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Il libro
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Intervista a Daniele Borghi
autore de Il nome di una privazione
Quanto si riflette Daniele Borghi in quello che scrive?
Per uno scrittore che non si riflette in quello che scrive credo che la
diagnosi più corretta sia quella di schizofrenia. La sola alternativa
potrebbe essere data dal compenso: se un autore è pagato a cartelle
può anche scrivere cose che non gli appartengono, ma in quel caso
la sua produzione non può essere considerata scrittura e, tantomeno,
letteratura. La scrittura è la più libera delle arti. Non
occorrono attrezzature o materiali, produttori o sponsor. Chiunque si
accomodi davanti ad un foglio bianco e si lasci condizionare da elementi
estranei al suo sentire non può essere preso in considerazione
come autore.
Cosa puoi dire del Daniele Borghi come persona?
Sono disgustato dall'arroganza del potere. Amo chi mi fa sorgere dubbi
e ho una pessima disposizione d'animo per gli integralisti di qualsiasi
credo, verso quelli che sono convinti di essere il centro gravitazionale
dell'universo e verso i carrieristi ad ogni costo. Naturalmente i miei
piaceri più grandi sono la lettura e la scrittura, ma forse non
c'era neppure bisogno di dirlo. Queste mie passioni mi portano inevitabilmente
a coltivare la solitudine e questo, a volte, viene frainteso.
Quali sono gli aspetti della tua tua sensibilità che ti hanno
portato a
scrivere? Che senso ha scrivere per te?
Per scrivere occorre soltanto avere voglia di farlo. Non credo che sia
necessario avere una grande sensibilità o aver avuto particolari
esperienze. Certo, se si è in possesso di questo binomio, i testi
hanno maggiore respiro e spessore e, più in generale, si riesce
a trasmettere qualcosa. Naturalmente non sta a me dire se nei miei testi
compaia questa specie di "marcia in più", posso soltanto
sperarlo. Per me scrivere èormai una abitudine irrinunciabile.
Probabilmente all'inizio era solo un modo per per gridare la mia esistenza
in vita, ma adesso è qualcosa di diverso. Ora la definirei una
esigenza.
Come si sono venute elaborando l'ambientazione e la trama di questo
che è il tuo primo libro su carta?
Chiunque abita in un grande centro non può evitare di entrare in
contatto con persone senza fissa dimora. Naturalmente i sentimenti che
suscitano questi incontri sono diverse per ognuno di noi. A me, come era
inevitabile, hanno spinto verso la scrittura. Volevo parlarne, volevo
in un qualsiasi modo affrontare l'argomento, anche perché nessun
altro sembra aver voglia di farlo. L'unica occasione in cui si parla di
queste persone è quando c'è qualche giornata di freddo intenso,
per il resto nulla. Vengono realizzate intere trasmissioni televisive
per far adottare cuccioli di anilmale, per questi uomini neppure una parola.
Anche se le stime sono diverse a seconda della fonte che le esprime, soltanto
in Italia ci dovrebbero essere non meno di sette-ottomila di queste persone.
È un numero enorme, e nessuno ne parla. La trama, i personaggi
e l'intreccio vogliono porre il lettore davanti a questa realtà.
Si può non essere d'accordo con i metodi usati dal protagonista,
ma almeno lui affronta il problema, non gira lo sguardo dall'altra parte.
Quali sono gli autori che senti più vicini e quelli che ti
hanno formato?
Sono convinto che ogni riga che ho letto abbia in qualche modo
aiutato a formarmi. Più che di autori io mi innamoro di libri.
A memoria ti faccio una specie di Hit Parade.
"La famiglia Winshaw" di J. Coe. "Morte a Venice"
di R. Bradbury, "Una stella di nome Henry" di R. Doyle, "Seminario
sulla gioventù" di A. Busi, "Preghiera per un amico"
di J. Irving, "Saltatempo" di S. Benni. "Il lamento di
Portnoy" di P. Roth e "Hey tu, Baby" di M. Leyner.
Ecco, se dovessi in cinque minuti scegliere dei libri da portare in un
viaggio interstellare prenderei questi. Di sicuro, appena a bordo, mi
dispererei per averne trascurati altri, ma i primi titoli che mi vengono
in mente sono questi. Come vedi sono libri molto diversi tra loro e non
so darti un motivo preciso per cui io li ami così tanto. Quando
leggo, contrariamente a ciò che faccio quando scrivo, mi lascio
molto trasportare e non indugio nella riflessione. Me la godo e basta.
