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Note

(1) Queste note ricostruiscono, grosso modo, il discorso improvvisato oralmente alla «Casa della poesia Pier Paolo Pasolini», il 28 ottobre 2006, presentando il libro Philologia Pauli (Fara, Rimini 2006).

(2) Al lettore nuovo, prefazione di Poesie, Garzanti, Milano 1970.

(3) Pasolini, nel Caos del 6 dicembre 1969: I dialoghi, a c. di G. C. Ferretti, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 736.

(4) Risvolto di copertina di Trasumanar e organizzar (Garzanti, Milano 1971).

Monologo sull'ambiguo

di Massimo Sannelli

Vengo – come si usa dire – a "parlare di corda in casa dell’impiccato" (1). Ma questa corda non è guardata se non come oggetto intellettuale: dunque è nominata con pudore, inevitabilmente. E così fino in fondo.
Pasolini si è proclamato Ambiguo. In che senso? L’idea diffusa di un Pasolini il cui lógos coincide in tutto con il sesso (l’omosessualità come ragione; ma la Ragione non è nel Desiderio) è imprecisa: soprattutto in un uomo che non nasconde amori intellettuali profondi e vincolanti (due dáimones classici, fino all’ultimo, sono Longhi e Contini: "chi potrà mai descrivere la mia gioia?" (2) per l’apprezzamento precoce di Contini; e tra gli inediti, la prosa del 1971 che inizia con "Che cosa è un maestro?", in onore e per amore di Longhi). Bisogna stare attenti a non defraudare Pasolini (e qualunque scrittore) del suo umanesimo.
In primo luogo, l’ambiguità è un fenomeno linguistico e retorico: si ha ambiguità quando "due elementi contrari costanti […] si scontrano dentro un’opera" (Tre riflessioni sul cinema, 1974) e, per estensione, dentro una vita (i due Carlo di Petrolio, in modo icastico). Gli elementi "costanti" fanno in modo che l’ambiguità sia un fenomeno duraturo o permanente, "dentro un’opera" o dentro una vita; e la prima conseguenza è l’insostituibilità o incurabilità dello status ambiguo. Tutto l’insieme, e per tutto il tempo, ne è investito.

1. La tendenza stilistica di Pasolini è questa: sintassi e lessico comuni e comprensibili, significato allusivo e/o oscuro. Il chiasmo e l’ossimoro comportano "due elementi contrari costanti". Ed è ambiguo, e spesso imbarazzante, questo affidare a parole+sintassi comuni concetti inafferrabili come "o esprimersi e morire o essere inespressi e immortali", "questa / tua vecchia abitudine al possesso è la tua morte!", "il mondo non mi vuole più e non lo sa" (quale mondo? cioè quali persone? e in che senso "vuole"? in che senso "non vuole"? e in che senso è ignorante? Ma non è del mondo pragmatico che qui si parla, probabilmente). La prima ambiguità è espressiva, autogestita con il piacere di dire sfigurando e/o/ma alludendo.

2. L’immagine pubblica di Pasolini è conviviale, fino alla deformazione di una realtà che qualche testimone onesto denuncia e che lo stesso Pasolini mostra: la solitudine. Alle pp. 54-55 di Philologia Pauli ne tento un piccolo campionario scritto, con i commenti di Paolo Di Paolo e di Dario Bellezza. Non importa quanto in realtà Pasolini fosse solo: importa che in testi pubblici, al riparo da qualsiasi destinazione intima, e pubblicati, si volesse accreditare come l’uomo "solo al mondo" e senza "banda". Né Laura Betti né i fratelli Citti, ad esempio, sono personaggi abituali della poesia di Pasolini – benché sia una poesia onnivora, per natura e abitudine. Altri (Morante e Moravia, Leonetti e Calvino), quando appaiono, sembrano citati più per colleganza, amichevole o polemica, che per affetto. Mentre l’amore – l’unico sentimento definibile così – è legato a pochissimi nomi: il focolare domestico (Graziella e la madre), il compagno, finché lo è stato (Ninetto), e la grande amica imbarazzante (Callas), finché è stata nell’orbita di Pier Paolo. Il sesso – non amore – è altra cosa: goduto con "corpi senza anima" di cui la poesia (onnivora, ecc.) non registra i nomi; mentre la nominazione è perfetta nell’appunto 55 di Petrolio – un epillio di omosessualità protettiva e sacra – in cui è troppo evocativa per essere realistica (e anche l’esagerazione del numero dei compagni, venti insieme, è un’occasione più letteraria che del mondo notturno). Dunque la seconda ambiguità è sociale: ciò che si vive è diverso da ciò che (e come) si percepisce, e l’immagine mondana è diversa dall’immagine interiore. E l’una e l’altra hanno altissimi margini di autenticità: non è un errore considerare Pasolini un uomo sociale; ma questa immagine non è accreditata in poesia, lavorando.

