoghi della memoria – è naturale e inevitabile –
rappresentano gli archetipi portatori di senso al vivere e alla scrittura.
E le presenze, invero, che più frequentemente si accasano in questa
poesia, siano esse presenze vitali del mondo naturale, o memorie poetico-letterarie,
se pure muovono da una medesima provincia agreste, si sintonizzano sulle
dimensioni alte della migliore tradizione letteraria, non solo strettamente
poetica.
(pubblicato anche in Atelier
n. 36, anno IX - dic 2004)
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