Leela
Marampudi
Mal bianco
recensione di Chiara Daino
« È troppo bassa la terra per te? »
Una domanda, che ritorna: nel continuo rilancio del dedalo dipinto da
Leela Marapundi.
Mal bianco è una storia
di “spettri”, sia fantasmi, sia luci: riflesse e schermate.
La processione di moti istantanei procede per capriole, in un gioco di
tempi: corsi e ricorsi di fotografie. Un album di famiglia dove colori
e personaggi virano dal tono terreno/ultra-terreno a quello virtuale/voluto
in successione sfumata, in delicata e giustapposta amalgama.
La narrazione si ramifica nei legami (di sangue/di amicizia/di amore)
e sonda codici e verità di linguaggio - comunicazione altalenando
dialoghi con l’al di là/dialoghi dietro copione. Tutto l’abbracciato
si rende simbolo, metafora, spunto di riflessione – punto di vista
(il senso più esposto del romanzo).
L’occhio è il punto: di vista, di bianco. Leela
Marampudi intesse e intona i suoi « Bette Devis Eyes »,
intreccia più gomitoli senza lasciar intendere se terminerà
l’ordito, per tirare le fila solo a fine romanzo. Ad arazzo completato.
Tre generazioni di donne, di uomini e donne, per ricordi che
sono sia fiori sia cappi, per presenti che sia fatui sia finti; l'amore
del dettaglio e i ritagli d'amore sono immersi nel continuo evocare (nominale/figurativo),
in lenta e naturale gradazione…
« Come un quadro di Van Gogh in sé conteneva anche la lentezza
del magma vulcanico dei quadri di Dalì » – scrive nel
romanzo – « Non si può chiedere un ritratto. Avviene
» – dice di persona – e nel suo dipinto a inizio narrazione:
condensa la poetica del suo sentire.
« Solo chi è in grado di capire le mie debolezze si merita
anche le mie sicurezze »: una bambina-samurai che riporta suoni
zingari e tzigani, al ritmo della propria battaglia interiore, della propria
"battuta migliore" – uno spaccato,
*
spiazzato dalla verità
(febbraio, 2007)
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