3. I testi sono in ogni caso la pietra dello scandalo. E pour cause, e in due sensi: perché nulla è più perentorio e definitivo di ciò che è scritto e perché, nello stesso tempo, nulla è più ignorabile e manipolabile. La perentorietà sarà eliminata senza dispiaceri, soprattutto quando lega altri – la società degli amici, in particolare – a colpe troppo pesanti. Ad esempio: meglio non ascoltare la potenza di una dichiarazione (da comunista, ma con un messaggio che piacerebbe a Pound, se non a Mussolini) come la libertà di scegliere la propria morte in Empirismo eretico. Come dire: chi non sceglie (di morire e come morire) non è libero (nella vita). Ma tra gli altri questo aforisma pesa e forma uno scandalo. Chi osa scegliere di non essere per essere?
Nei testi di Pasolini sono riversate autentiche "profezie", con questo nome. E la stessa morte dell’autore ne è l’argomento preferito: questa morte sarà prematura, violenta, infamante, e legata alla propria pratica di ‘santo’ (cfr. la scena, incredibilmente allusiva, dell’aggressione a san Paolo nella sceneggiatura omonima). In Philologia Pauli propongo di considerarla come l’ultima poesia e l’ultimo film, in un caso e nell’altro irripetibile ed estrema. Mentre se ne sono proposte almeno cinque interpretazioni, in una polisemia criminologica che – in me, istintivamente – fa pensare allo statuto della poesia.
Ciò che è ambiguo e sconvolgente è che tutte le versioni hanno buoni margini di plausibilità. Eppure la plausibilità di ogni versione deve confrontarsi con le profezie, poesia e non criminologia, di Pasolini. [A questo proposito, nel dibattito romano a «Casa Pasolini» Luigi Severi ricordava il concetto di "intenzionamento": ti esaspero perché tu mi uccida, la volontà è mia, e la colpa tua.] E quindi: le idee di Zigaina su un progetto rigorosissimo (morire di notte, di domenica, in un "recinto sacro", con il petto schiacciato, ecc.) sono rispettose della dignità dell’uomo; ma, come l’esagerazione del sesso defrauda Pasolini del suo amore intellettuale, così questa teoria ruba la morte al morto. Perché questi calcoli rigorosi non sono propri, di per sé, del poeta, ma di chiunque. E la personalità di questo evento – irripetibile: la morte di un uomo – viene umiliata nel momento stesso in cui se ne fa il panegirico. Ciò che è ambiguo e sconvolgente è che la ‘realtà’ dei Servizi Segreti o della malavita romana – da un lato – e la ‘realtà’ della profezia coesistono. O sono in simbiosi? Forse sono veramente in simbiosi. «Gettare il proprio corpo nella lotta» è un principio troppo bello (agli occhi di chi teorizza la libertà come scelta della morte) per renderlo chiaro. Dunque sarà sottoposto al regime della retorica, della poesia e dell’ambiguità: elementi contrari costanti.
Chi sceglie la propria morte? La mia impressione è che rispondere "il suicida" sia banale. Forse non è tanto il suicida di per sé, quanto chi si impone ferite innecessarie, creando o forzando un contesto, scenico e verbale: esattamente come nella Body Art. Voglio dire: nulla avviene senza un minimo di mediazione intellettuale. Questo significa ragionare, più o meno, così: io decido, io faccio, e io posso, perché – come diceva, anaforicamente, Pasolini – "io so", e "so" perché sono un poeta. "So in quanto sono" e "so chi sono" sono le proposizioni che se ne possono ricavare come emblemi: tra le più pericolose, perché implicano la più offensiva, cioè "so chi NON sono". La mia decisione è conseguenza di un "io sono", non di un meccanismo sociale e/o ideologico.
Questa terza ambiguità non è definibile in una formula. Riguarda la necessità di compromettere la luce con il buio, l’uomo del 1975 con l’uomo arcaico e "mitico", la ragione con le ragioni del Testo (cosa, storia, fatto; un corpo e una persona).

