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AA. VV. Le voci dell'arcobaleno

Intervista

Verso Occidente

di Anna T. Ossani
Università degli studi di Urbino “Carlo Bo”

Solo con lo sguardo e nello sguardo della fine è possibile una consapevolezza, forse un approdo. Sin dal titolo, Verso Occidente, la nuova raccolta poetica di Narda Fattori sembra lasciar trasparire, oltre che lo stato percettivo di una direzione verso cui tendere, verso cui orientare una scelta umana e poetica, anche i segni di un prescritto destino di morte. Il viaggio è dunque anche un consuntivo e tematicamente si dispone nel tessuto poetico intrecciando due diverse tastiere compositive. Provvisorio e quotidiano si intridono infatti di enigmi esistenziali e una scrittura piana, dove con mezzi semplici si assemblano brandelli di memoria, frammenti di vita, viene sommossa d’improvviso da ambiziosi recuperi colti, con agganci di forte suggestione, capaci di trasformare un dettato poetico di compatta intensità lirica e modulato su immagini ricorsive anche volutamente inattuali, in una interrogazione esistenziale favorita e sostenuta dall’ insistito gioco associativo astratto-concreto.
Frange di vissuto appena si aprono al prodigio fiabesco delle memorie d’infanzia, subito si inaspriscono nel tratteggio di un itinerario esistenziale dal respiro drammatico, dalla natura quasi teatrale:

"Ma tu puoi raccontarmi delle lucciole / del giugno che verrà / sopravvissute - loro- all’aria di peste // lucciola lucciola vieni vicina / ti darò pan da regina / tu darò pan da re / lucciola lucciola vieni da me / e l’ingannevole filastrocca chiudeva / la moritura sotto un bicchiere rovesciato."


Respiro drammatico e insieme teatrale , capacità di presentare una situazione vivono non solo nell’intenso Canto a Maria (il poemetto che chiude e compendia la tensione, il conflitto che ombreggiato nel discreto senso del paesaggio, vive e si anima nei rapporti personali, gravato di solitudine, di perdita, di dolore), ma anche nella prima parte del testo che, senza quel canto conclusivo, sarebbe anch’esso perduta possibilità. È infatti quel canto che dà voce e senso all’intero libretto, ne sostiene e organizza la struttura: le due parti di cui l’opera si compone, Verso Occidente e Canto a Maria, non andranno intese allora come due porzioni testuali da leggersi in successione, ma come ordito e trama di un solo canto dove dolorosamente affiora il materiale psichico e memoriale di un mondo interiore sgomento, talora sopraffatto dal lento morire delle cose, delle persone, dei giorni, dell’io che scrive.
Una voce chiama continuamente una voce e il muto colloquio di una figlia che parla alla madre morente, fa dilatare nell’ombra (un ombra di ungarettiana memoria) le parole, cancella ogni conflitto, sigla un sentimento di misterioso approdo, un sigillo di rovesciata identità tra due immagini femminili:

"… E mentre t’imbocco / con ricotta e miele / per cancellare il fiele / che si spalmava sulle nostre labbra / quando era mezzogiorno / ti carezzo la mano - figlia - / e tu mi chiami mamma."

La riflessione sulla morte e sulla morte della madre che occupa l’ultima porzione di testi, Il Canto a Maria appunto, si accompagna nella prima sezione, Verso Occidente, all’ossessivo ricorrere di lessemi che si raggruppano attorno al tema della perdita: perdita che trascende il mero dato biografico del lutto, della morte, per farsi interrogazione metafisica sulla continua polverizzazione dei giorni:

"E osi ancora gli incontri / sulle tangenti di luce che non sa fare chiarore / sul cumulo di capelli tagliati di libri letti / di morti soprattutto e di rose già bacche. / Serve pervicacia e la giusta stoltezza/ per erigere cattedrali nel deserto."

