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Intervista
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Stati di nebbia
di Vincenzo
D'Alessio
I racconti servono a ridarci il tempo che non abbiamo vissuto in altre
dimensioni, luoghi e forse un tempo al quale aspiriamo senza neanche dircelo
con convinzione.
I racconti che vanno dagli “Stati di nebbia” alla “Pita”
sono di una energia volvente che attira il lettore in un circuito “spiritato”
annunciato in ogni passaggio di parole, luoghi e personaggi che fanno
invidia al migliore Landolfi, specialmente nel racconto “La gelosia”
che molto si accosta a quegli animali misteriosi, con un’indole
quasi umana, pronti a contendere all’uomo-vittima spazi e circostanze
esitenziali (vedi le Lambrene landolfiane):
Un racconto tira l’altro e siamo alla fine: una scrittura rilucente
e ricca di arguzie letterarie.
Una sequenza ineludibile di buon uòore dal fondo sarcastico.
Le lotte sempre presenti fra ricchi e poveri, furbi e malcapitati, vicendo
che si affermano in un ritmo atemporale, fuori dal tempo ordinario, in
qualche modo vicini a quel racconto che ha ideato il film Non ci resta
che piangere, con i bravi attori Troisi e Benigni.
Personaggi e luoghi chiamati per nome ma che si possono collocare non
solo nella Bassa Padania ma in molti altri luoghi della nostra penisola.
La nebbia che stimola rivelazioni e l’istinto che prende il sopravvento
trascinando il lettore in tour dove si “naviga a vista”.
Personalmente l’idea di una grande orchestra che si esibisca sui
prati, di fronte ad un pubblico improvvisato e trasmetta “tutta
la musica del mondo” mi piace, anzi me è sempre piaciuta
perché la musica è un balsamo insostituibile per l’anima
del mondo, specialmente per quelle anime che ricevono ogni giorno sofferenze,
delitti, privazioni, miserie, castighi e morte.
Per un momento la scrittura del Conti mi ha richiamato alla mente, nella
figura di “Spaventapàser”, quella del Viggianese del
poeta Pietro Paolo Parzanese, irpino di nascita, apprezzato in Italia
e in Europa per i suoi bellissimi versi ispirati da questi cantastorie,
da questi girovaghi della musica, che suonavano ad orecchio e diffondevano
notizie ed accadimenti a chilometri di distanza, in epoche in cui né
la radio né la televisione né i giornali attraversavano
passi appenninici, fiumi in piena, aperte campagne, plaghe assolate. Emerge
anche la figura del fisarmonicista del romanzo Padre Padrone di Gavino
Ledda (“Per lunghi giorni, nella solitudine del pascolo, esaminò”
ecc., p. 36).
Un insieme di racconti ragguardevoli, un buon esempio di scrittura per
questo nuovo secolo.
Ottime le descrizioni dei luoghi, dei personaggi e degli avvenimenti,
ricche di particolari senza appesantire la mente di chi legge. Un frantoio
dove macinare antiche e nuove semenze umane.
Bello anche il racconto della “Pita” che in qualche modo richiama,
con il suo simbolismo, il romanzo di Giosè Rimanelli Tiro al piccione:
diverse angolature pur legate a quel simbolo che nel gioco delle care
piacentine è rappresentato da un aquilotto che per Rimanelli fu
il piccione la quale tiravano i partigiani della seconda guerra mondiale.
Vecchio e nuovo mondo a confronto. Fatti della vita che ritornano: come
il fallimento delle fabbriche in aree depresse che bene si ancorano alle
vicende irpine di questi anni.
Insomma in questi racconti c’è molto della nostra letteratura
appena consumatasi nel corso del ventesimo secolo e già si aprono,
in quel fenomeno insuperato della nebbia, gli spiragli di un solare terzo
millennio per gli uomini e la loro esistenza.
Montoro Inferiore, marzo 2005
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