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Della stessa autrice
Il tragediometro
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su Nell'uovo cosmico
di Maria
Cristina Casoni
Lavorando in una fatiscente quanto verisimile società di dubbi
appalti e losche attività di intermediazione una donna decide di
imprimere alla propria esistenza una superaccellerazione, cambia vita,
rovescia il suo modo di essere e di agire, indaga sui motivi che ne hanno
scardinato l’anonimo fluire e finisce, così, per ritrovare
se stessa, risalendo la china di quello che chiama ossessivamente lungo
tutto il romanzo il suo “pozzo nero”. Il metodo è quello
investigativo, giocato sui travestimenti e gli scambi di ruolo, il ritmo
è quello incalzante dei fanta-thriller, la scrittura ampiamente
dialogata e perciò fortemente paratattica e giustappositiva, ritmica,
icastica che contrassegna lo stile ironico e perfettamente controllato
dell’autrice Helene Paraskeva.
Ne risulta una trama particolarmente complessa, con continui colpi di
scena e depistaggi, tanto che gli eventi sembrano aggrovigliarsi come
i serpenti attorno al capo della Gorgone, mitica figura orrorifica dell’antichità
greca, personaggio centrale del romanzo, maschera potente, capace di generare
gli incubi peggiori, ma anche di celare il più intimo segreto dell’umana
fragilità: la ricerca dell’amore, la custodia degli affetti
più cari.
Nell’uovo cosmico, antico e potente mitema dell’unità
cosmica, dell’indivisione primordiale dell’essere, lungo il
faticoso percorso di riappropriazione del sé, c’è
posto per ogni tipo di contraddizione; convivono, nel turbinio della narrazione,
l’amore e la morte, l’odio e l’ingenuità, il
tradimento e la solidarietà, il sacrificio e la dissimulazione,
come altrettanti aspetti della personalità incarnati da una galleria,
alquanto ricca, di “tipi umani” dai nomi bizzarri e significativi:
l’Oscuro, il Laido, il Conte, il Faraone e, su tutti, la rugosa
Pietra, detentrice dell’uovo cosmico che predice il futuro e anche,
forse, personificazione che allude all’origine (da una pietra appunto)
del potente dio Mitra, il cui esoterismo è sotteso nell’architettura
dell’intero romanzo.
La compresenza di aspetti così contrastanti dell’umano agire,
presenti nella rete degli eventi senza soluzione di continuità,
richiama l’idea dell’assenza di un vero limite anche tra ciò
che è lecito e ciò che non lo è: in effetti la stessa
trama resta ambigua fino alla fine, aperta a soluzioni inattese, con continue
inversioni di senso.
“Diceva che una terrazza senza parapetti sarebbe stata una prigione
perfetta” fa dire l’autrice del romanzo all’ingenua
Ofelia, verso la fine del romanzo: se un limite c’è, in fondo,
hanno ragione di esistere le due regioni confinanti che vi si affacciano;
l’una è la roccia della piccola isola-prigione e l’altra
l’infinità del mare, il noto e l’ignoto, la memoria
e l’oblio, il bene e il male con l’implicita possibilità
di guadare il confine e deciderne consapevolmente l’attraversamento.
Così come nelle radici idealistiche del nostro romanticismo europeo
la presenza stessa di un limite è motore per il superamento della
finitudine del proprio Io, l’assenza del limite può essere
alquanto destabilizzante, richiamare al Far West dell’indistinzione
preolimpica, favorire, nell’assenza di regole, il voltafaccia dei
doppiogiochisti, impedire il riconoscimento degli amici e dei nemici.
Più volte Dora Forti verrà ammonita, nel romanzo, nella
sua incapacità di distinguere gli uni dagli altri, tutti, comunque,
ugualmente stritolati da un gioco di potere in cui resta, fino alla fine,
incerta la codificazione dei ruoli, nel dipanarsi di una storia in cui
il sistematico richiamo alla ritualità esoterica riflette e amplifica
il senso di mistero.
Quello della Paraskeva con il mito è un rapporto ambiguo e conflittuale,
fatto di intimo coinvolgimento con la cultura d’origine e di distacco
ironico: in questo caso, a partire già dal titolo del romanzo,
fino alla citazione conclusiva, passando attraverso una rete di continui
rimandi all’iconografia mitraica sembra che il mito si presti particolarmente
bene a spiegare comportamenti, rivelare interne scissioni dell’animo
umano, delineare dinamiche sociali nel fumettistico microcosmo della società
McTrash, nel quale si consuma l’iniziazione alla vita di Dora Forti.
Attraverso il culto di Mitra, dio protettore della giustizia e dei patti,
degli “interessi consorziati”, la Paraskeva ci parla di una
società smarrita che riscopre il fascino dell’esoterismo,
della fidelizzazione, del sacrificio al dio denaro, di un occulto potere
a cui sottomettere le proprie debolezze. Eppure il romanzo si conclude
(ancora un colpo di scena) con la lunga citazione della tesi evemeristica
sull’origine umana degli dei: “Evemero trovò un grande
tempio e dentro un’iscrizione su una stele d’oro che spiegava
l’origine di quegli antichi dei. Erano umani, diceva l’iscrizione
sulla stele d’oro, erano comuni mortali come noi, gli antichi dei,
ma furono capaci di creare un culto intorno alle loro gesta e passare
poi all’eternità”, racconta, in chiusura Dora Forti
al Laido, come chiave di lettura di quella potente allegoria del mondo
moderno rappresentata dalla misteriosa McTrash. La pesante impalcatura
del mito sembra, allora, crollare; resta invece in piedi il senso di una
storia costruita sulla ricerca di affetti autentici, sull’impegno
sociale e ambientale, sull’odio e l’amore vissuti con spiccata
sensibilità.
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