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Verso Occidentedi Anna
T. Ossani Solo con lo sguardo e nello sguardo della fine è possibile una
consapevolezza, forse un approdo. Sin dal titolo, Verso
Occidente, la nuova raccolta poetica di Narda Fattori sembra lasciar
trasparire, oltre che lo stato percettivo di una direzione verso cui tendere,
verso cui orientare una scelta umana e poetica, anche i segni di un prescritto
destino di morte. Il viaggio è dunque anche un consuntivo e tematicamente
si dispone nel tessuto poetico intrecciando due diverse tastiere compositive.
Provvisorio e quotidiano si intridono infatti di enigmi esistenziali e
una scrittura piana, dove con mezzi semplici si assemblano brandelli di
memoria, frammenti di vita, viene sommossa d’improvviso da ambiziosi
recuperi colti, con agganci di forte suggestione, capaci di trasformare
un dettato poetico di compatta intensità lirica e modulato su immagini
ricorsive anche volutamente inattuali, in una interrogazione esistenziale
favorita e sostenuta dall’ insistito gioco associativo astratto-concreto. "Ma tu puoi raccontarmi delle lucciole / del giugno che verrà / sopravvissute - loro- all’aria di peste // lucciola lucciola vieni vicina / ti darò pan da regina / tu darò pan da re / lucciola lucciola vieni da me / e l’ingannevole filastrocca chiudeva / la moritura sotto un bicchiere rovesciato."
La riflessione sulla morte e sulla morte della madre che occupa l’ultima porzione di testi, Il Canto a Maria appunto, si accompagna nella prima sezione, Verso Occidente, all’ossessivo ricorrere di lessemi che si raggruppano attorno al tema della perdita: perdita che trascende il mero dato biografico del lutto, della morte, per farsi interrogazione metafisica sulla continua polverizzazione dei giorni: "E osi ancora gli incontri / sulle tangenti di luce che non sa fare chiarore / sul cumulo di capelli tagliati di libri letti / di morti soprattutto e di rose già bacche. / Serve pervicacia e la giusta stoltezza/ per erigere cattedrali nel deserto." Nel doloroso franare anche di ogni forza propositiva etico- politica,
“la memoria abrasa”, “il paradiso [è] di sabbia
bianca coi palmizi,” “le cattedrali rigonfie di niente e di
vento,” “l’ingorda ferocia che corre su binari di morte,”
sono emblemi di un male di vivere che acquista ulteriore evidenza nel
recupero di un paesaggio tramato di montaliane strozzature, dove l’idioletto
dell’autrice sa comporre, con cifre che ritornano nella intera sua
produzione, quasi a scacchiera, un ambiente e la sua storia. Reale e insieme
allusivo e simbolico, il paesaggio, anche quello di via Viole, ha i colori,
le ombre, il fascino della pianura romagnola, ma ogni protendersi verso
un lirismo descrittivo si perde e si contrae nella rapsodia di suoni aspri
che stridono nel tessuto poetico. Mentre un “vuoto d’insania
vortica sul mondo” si spengono infatti le garrule farandole dei
bimbi sulla strada, i trilli d’aprile declinano nello stridere del
tarlo, “nei tonfi sordi di pietra contro pietra” nella “risata
amara dell’allodola,” “mentre “le poiane stridono
basse.” "Allora perdersi è infine ritrovarsi
" Vengo da te con un fascio dorato di spighe L’andamento chiastico dei pronominali, con l’apertura di
spazi opposti, è lì quasi a segnalare pur nel provvisorio
dell’esistere, il formarsi di un filo che ricongiunge nel mistero
della morte due vite lontane ormai, entrambe, dalle strategie con cui
gli uomini allontano un pensiero ancora tabuizzato. "Ed eccomi sul ponte. Il lancio. |
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