Nel doloroso franare anche di ogni forza propositiva etico- politica, “la memoria abrasa”, “il paradiso [è] di sabbia bianca coi palmizi,” “le cattedrali rigonfie di niente e di vento,” “l’ingorda ferocia che corre su binari di morte,” sono emblemi di un male di vivere che acquista ulteriore evidenza nel recupero di un paesaggio tramato di montaliane strozzature, dove l’idioletto dell’autrice sa comporre, con cifre che ritornano nella intera sua produzione, quasi a scacchiera, un ambiente e la sua storia. Reale e insieme allusivo e simbolico, il paesaggio, anche quello di via Viole, ha i colori, le ombre, il fascino della pianura romagnola, ma ogni protendersi verso un lirismo descrittivo si perde e si contrae nella rapsodia di suoni aspri che stridono nel tessuto poetico. Mentre un “vuoto d’insania vortica sul mondo” si spengono infatti le garrule farandole dei bimbi sulla strada, i trilli d’aprile declinano nello stridere del tarlo, “nei tonfi sordi di pietra contro pietra” nella “risata amara dell’allodola,” “mentre “le poiane stridono basse.”
La percezione visiva e uditiva dello spazio, come il sentimento del tempo, si dispongono addensando grumi di memorie a sensazioni dell’oggi, suoni di allora a strida di ora e con rapido passaggio da quell’insensato fluire del tempo, da quelle morte stagioni che non sanno più fruttificare, affiora la ricerca di un canto; su quegli scorci lividi di un mondo in rovina si apre la luce di una parola, la possibilità di ritrovarsi in un sorriso:

"Allora perdersi è infine ritrovarsi
dentro un sorriso una parola piana
e tu sei meno di niente e pure tutto
forma finita e infinito incanto."


La voce della poesia cerca ancora una possibilità, una via d’uscita. E il tema della morte affrontato nel Canto a Maria con pathos intenso e struggente, sa plasmare versi di dolente intensità, violando, anche a livello strutturale, la natura circolare, chiusa dei testi, con inserti memoriali che sanno perfino diventare campiture colorate, opponendo al silenzio e al buio della morte il suono e il colore della vita:

" Vengo da te con un fascio dorato di spighe
perché splenda il tuo letto di dolore
della luce che mancò che non accendemmo.
Ricordo il girotondo di canti fra i covoni
il sussulto bianco della risata in gola
il mio stupore dolente nella vestina corta
ai margini del campo e già fremeva luglio.
Fu per te la mia corsa scalza avanti
fu anche per me quel canto donato al vento.
Siamo campi mietuti dalle stoppie amare
Che almeno il giallo paziente del grano
faccia mensa anche se manca il pane."

L’andamento chiastico dei pronominali, con l’apertura di spazi opposti, è lì quasi a segnalare pur nel provvisorio dell’esistere, il formarsi di un filo che ricongiunge nel mistero della morte due vite lontane ormai, entrambe, dalle strategie con cui gli uomini allontano un pensiero ancora tabuizzato.
Significativamente è proprio in questa parte che la lingua, pur nutrita di ricordi letterari che da Pascoli vanno a Pavese, a Montale, alla Dickinson, alla poesia romagnola in dialetto dell’oggi, sa essere insieme corposa e smaltata, umile e colta, mai mimetica. Le memorie, l’ambiente domestico, il paesaggio contadino, i temi insomma che emergono nella prima parte del testo, risultano invece, talora, gravati da troppe intenzioni e il verso, pur sostenuto da una precisa intenzione gnomica, suona faticoso e forzato in clausola e alcune oscillazioni linguistiche non consentono il distendersi di un compatto ordito sintattico, sicché spesso la ricerca dialogica non riesce a farsi racconto, voce dell’altro e dell’ambiente.
Limite, questo, che non sminuisce il valore poetico di una raccolta dove il nostos verso le origini, la madre e le madri, l’accettazione della perdita e della morte del sé e del proprio tempo, rivela la piena maturità della donna e della scrittrice:

"Ed eccomi sul ponte. Il lancio.
Sarai più niente là sul fondo
il tuo tutto starà con me che sono quasi nulla sull’argine in attesa della fiumana."

grafica Kaleidon © copyright fara editore