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Lanimale doppiamente
appartenuto
di Rosete
de Sá
Brasile, ottobre 2001
Appena il libro di Paola Turroni mi è apparso tra le mani, non
ho avuto altra scelta se non quella di lasciarmi quasi "possedere"
da lui, dalle sue parole che tremano al tocco, al semplice movimento
di girare le pagine con un segno inaudito eppure riconoscibile, eppure
vero. Lo chiamerò così - UN SEGNO - piuttosto che parlare
di una qualsiasi "religione pura" appartenente alle lettere
o sul senso ultimo che le parole comunque ci lasciano adosso stravolgendoci
nel profondo, e nemmeno senza pensare a una qualche ricerca di ordine
linguistico o semiologico discipline sotto le quali questo termine,
specialmente negli ultimi decenni o ancor di più, è stato
scritto con parole belle tonde sopra ogni ricerca sul linguaggio. I
segni di cui vi parlo sono più semplici e forse più ridondanti
ma non meno logici all'interno di una logica - un pò strana, a volte
- che preme per farsi viva nella misura in cui ci travestiamo con altrettanto
piacere o dolore da lettori, anonimi lettori.
Al tempo stesso però, sono anche SEGNI sul corpo, parole che
graffiano il senso di un mondo che, all'inizio della nostra conoscenza
del medesimo credevamo compiuto, eppure non è così, non
ancora.
Anche se stupefatti, questi segni ci permettono girare le pagine. Ancora
e ancora. E ancora. Senza sosta, ininterrottamente, fino alla fine.
La parola, nella scrittura della Turroni, è gioco sensibile che
travolge anche chi vorrebbe essere soltanto mero spettatore di un atto
già compiuto o quasi al punto di compiersi. E se la ricerca parte dal
linguaggio, logicamente è ad esso che deve ritornare senza scrupoli
o false metodologie di base. Ed è lì che ritorna, senz'ombra
di dubbio. Ritorna soprattutto per "smascherare" il carattere
a volte superficiale, a volte estremamente coinvolgente che soltanto
le parole sono in grado di risolvere in un modo razionale, pulito, bello:
l'eterno enigma della sfinge, l'eterno domandarsi perché dobbiamo
risolverlo per poter raggiungere uno stato di perfetta (o quasi) "beatitudine
laica", se vogliamo chiamare così il disfarsi di ogni regola spirituale,
cosmica, umana o sovraumana: compresa logicamente in questa potenziale
schiera di atti gloriosi, la ricerca o il ritrovamento (finalmente o
in parte!) del senso ultimo del linguaggio, come d'altronde avviene
tra le pagine di animale,
di Paola Turroni.
Per motivare questa mia un pò "ingenua" chiave di lettura,
vi propongo un gioco altrettanto "ingenuo". Vediamo: proviamo,
da lettori, a fare gli stessi passi della Turroni - come se questo fosse
possibile poi, dato che ogni scrittura appartiene al regno della imprevidibilità
nonché della compattezza e veridicità del suo SEGNO di partenza,
in senso finzionale, si intende -. Cominciamo allora con il pensare
a un possibile titolo per il suo coinvolgente e altrettanto feroce scritto.
Come ben sottolinea Renato Turci nella postazione al libro: "(...)
ciò è avvertibile dal mutamento del titolo delle due stesure
che l'opera ha avuto: da ani-male / di / scr(v)ivere che era
nella prima, al più semplificato animale..." (p.
95).
Forse sarò in errore forse no, ma poiché anch'io cerco
di utilizzare o giocare con le parole ogni tanto, mi domando a volte
se non sia possibile (ancora) giocare di più o forse (ancora) più
superficialmente, ecco il senso del gioco da me proposto:
1- An(n)iĞmale (brutti tempi, tempi incompiuti, parole non decifrate,
non ancora. La sfinge è sempre in attesa di...; il linguaggio è
sempre più in là, altrove);
2- AnimaĞmale (qui intendo "mala anima" nel senso usato
"in prestito" da Antonio Tabucchi nell'Angelo
nero a cui ho dedicato un libro di racconti, il cui titolo è
stato, a sua volta, un omaggio a Eugenio Montale, nonché al fatto
che la nostra "anima" o "coscienza" tuttora è
persa per il fatto che non siamo in grado di (ri)trovarla dentro il
mondo chiuso o troppo sferico delle parole: il vero "peccato"
umano, si intende);
3- An(n)i-ma-(ha)le(i), Anni sì, ma con ali (anni volanti, dove
ricerchiamo ogni sfera che ci possa tradurre il senso delle parole,
la loro volubilità, anche).
Ecco. Le parole trovano un fine, un fine di volo. Una via di uscita
che soltanto il SEGNO sulla carta ci può restituire e nient'altro,
nient'altro oltre la loro significazione sempre in bilico. Nessuno può
negare ciò al di là del mio voluto "gioco di parole
o del mio altrettanto voluto desiderio di giocare con le parole".
A parte il gioco di parole, la poesia e la narrativa non hanno mai o
quasi mai "sofferto" di questo tipo di esigenza pressoché
radicale che nel tempo stesso in cui definisce, obbliga lo scrittore
a scegliere un punto di partenza e d'arrivo a partire dal titolo stesso.
Storicamente, questo è stato un "obbligo" rispettato più
dai drammaturghi che dagli scrittori propriamente detti, si sa. E sapientemente,
Paola Turroni non cade in questo trabocchetto che solitamente cattura
gli esordienti o poco più. Soltanto si limita a giocare su un titolo
che poi, alla fin fine, racchiude non solo la storia della sua poesia
"tradotta" ovvero sia, organizzata sapientemente in un volume,
ma racchiude anche un possibile senso che vorrebbe dar loro, alle sue
poesie, con il massimo del piacere e dolore possibile.