C'è un lettore tipo che pensi possa maggiormente entrare in
sintonia con le storie che racconti?
Francamente non lo so. Rispetto a questo posso soltanto esprimere dei
desideri. Spero che un lettore che si sazi del mio libro sia una persona
sensibile, una persona intellettualmente onesta e che tragga piacere dalla
lettura. Qualcuno che si lasci prendere dalla storia, dai personaggi e
che, arrivato alla fine, si ponga delle domande. Io non ho intenzione
di dare delle risposte, sarei felice se i miei testi riuscissero a porre
delle domande. Mi rendo conto che un obiettivo del genere sia molto ambizioso,
ma credo che sforzarsi di raggiungere un risultato difficile sia più
meritevole che arrivare ad uno di profilo mediocre.
Viste le difficoltà di farsi leggere se non si fa parte di
un certo
giro, se non si viene pubblicati da editori grandi o medio grandi,
perché pubblicare un libro?
Questa è una domanda che anch'io potrei rivolgere a te. Sei
un editore che non appartiene a quelle due categorie eppure non mi pare
che tu abbia voglia di smettere. Comunque la tua domanda ha una risposta
molto semplice: lo si fa per passione. E perché, forse presuntuosamente
si spera comunque di ottenere attenzione.
Ci sarà un futuro per il libro tradizionale?
Chiedersi se il libro potrà aver un futuro è come chiedersi
se l'umanità avrà ancora voglia di pensare. Certamente i
segnali che arrivano dalla società non sono per nulla incoraggianti,
ma ad essere pessimisti non si combina mai nulla. E poi, come dicevo prima,
è la passione che ci spinge, l'amore per la lettura e per questi
strani oggetti di carta che sono i libri. Il loro odore quando sono nuovi
e li apri per la prima volta, le emozioni che sanno regalare, le ore di
assoluto estraniamento che a volte capita di incontrare leggendo... Chi
può fare altrettanto?
Come si può appassionare alla lettura almeno una parte del
mondo
giovanile?
Se la lettura è un attività poco praticata dai giovani la
responsabilità è sia della scuola che delle famiglie. Come
può un adolescente appassionarsi alla lettura con ciò che
gli propongono i programmi scolastici?
Ho una figlia che fa la seconda media e vorrei che qualcuno mi spiegasse
come può affrontare un libro con atteggiamento giocoso quando le
fanno imparare a memoria tre pagine di Divina Commedia. Potrebbe farlo
soltanto se fosse colta da una specie di Sindrome di Stoccolma, non vedo
alternative. Il mio non è un giudizio di valore sulla Divina Commedia.
Quello che voglio dire è questo: affrontare a dodici anni un opera
come quella è come dire ad una vecchietta che è andata in
montagna per le vacanze che
il programma è stato rivisto, niente passeggiata ma la parete nord
del Cervino.
A questi ragazzi servono storie che li appassionino, magari anche
scritte male, non importa, per apprezzare la qualità della scrittura
c'è tutto il tempo. Ciò che occorre è che comincino
a vedere il libro come un luogo di divertimento, di spazio personale,
di tempo libero usato bene, di godimento psichico.
Oltre a questo, come dicevo prima, le famiglie.
Se un ragazzo vede i propri genitori rincitrullirsi davanti alla televisione
in ogni momento libero, come potrà venirgli in mente di
leggere? La televisione è più comoda. I programmi sono predigeriti
e gli spot ti danno anche amorevoli consigli sui prodotti da acquistare.
La voglia di leggere e la curiosità intellettuale sono come l'altruismo:
non sono innati, hanno bisogno di essere stimolati.
Quando si hanno tre anni tutto ciò che si vede ha un solo nome:
MIO. Poi con il tempo e qualche esperienza si comincia a dire nostro.
La curiosità intellettuale credo funzioni allo stesso modo. Ridere
leggendo un libro è la migliore pubblicità che si può
fare alla lettura.
Se i ragazzi avessero in casa qualcuno che lo fa credo che le librerie
aumenterebbero notevolmente le loro vendite.
(Fara Editore, marzo 2003)
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