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Corrado Giamboni. Il virus dell'elefante

 

 

LA GUERRA PROGRAMMATA

di Gianna Dallemulle Ausenak

È difficile trattare argomenti riguardanti la guerra nei Balcani senza dibattersi in un groviglio di sensazioni e un carico di significati emotivi che rende difficile il resoconto delle vicende. L'autore ci riesce perché i suoi presonaggi fanno i conti dal "di dentro" degli avvenimenti e delle conseguenze intrinseche alla follia bellica. Sin dal principio della pièce, in un mondo in cui tutto è confuso e capovolto, il confronto con la nuova realtà è un dramma umano insostenibile, per cui la ricerca di una soluzione sensata appare come un gioco estenuato e impossibile.
Come tutte le guerre (in buona parte dimenticate – importa a qualcuno del genocidio in atto nel Congo, ad esempio?), anche quella dei Balcani è stata progettata. Un paio di manigoldi criminali ha convinto il mondo che l'odio tribale era una prerogativa balcanica e constituiva una minaccia per la sigurezza del nuovo millennio. Urgeva, dunque, separare "quei popoli primitivi" con la forza, costasse quel che costasse. Per raggiungere lo scopo, anzitutto è stato necessario preparare per bene lo scenario (chi non ricorda le pseudo verità dell'Accademia delle Scienze di Belgrado del 1986?), seminare l'odio per il "nemico", demonizzarlo e convincere che le atrocità sono necessarie, disinformare e insistere finché la verità non si fosse deformata. Le folle applaudono, le folle sono convinte, bene, anzi benissimo, ora, atto secondo, sotto, andiamo a massacrare, distruggere, sradicare. Sì, è stato tutto fatto con molta cura. Eppure lo schema usato non era nuovo e nemmeno originale. Come le guerre, che non sono né sante, né fatte a fin di bene, ma sono semplicamente sporche e catastrofiche. Checché se ne dica, sono sempre guerre di poteri politici o economici, guerre di mafie antiche o emergenti, scrupolosamente programmate e "camuffate", e hanno tutte il medesimo scopo: dominio, potere, accumulazione di denaro, beni e territorio, petrolio, metano, vendita di armi, talvolta col supplemento della schizofrenia per il "posto nella storia" – tutto business giganteschi, insomma, come giganteschi sono gli imbrogli, le ladronerie, le fregature. Altroché libertà, altroché indipendenza, altroché sacro suolo!!
Questa, la riflessione sottesa al testo. Ma veniamo a Roulette balcanica. Se la quotidianità cammina accanto all'indifferenza della grande storia, la vita dell'uomo respira e pensa in piccolo, nel proprio microcosmo, l'unico che veramente gli stia a cuore. Ed è qui, nell'individuale, che per dar lettura dell'insieme, l'autore preferisce insinuarsi: lo specula e lo pedina fino al momento della sua tragica implosione. Il distacco, l'osservazione asettica di Gunjaca, in realtà sono soltanto apparenti: nell'umanità con la quale accompagna i suoi protagonisti nel loro disperato dibattersi traspare la proiezione della sua sensibilità, la com-partecipazione e la simpatia per i poveri cristi che vengono messi in croce dai soliti armaioli.
È tempo di entrare in scena.
In un appartamento privato, a Pola. È quasi mezzanotte di un giorno fine settembre. È il 1991, non un anno qualsiasi: la Jugoslavia si sta sfasciando e la guerra non è più solo un'ipotesi. Causa la situazione, dopo anni di amicizia, due capitani ell'Armata Popolare Jugoslava – Petar, serbo, e Mario, croato – si ritrovano avversari. Hanno bevuto parecchio e ora sono ingolfati in una bizzara discusione che ha per tema il suicidio di Petar. Questi, infatti, vuole farla finita e spera nell'aiuto dell'amico al quale va esponendo le sue ragioni. La decisione appare decisamente assurda, esagerata, ma Petar ha subito una doppia tragedia: in un colpo solo, afferma, ha perso famiglia e stato. Per opportunismo o chiaroveggenza (cambia qulacosa?), sua moglie, che è di nazionalità croata, se n'è andata portando con sé anche i figli. A lui, il mondo è crollato addosso, la vita stessa gli è scoppiata tra le mani. Può un uomo vivere senza la propria vita?, chi diventi, chi sei, se ti scippano l'identità, si chiede angosciato. Esiste, da qualche parte, una scappatoia? Sì, gli rispondo l'amico, se rinunci a te stesso e ai tuoi ideali, se cancelli con un gran colpo di spugna guella che è stata finora la tua vita, se abiuri tutto ciò in cui hai fermamente creduto, se indossi il paraocchi, se sacrifichi...

"E cosa dovrei sacrificare? Me stesso in quanto serbo, ufficiale e uomo, o me stesso in quanto serbo, padre e uomo? Capisci cosa voglio dire? In ogni caso sacrifico me stesso in quanto uomo. E se perdo ciò che di umano c'è in me, che me ne faccio del resto? (...) Che se ne fanno (i figli) di un padre che non sa chi è, non sa a chi appartiene? Se resto in Croazia, non potrò poratrli in Serbia, nella mia città natale. Se me ne vado in Serbia, non potrò venire qui a trovarli preché sarò l'invasore. Capisci. E non posso campare né senza la mia città natale, né senza i miei figli." (pp.63-64)

Denuncia e messaggio etico attraversano il dialogo tra i due ufficiali, passando per argomenti che toccano momenti salienti o anche piccoli eventi del passato e presente delle terre balcaniche, quelle terre dove l'inno nazionale è più importante dello stomaco pieno... Vi si mescolano momenti introspettivi caricati di tensione volutamente esagerata e tinti d'ironia a sottolineare la mentalità propria dell'ambiente cui appartengono i personaggi, e in alternanza a dialoghi all'apparenza banali, ma che all'improvviso si accendono di sofferenza verace. Non è nelle intenzioni dell'autore di mettere in atto un processo, ma di giungere passo passo alla verità tramite l'esposizione e l'analisi di una realtà più che amara.
L'entrata in scena di altri personaggi minori (il sergente Jovica della polizia militare, serbo, e Safet, poliziotto militare, bosniaco musulmano) segna il dramma di una connotazione farsesca, riproponendo ulteriormente il ruolo convenzionale della piccola gente che nel gioco impudico di chi comanda, conta meno che niente.
Ormai, il cerchio è prossimo a chiudersi. Né l'affetto di Mario, né i suoi appelli alla riflessione faranno desistere Petar dal suo tragico proposito, che nega l'appartenenza a un mondo diventato incomprensibile e ne evade nell'unico modo che giudica possibile. Dopo un ultimo plateale ascolto degli inni jugoslavo e croato, l'uomo si fa saltare le cervella.
Un lavoro di tutto rispetto, condotto molto bene in virtù dell'ottima conoscenza dell'argomento che l'autore tratta. Al di là dell'idea di fondo sul disastro a livello umano come conseguenza di una guerra, appare la decisa volontà di fare chiarezza, di interrogare le coscienze senza corteggiamenti filosofici, strada che Gunjaca percorre fino in fondo con impegno e buon senso del teatro.
Con l'augurio di veder alzare quanto prima il sipario su Roulette balcanica.

(in La Battana, Fiume, n. 148, 2003)

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