Così è il lettore stesso a dover a decifrare non solo la propria,
"privata" sfinge, ma anche quella della Turroni e senza la
paura che il gioco finisca. Non finisce mai. Una traccia comunque ci
sarà sempre e la prima potrebbe essere quella del SEGNO come accenavo
prima, come punto di partenza, quasi un dipinto orientale si para ai
nostri occhi date le intermittenze e l'essenzialità le quali gestisce
con sapienza la parola.
Ma al di là di ciò, in questo libro, il titolo ha un valore imperativo
evidente e ciò è innegabile. La stessa autrice lo ammette poi, "tra
le righe" e non solo. Questa atmosfera che nasce dal titolo di
un libro, di un racconto o di una poesia non è mai stata indifferente
agli scrittori di qualsiasi epoca o milieu. E qui ritorniamo
al teatro a cui accenavo prima: Pirandello, per esempio, è stato un
gran "cultore" del titolo delle sue pieces e gli esempi
abbondano. Senza parlare di Beckett, per esser più vicini ai nostri
tempi. Anche se Beckett sfugge a ogni "regola universalmente"
concepita su un determinato concetto nominativo sulle letture che fece
delle opere altrui o delle letture che eventualmente abbiamo fatto o
facciamo anche noi, messo da parte ogni titolo.
Nonostante ciò ho camminato sulle copie, copie di personaggi, giocando
sul doppio (quasi mai o mai del tutto speculare) che distrugge ogni
componente elementare in grado di circoscrivere l'esatto perimetro del
linguaggio o dei suoi obbiettivi immediati (caso mai ci fossero). Così
pure cammina Paola Turroni: il senso della ricerca sta nel cammino,
nei possibili abissi circostanziali e non nel subito arresto che ogni
ricerca sulla presenza o meno del "linguaggio puro" possa
evventualmente provocare.
Nelle prime righe l'autrice esordisce così: "peste dei sensi".
Ed è da qui che si capisce di aver di fronte un "bel libro".
Non tanto per il contenuto o per il suo messaggio iniziale o finale,
ma per la sua premessa. La premessa discrettamente voluta dalla Turroni
in animale si traveste
allora con la peste: "scrivere è come camminare. Vendita di organi
per l'oblio - stati ciechi, muti, sordi, peste dei sensi" (p. 11).
E forse qualsiasi SEGNO non può che essere riprodotto dalla peste,
la peste del SENSO. La non infallibilità del senso. L'animale che bisogna
distruggere e mordere e lacerare, finché non si capisca la vertigine
provocata dalla mancanza di senso o del senso. E la mancanza del senso è morte, morte certa, ma è anche ripiego sull'avvenire della lingua
riprodotta in linguaggio poetico, in lotta tra Eros e Thanatos, in sfinge
morta o quasi rinata, forse, finché non appaia il prossimo scrittore,
colui che è destinato a complementare ogni "vuoto" lasciato
dalla parola.
Il linguaggio è lingua morta che dev'essere ricostruita ogni volta
di nuovo, come per Artaud o per alcuni poeti dada anche se, al di là
del piacere prodotto dal gioco stesso, oltre il gioco stesso, non abbiamo
nessuna intenzione di parogonare quegli esperimenti letterari o drammaturgici
al bel gioco letterario di questa scrittrice.
E lei continua. Continua il gioco che abbiamo già definito perenne
perché, anche se lo volessimo, nessun animale è ferito a morte per
caso, si fortifica o muore per puro caso: se il linguaggio non muore,
se abbiamo sempre il bisogno instintivo di lasciare un segno, di scrivere
qualcosa sulla pietra, vuole dire che nemmeno l'animale, lui, "il
Potente", muore all'improvviso, per così poco. Lui resiste, sempre,
così come resistiamo noi nel non possedere (ne' ora ne' mai) un senso
ordinato per la parola del mondo o sulle parole che toccano le cose:
"(...) come se la letteratura legittimasse lo scavalcamento dell'etica
da parte del nostro immaginario - che del resto non ha quasi mai niente
a che vedere con l'etica. non è come finiscono che si mette in discussione,
ma il perché cominciano..." (p. 12).
Nel discorso poetico della scrittrice, nella presentificazione del poema
o nello scontro tra la funzione poetica, la finzione e il reale, regna
intoccata la delicatezza del doppio corpo materiale sotto il quale ci
distinguiamo e distinguiamo al tempo stesso, il mondo: un mondo per
sempre soggiogato al capriccio degli accadimenti o alla mancanza di
senso; perciò, un mondo doppio, doppiamente appartenuto, come abbiamo
intitolato questo scritto.
Spieghiamoci però: "l'animale" viene doppiamente appartenuto
poiché in una specie di anteriorità soggettiva - inquanto scritta
-, è appartenuto al corpo e al corpo della lingua propriamente detta:
animale del corpo, animale della lingua. Prodotto da uno stesso germoglio
frastico, dalla stessa fisicità con la quale la scrittrice dipinge
nello spazio i suoi gesti di pensiero e forma, fino a farli diventare
poesia in un movimento che far ricordare Oswald de Andrade o la sensualità
apparentemente "mascherata" agli occhi meno attenti del suo
Manifesto Antropofago, nel Brasile degli annì20. Comunque,
la scrittura di Paola Turroni non è assolutamente retro ne' avvolta
da una nostalgia pseudovanguardistica, nata da un dejà vu perennemente
in autoebollizione, no.
"(...) vorrei che il sole stesse sempre a metà dell'orizzonte, è una questione di luce, non di metafora, non importa quello che è
facile e quello che è difficile, facile e difficile stanno dalla stessa
parte, semplice è la pelle della carne difficile" (p. 78).
La sua scrittura va oltre e ci appartiene, a noi, lettori.
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