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Il libro
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Intervista a William Stabile autore di
Contrappunti e Tre Poesie Creole
Intervista a cura di Luigi
Metropoli
Luigi Metropoli: Più che nello stile, la creolità,
il tema ricorrente della tua raccolta di poesia fin dal titolo (con rimando
anche alla materia musicale), sembra emergere dallo sfondo: luoghi, rimandi,
alcuni paesaggi e frutti tropicali che abbondano tra i versi. Tuttavia
lo spagnolo, il portoghese-brasiliano e l’inglese si innestano sull’italiano.
“La verità sta nel contrappunto”, scrivi nella prima
poesia. Cosa è per te la creolità e come un poeta dell’Occidente
“Sviluppato” può renderla nei suoi versi e/o farsene
portavoce? Quale il suo valore politico?
William Stabile: Per quanto mi riguarda, la creolità
è un moto interno; il veicolo di espressione del mio essere poeta
nel mondo, di trasformarmi ogni volta in uomo nuovo.
Non molto tempo fa, con un amico ben grasso, che oramai ha scelto di trasformarsi
in un sottile ectoplasma metropolitano, mettemmo su carta questi assiomi
che tengo sul mio tavolo di lavoro:
“Sense can transmit between languages. There is no need for communication
to be held within one set of symbols. Order is not significant…
Inspiration of Amalgamation is shared and boundless.”
Ciò che mi interessa è esplorare il concetto di creolità
o quello che io chiamo (mutuandolo dalla Teoria dei Grafi che ho conosciuto
grazie al Prof. David Cariolaro e al grande scienziato Prof. Crispin St.
John Alvah Nash-William) Amalgamation.
“Amalgamation means that communications through symbols can have
multiple authors.”
L’obiettivo finale è quello di poter scrivere, un giorno,
un poema, in varie lingue, un opera che tutti possano leggere ed intendere,
che a tutti possa comunicare…
Una opera dove possano fondersi tutte le discipline, le Arti, senza distinzioni
né gerarchie. Un opera “creola”.
Un poeta dell’Occidente “Sviluppato” come dici tu, ed
io aggiungo la S di “Sfruttatore” a maggior ragione, oggi,
non può ingannare o ingannarsi. Non possiamo confondere il concetto
di globalizzazione con creolità. Oggi, si crede, o tendiamo a credere,
che il mondo è globale e quindi avvicina le differenze e le sa
miscelare. In verità, le distrugge. La creolità esalta le
differenze e si scontra con l’uniformità e la standardizzazione
imperante.
Personalmente, quando parlo di creolità penso ad una regione specifica
della terra: i Caraibi. Chi abbia esperito i Caraibi ha gli strumenti
adatti per leggere la creolità. Sa che lì forme di espressione
artistiche hanno sempre un valore politico.
Non c’è altra via per il creolo di essere nel mondo che la
via politica. Il poeta creolo è un uomo politico. Anche se non
è quello che i partiti le idee e gli ideologi di sinistra vogliono
imbrigliare. Poi, un valore artistico-politico della creolità è
stato già espresso nella Conferenza pronunciata domenica 22 maggio
1988 al Festival Caraibico della Seine-Saint-Denis contenuta nel libro
Elogio della Creolità. Questo libro è stato uno
dei miei testi di formazione, un testo che invito a leggere.
Eccone un passo:
ELOGIO DELLA CREOLITÀ
di Bernabé, Chamoiseau, Confiant
Noi non siamo europei né africani né asiatici,
ci dichiariamo creoli. Il nostro sarà un atteggiamento interiore,
una vigilanza, meglio ancora, una specie di involucro mentale al cui interno
costruiremo il nostro mondo nella piena consapevolezza del mondo. Queste
parole non si fondano su una teoria o su principi scientifici. Sono una
testimonianza. Derivano da un’esperienza infruttuosa che abbiamo
fatto prima di impegnarci a riattivare il nostro potenziale creativo e
a esprimere quello che in realtá siamo. Non ci rivolgiamo solo
agli scrittori, ma a tutti gli artisti delle nostre terre [...] a qualunque
disciplina appartengano, che siano alla ricerca dolorosa di un pensiero
più fecondo, un’espressione più adeguata, un’estetica
più vera. Con l’augurio che questa prospettiva possa essere
utile ad altri, come è utile a noi, e possa far emergere in qualcuno
dei nostri paesi grandi personalità che abbiano radici nell’identità
creola e sappiano rappresentarla, aprendoci contemporaneamente le vie
del mondo e della libertà. [...]
La Creolitá ci libera dal mondo antico. Ma, in questo nuovo
movimento, cercheremo il massimo di comunicabilitá compatibile
con l’espressione estrema di una particolarità [...]
