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Il libro
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Intervista a Narda Fattori
autrice di Verso Occidente
Chi è Narda Fattori e come è arrivata alla poesia?
Sono una persona non allineata, fuori, sopra, in mezzo alle righe.
Nei pensieri , nei comportamenti e nell’atteggiamento verso le problematiche
esistenziali, sociali e relazionali. Fragile e forte, vicina agli ultimi,
resistente e renitente a molte blandizie.
Di formazione classicheggiante, sono arrivata alla poesia giovanissima,
preadolescente, con un diario tenuto in versi con forti influssi baudelairiani
e rimbaudiani.
Insomma mi sono allevata a pane, poesia e filosofia; più tardi
mi sono nutrita di ribellioni, anche alla poesia, o, meglio, ai critici
e al pensiero unico, alla filosofia, o, meglio, ai suoi deboli pensieri.
Sono stata per 20 anni senza scrivere un solo verso.
Credo che la poesia sia la mia forma più congeniale di comunicazione
autentica, seppure con tutti i filtri che "l’andare a capo"
impone.
Rimando alla lettura del libro per una risposta più esauriente.
Come trovare l’equilibrio fra il proprio timbro personale,
i maestri e gli influssi letterari, fra ciò che è inesprimibile
e il desiderio di esprimerlo con i versi?
L’equilibrio nasce dalla conoscenza di sé e anche da una
certa spudoratezza.
Credo che i maestri esistano per essere traditi: sono grata a tanti padri
intellettuali ma sono figlia di un bracciante socialista che voleva capire
e mi ha insegnato a fare altrettanto.
Da qualche parte devo ancora avere dei versi scritti a 16/18 anni: mi
fanno tenerezza per la loro mimesi sul poeta che amavo di volta in volta
e sulla nudità dei vissuti.
Non ho mai amato i "cerebrali", gli speculativi: la vita e la
poesia puzzano un po’ oltre che profumare e hanno dolorini ai fianchi
o una tosse stizzosa. Un pensiero o un cuore malato. Gli influssi si scontrano
con la personale esperienza e fanno crescere frutti di diverso sapore,
odore e forma.
Ecco cosa intendo per "spudoratezza".
Non credo esista niente di inesprimibile. Almeno per un poeta. Le parole
si formano nella mente come volute di fumo da una sigaretta, si distendono,
e chi scrive è poco più di un manovale.
Poi c’è il lavorio per dare pazienza all’urgenza: il
labor limae credo sia il ritorno su parole, suoni e timbri che
senti imperfetti, non chiaramente fedeli a quella voluta che ti saliva
dalla gola e ti scendeva dal pensiero.
È il lavoro dell’intellettuale.
Il timbro si abita, lo riconosci come tuo, può cambiare con il
tempo ma mai snaturarsi. È l’articolazione di corde vocali
e le circonvoluzioni di materia grigia che sono proprie, è il personale
viluppo di sinapsi.
Un timbro personale è importante: da che cosa riconosciamo un verso
di Dante, di Leopardi o Foscolo, di Ungaretti o di Montale, di Eliot e
di Celan?
Dal timbro, immediatamente.
Quali sono i tuoi autori di riferimento? Dove sta andando la
poesia oggi (ha ancora senso produrre una letteratura che sembra viziata
fin dall’inizio da un certo elitarismo)?
Rischio di ripetermi: considerato che non sono più giovanissima,
per usare un eufemismo, ho avuto nel tempo autori amati, ma ti sciorinerei
mezza letteratura poetica internazionale dove non mancano Kavafis e Pagliarani
da Viserba, Fortini e la Cvetaeva, Ungaretti e Celan…
Anche i coetanei a volte m’intrigano. Siamo porte aperte, l’aria
entra, frulla, si fa aspirare e ti lascia il respiro con alcuni profumi…
Forse amo più la poesia maschile di quella femminile, forse le
poetesse hanno pagato prezzi altissimi e si sono piegate o rotte (vedi
la Rosselli).
Non credo che chi scriva si chieda che senso ha il suo lavorio mentre
lo compie; viene da pensarlo, prima e dopo.
Non sono buoni tempi per la letteratura, sono tempi mercantili, di slogan
e barzellette, di volgarità e narcisismi. Di storie senza ethos,
a volte senza pathos. Io credo che chi scrive debba essere convinto di
compiere un atto etico, non puramente intellettuale: deve credere che
serva, che serva, che almeno ad uno serva… L’elitarismo? È
sempre esistito. Se nei tempi passati il vaglio era il ceto e il censo,
insomma i denari o il blasone, oggi serve anche avere gli amici giusti…
Ma se pensi a questo uno smette di scrivere e, forse, si suicida, in uno
dei tanti modi possibili. Credo sia un dovere morale credere ancora nel
pensiero, nell’etica, in un consesso civile di simili e… agire
di conseguenza.
Quale pensi sia oggi modo migliore di accostare un pubblico non
avvezzo all’ascolto/lettura?
Io penso ai fabulatori, ai griot. Credo che, seppure per tempi limitati,
si riesca, quando si riesce a trasmettere una voce di verità, seppure
personalissima, a catturare l’attenzione delle persone, a costringerle
a confrontarsi con la propria verità, o con il fatto che non si
ha.
Ecco perché credo che la poesia debba essere "Vox clamans"
perché parla dell’uomo, del suo stare qui, ora.
Nessuno può pensare di fare grandi ascolti, di avere grandi vendite:
viviamo in tempi di dittatura dell’occhio. Insomma 10 lettori forse
bastano.
Come sei giunta a scrivere Verso Occidente?
Verso Occidente è
un ulteriore tratto del mio percorso di riavvicinamento alla poesia. Un
tratto accidentato, per motivi personali. Ho creduto, per lungo tempo,
che non l’avrei portato a compimento. Poi, lentamente, si è
composto. Ho ripreso la confidenza con la scrittura. Sto andando per timbri
un po’ diversi, quindi, era tempo che lo licenziassi, dovevo occuparmi
d’altro.
Per quel pochissimo che ancora, penso, valga la pena di starci/farci.
(Fara Editore, aprile 2004)
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