4. La quarta ambiguità è ineffabile. Riguarda il sorriso (ironico, di affetto, di pietà, a seconda dei casi) che accompagna la solitudine e il vuoto di Pasolini. La disperazione estremizza gli stili e ride forte, più come Pulcinella ("Napoli è l’ultima metropoli plebea": Lettere luterane: paragrafo primo) che come Dioniso. A Gennariello: "Non lasciarti tentare dai campioni dell’infelicità, della mutria cretina, della serietà ignorante. Sii allegro" (Lettere luterane: Siamo belli, dunque deturpiamoci). L’allegria è costante, e contraria alla tragedia della carne, dello Stato, del popolo e della lingua.

***

Questa è la rosa semplificata dell’ambiguità, a quattro petali: Lingua, Rapporti, Morte, Allegria. Parlare della commistione di radici pragmatiche (la politica violenta degli anni ’70, lo Stato deviato, ecc.) e di radici poetiche è troppo per la nostra intelligenza? Sì. Eppure è questa commistione è accaduta. E ragionarne ambiguamente (non con aut… aut ma con et… et) serve ad impedirci di non vedere la poesia di un poeta: ché, per un poeta, il verbum non è meno ‘cosa’ delle altre cose. La parola di chi si dedica professionalmente alla parola è un FATTO.
Insomma: il desiderio di inabissarsi può derivare da ragioni privatissime, non dette in poesia (=pubblicamente) e quindi non spiegabili al mio e nostro livello (=noi siamo il pubblico). Di quello che non ci viene detto, occorre tacere. È chiaro che la morte del fratello, in condizioni politicamente e militarmente ambigue, deve aver avuto un peso atroce nelle dinamiche dette e non dette di questa famiglia; scatenando la necessità interiore di nuovi equilibri. Lo ipotizzo con il solo istinto, e taccio sùbito.
Ma se il piano di un uomo pubblico è pubblico: a che cosa tende questo inabissamento, se – come credo – ha la complessità polisemica di una poesia e deve essere letto come una poesia? Il sacrificio umano, come quello del kóuros in Medea, è un fenomeno paragonabile alla morte di Pasolini? Sì e no. È certo che Pasolini deve aver mescolato un discorso antropologico al discorso del poeta, e soprattutto del poeta al pubblico e del poeta agli altri poeti.
L’autodistruzione è un annuncio alla Tradizione e ai colleghi della parola-fatto. Da un lato, la lingua italiana nasce e muore nell’artificialità, prima curiale, poi cruscante e poi televisiva (normatività=dominio; docenza, vera o presunta=normatività). Dall’altro lato: il degrado sociale e politico della Nazione. I due pesi sono sufficienti perché il professionista della lingua nazionale debba uscire di scena: tramontando con ciò che tramonta, e mimando artisticamente e profeticamente il tramonto. Muore, in primo luogo, la lingua (che non è mai stata parlata da un popolo vivo di parlanti); quindi muore lo Stato, e muore chi lavora pubblicamente con lo stesso italiano dello Stato, che è lingua di "menzogna" e "pura teratologia" (Lettere luterane: Paragrafo quarto). La conseguenza è chiara: nessun poeta italiano, dopo il 2 novembre 1975, ha goduto di una visibilità paragonabile a quella dell’Ambiguo. Se sacrificio c’è (stato), siamo stati sacrificati anche noi, benché (e perché) continuiamo ad illuderci in una lingua marginale, parlata miseramente da voci misere, e destinata a chi scompare, non a chi appare (Italiani, vi esorto al bi- o trilinguismo! ad interpolarvi con le altre lingue: imbastarditevi o scomparite); e ora il mito della diversità autodistruttiva non porta più da nessuna parte (nemmeno il suicidio di Amelia Rosselli, "che è veramente un grande poeta" (3), ha colpito la piccola Patria: benché non meno tragico e non meno prevedibile di quello di Pasolini. E la morte di Rosselli è un’oscenità che ci ferisce, tutti: davvero con la morte di Rosselli desinit cantus, e le nostre glosse rendono appena decente, nei casi migliori, la fine della poesia in questa lingua).
Non si può dire quale sarà il prossimo mito della parola. Intanto la "materiale diminuzione del futuro" (4) è diventata un’urgenza dolorosa, che non si nota; e beato chi arriverà ad un futuro qualunque (parlo, soprattutto, della lingua e dei suoi professionisti). Posso solo intuire che cambieranno gli equilibri tra CORPO e PAROLA (ma non in tutti i poeti, anzi in pochi): e la vita della seconda giustificherà e garantirà la vita del primo. Metto sotto il dominio dell’Ambiguità, da cui nasce, anche questa piccola profezia e il suo sorriso.

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