La nostra immersione nella creolità non sarà incomunicabile
ma non sarà nemmeno totalmente comunicabile. Lo sarà con
le sue opacità, l’opacità che restituiamo ai processi
della comunicazione tra gli uomini. Rinchiudersi nella Creolità
sarebbe contraddire il proprio principio costruttivo – negarla.
Sarebbe trasformare l’emozione iniziale in una meccanica vuota,
che gira a vuoto, che si impoverisce progressivamente, come quelle civiltà
dominatrici oggi scomparse. [...] La nostra creolità dovrà
diventare patrimonio nostro, dovrà strutturarsi, preservarsi, pur
modificandosi e arricchendosi. Sopravvivere nella diversità. L’integrazione
di questo doppio movimento favorirà la nostra vitalità creativa
in piena autenticità. Ci eviterà anche un ritorno all’ordine
totalitario del vecchio mondo, irrigidito dalla tentazione dell’Uno
e del definitivo. [...] La cultura viva, e ancor più la Creolità,
è una eccitazione permanente di desiderio conviviale. E se raccomandiamo
ai nostri artisti questa esplorazione delle nostre caratteristiche peculiari
è perché essa riconduce alla naturalità del mondo,
lontano dall’Identico e dall’Uno e perché oppone all’Universalità,
tutte le opportunità del mondo diffratto ma ricomposto, l’armonizzazione
cosciente delle diversità preservate: la DIVERSALITÀ.
Il mondo si muove verso uno stato diffuso di creolità. Le vecchie
tensioni nazionali cedono di fronte all’avanzata di federazioni
le quali forse non vivranno a lungo. Sotto la scorza universale totalitaria,
il Diverso è sopravvissuto in piccoli popoli, in piccole lingue,
in piccole culture. Il mondo standardizzato brulica contradditoriamente
nel Diverso. Tutto in relazione con tutto, gli spazi si allargano, determinando
il paradosso di una tendenza all’uniformità generale e di
una contemporanea esaltazione delle differenze. E abbiamo il presentimento
che Babele è irrespirabile solo per gli spazi ristretti. Che non
sarà una preoccupazione per la grande voce dell’Europa che
si parli bretone in Bretagna, corso in corsica, che non sará un
problema per il Maghreb unificato che si parli berbero in Cabilia, o che
le popolazioni tuareg seguano le proprie abitudini nel proprio paese.
La capacità di integrare il diverso è sempre stata appannaggio
delle grandi potenze. Le culture si fondono, si diffondono in subculture,
generano esse stesse nuovi aggregati culturali. Pensare oggi il mondo,
l’identità di un uomo, il principio di un popolo o di una
cultura, con i criteri di valutazione del diciottesimo o del diciannovesimo
secolo sarebbe riduttivo. Con sempre maggior forza emergerà una
nuova umanità creola: tutta la complessità della Creolità.
Il figlio nato e residente a Pechino, di un tedesco che ha sposato
una haitiana, sarà diviso e combattuto tra più lingue, più
storie, preso nell’ambiguitù torrenziale di un’identità
mosaico. Dovrà, pena la morte creativa, pensarla in tutta la sua
complessità. Sarà nella condizione creola.
L.M.: Tu parli diverse lingue e hai viaggiato
molto, inoltre vivi all’estero da tempo. La creolità può
essere letta, oltre che come melting, come non-permanenza?
W.S.: La creolità la vivo anche
come non-permanenza. Ho vissuto in vari posti del mondo ed esperito luoghi
e persone diverse. Penso di non poter stare troppo a lungo in un posto.
Fa parte del modo in cui sento la vita e il lavoro dello scrivere. Devi
essere un non- permanente per conoscere ciò che vuoi ancora scrivere;
ciò che può lasciare una impronta – permanente.
L.M.: In coda alla raccolta presenti tre
traduzioni da William
Wall. La traduzione è, banalmente detto, un passaggio da una
lingua ad un’altra: ha, nelle intenzioni del libro, affinità
con la creolità?
W.S.: Il passo dallo scrivere poesie a
tradurle è un passo breve, naturale. Quando sei un curioso di tutto
e vuoi conoscere l’essere umano arrivi a voler capire a fondo, a
vivere attraverso l’altro in una sorta d’immedesimazione.
Così sono arrivato a William
Wall lentamente, attraverso una mia cara amica che è una sua
parente. Poi, ho iniziato a leggerlo e me ne sono innamorato. Il poeta
vive anche nella traduzione perché trasforma, modella questo “prodotto”
inutile eppure essenziale che è la poesia… Tuttavia Wall
è anche un poeta dal dolore impattante, devo dire.
L.M.: Nei tuoi versi e in exergo alle tue
poesie vi sono molti riferimenti-omaggi ad autori del passato. Sembra
quasi un dialogo ininterrotto, un volere appartenere ad una comunità.
Una poesia in particolare, La Gran Signora, allude quasi ad un’eredità
e, in ogni caso, all’essere poeti oggi. Ora lavori a Londra, nel
più grande centro finanziario d’Europa, per un’agenzia
di stampa. Chi è il poeta nell’era della globalizzazione?
Ha ancora una funzione, un ruolo?
W.S.: Il poeta è la parte più
avanzata della società. Volendo adoperare un termine politico:
l’avanguardia cosciente. Ma è anche soprattuto il dolore
della società, la parte che stride e duole e che sente che qualcosa
non va. È in questa stessa contraddizione continua che il poeta
vive, e applica un piano segreto che non posso rivelare. Sì, la
funzione del poeta nella società è quella di applicare un
suo proprio piano rivoluzionario sconosciuto ai più. In inglese
si direbbe: “a man with a plan”.
L.M.: Ad un certo punto scrivi: “amo
l’antipoesia”. Addio capitalismo è un’antipoesia?
Se sì, quanto una scelta stilistica è una scelta politica?
W.S.: Addio Capitalismo è
un'anti-poesia alla Nicanor Parra ma con influssi benedettiani (cfr. Chau
Pesimismo). Il poeta è un provocatore, un duende
lorchiano. Ed anche un soggetto che sfugge alle categorie, alle logiche
degli ingranaggi della Macchina ed usa l’anti-poesia come mezzo
attuale di espressione ribelle in questo vissuto giornaliero che è
maledettamente anti-poetico/anti-umano.
L.M.: “sì io sono un comunista
/ solo perché penso un po’ / non faccio shopping a Natale
/ non voglio l’I Pod / e me ne vado a spasso piano”. Comunista
e capacità di pensare, come se le due cose si dessero insieme,
indissolubilmente. Non è alterigia? Provocazione a parte, per estendere
la domanda precedente, quanto il poeta agisce sul comunista e viceversa?
W.S.: Io non sono un comunista nel senso
stretto. Sebbene abbia studiato in una università conosciuta per
avere un humus con forti connotazioni politiche di sinistra anche
radicale (l’Istituto Orientale a Napoli), non ho mai avuto una vera
formazione politica di sinistra. Eppure sono uomo del popolo e non posso
non sentirmi di sinistra, se comunista vuole ancora dire: essere critico.
È una condizione naturale del poeta. Per il resto dobbiamo chiedere
a Vincenzo
D’Alessio, che ha letto meglio la mia storia personale più
di quanto abbia fatto io stesso.
L.M.: Infine, non ami particolarmente internet.
Puoi argomentare le tue perplessità sul mezzo, nello specifico,
in relazione all’essere poeta?
W.S.: Per rispondere alla tua ultima domanda…
Credo di avere due grandi fissazioni: una per le fughe ed un'altra per
l’uomo.
Trovo internet/il computer stancante e depressivo, superficiale. Mi fa
un effetto catatonico. Assopisce le mie profondità neuronali nel
costringermi a stare in superficie surfando la rete. Non riesco ad essere
tutt’uno con la macchina, a pensare con i suoi tempi e processi
che richiedono azioni/comportamenti fisico-mentali statici e ripetitivi.
Internet è la morte del processo di creazione. È la
rete che incontra l’uomo d’oggi lungo il sentiero della ricerca,
della scoperta.
E inoltre noto una differenza tra chi come me è nato quando la
macchina non c’era, e chi è nato insieme alla macchina. Ho
delle strutture e percorsi mentali che non possono funzionare in relazione
alla macchina, cozzano ogni secondo. La mia mente è libera dai
quattro angoli che lo schermo m’impone.
Internet? non ne abbiamo bisogno. Non abbiamo bisogno di macchine per
l’arte. Viviamo già un ambiente sufficientemente tecnologizzato.
Abbiamo bisogno di arte; di poeti e scrittori. Perché solo l’arte
può aiutarci a capire noi stessi e ad analizzare il mondo che creiamo.
Sebbene il mio amico poeta Luca Paci sia stato capace con la sua sensibilità
vellutata di farmi apprezzare le potenzialità del mezzo, penso
che internet sia la febbre della nostra società: l’egocentrismo.
La presunzione, tutta umana, di percepirci come il baricentro dell’universo.
Mi reco spesso in una storica libreria internazionale di Londra che si
chiama Grant & Cutler ad ordinare il prossimo libro da leggere, e
quando uan volta il commesso mi chiese: ma perché viene da noi
ad ordinare i libri, lo può fare su Amazon, è più
semplice e veloce, allora pensai che… un poeta ama la ricerca, la
lentezza, la solitudine, la difficoltà nella quale egli si forma
e si rigenera.
La poesia richiede questo; basta rispondergli. Non m’interessa altro
che l’Arte e l’ Umano.
(In Clapham Junction, zona creola di Amalgamation, febbraio
2007)
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