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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 75
Marzo 2006

Editoriale: L'ombra dietro le parole

Parlando del ruolo del traduttore e di quello di un autore che adotta una lingua letteraria diversa dalla lingua madre, Vesna Andrejevic ci offre un'immagine affascinante: "il traduttore è sempre la terza invisibile mano dello scrittore". Dietro tutti coloro che scrivono c'è un potenziale traduttore, una valenza da soddisfare, una apertura a risonanze sconosciute allo stesso autore. In questo Faranews vi offriamo poesie, saggi e interpretazioni che ben rappresentano la forza chiaroscurale delle parole. Iniziamo con il Capolinea di Luca Ariano, e proseguiamo con Simona Cremonini, Massimo Pasqualone, Vesna Andrejevic e Chiara De Luca (presto a Bologna) che oltre a una sua poesia ci offre un'avvicente lettura di Papier Mais e ci conferma che "Il fallimento della parola non è però abdicazione, bensì affermazione estrema di umanità, nel senso di un amore fatto essenzialmente di gesti concreti". Buona lettura!

Capolinea

di Luca Ariano

Ripensi ancora a quel timore
di correre per non sporcare di terra
le escoriazioni sui ginocchi:
e allora con la mente trasmigrare
tra cavalieri - quanto lontano
il dominio della dissimulazione,
soldatini e pistoleri
- senza conoscer la parola
Impero.
Volare poi tra i banconi
d'un supermercato, salire scale
e consumare cappuccini la domenica,
prima di svuotare cassetti e ritrovare
il volto imberbe d'una matricola.
Perdonalo per quelle piccole ipocondrie,
fili di rame che non conducono elettricità:
si avvicina la notte e nessun caffè
terrà deste le fasi di sonno
e non resteranno che scarpe infangate
al capolinea
dove oltre, gli ultimi campi.

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Tutti gli uomini di Giulia

di Simona Cremonini

Tutte le volte che vedo Giulia non riesco a fare a meno di chiedermelo: che cosa fa agli uomini? Perché tutti impazziscono per lei?
Eccola in arrivo. Una ragazza con un viso carino e semplice, capelli lunghi fino alle spalle con una venatura dorata, un fisico un po’ formoso e generoso.
– Scusa il ritardo – mi dice abbassando il finestrino della Mercedes. Il suo sorriso dolce sparisce per qualche minuto, per fare manovra e parcheggiare.
Ci siamo conosciute perché lavoravamo nello stesso ufficio, sette anni fa. Sembravamo poco più che ragazzine, anche a vent’anni, ma eravamo le uniche sotto i quaranta in uno studio con altre tre donne arcigne a fare le veci del titolare.
Siamo diventate subito amiche ma, dopo sei mesi di lavoro insieme, ci siamo perse di vista per qualche anno. Siamo andate entrambe a guadagnarci il pane altrove, lei in uno studio notarile, io in una concessionaria. Ci siamo ritrovate un anno e mezzo più tardi, quando Manuel, il grande amore della sua vita, l’ha piantata per Silvia, una veronese secca e un po’ acida.
Una sera io e Giulia ci siamo riviste in un locale. Ci sono voluti pochi istanti per scambiarci i numeri di telefono e ricominciare a frequentarci da semplici amiche. Cinque anni fa, insomma, sono entrata nella sua stessa compagnia. E non ne sono più uscita.
Giulia è splendida con il suo tailleur verde. Ha i capelli un po’ ondulati, con una piega d’angelo, la stessa che ha fatto innamorare Simone Il Grande, come è stato sempre soprannominato per via del suo metro e novanta di altezza.
Ma lui non è l’unico a cui Giulia ha fatto perdere la testa. C’è anche Gabriele. E anche Marco.
Tutti gli uomini della compagnia, insomma.
Quando sono entrata nel gruppo non avevo idea dell’ascendente che aveva su tutti loro. Il primo a farmelo capire è stato Simone: dopo il Fattaccio, però!
Il Fattaccio? Eh, sì. Un pomeriggio d’autunno, un gelato insieme, una tenera passeggiata: in men che non si dica mi sono ritrovata tra le sue lenzuola…
È stato magnifico. Appassionato. Tenero. Per questo non ho più lasciato che succedesse.
Perché? Perché se mi è piaciuto tanto non ho voluto che ricapitasse?
Perché non volevo innamorarmi e soffrirne. Me ne sono stata da parte, a vedere cosa faceva lui e, soprattutto, a vedere come reagivo io: non volevo restare coinvolta da un semplice amico.
E poi me l’ha detto:
– Tu sei la ragazza con cui mi piace divertirmi, con cui mi piace scherzare, ridere. Ma è Giulia il grande amore della mia vita. È la donna con cui sogno di sposarmi e di avere dei figli.
In quel momento tutti i miei dubbi sui miei sentimenti si sono spenti. Dovevo aiutarli a stare insieme, un amore così grande non poteva essere sprecato. Abbiamo cominciato a uscire in tre, in modo che loro due stessero un po’ insieme. La sera, dopo il lavoro, io e Simone andavamo insieme a scegliere i suoi regali per lei; in più, quando io e lei eravamo sole, le facevo notare quanto lui sapesse essere dolce.
Un anno dopo ho rinunciato. Lei non ne voleva sapere. I miei maldestri tentativi di inculcarle qualcosa di più dell’affetto per lui e gli sforzi di seduzione di Simone erano vani. Per lei esisteva solo Manuel.
Simone ha avuto altre storie. Io ho cominciato a uscire con Luca, un giovane ingegnere.
Simone è stato via un po’ di tempo per lavoro. Intanto, Gabriele ha cercato di fare innamorare Giulia, ma è stato inutile.
Poi, una sera, mentre guardavamo le foto di un viaggio, ho capito che anche Marco era innamorato di lei. Peccato che Sonia, la sua ragazza, lo abbia intuito più o meno nello stesso momento.
Marco e Sonia si sono lasciati. Giulia non ha voluto saperne di Marco, né tantomeno di Gabriele, che non è riuscito a dimenticarla neppure con Elena, “Dumbo” come l’abbiamo soprannominata in compagnia, per via delle orecchie un po’ grandi.
La mia storia con Luca funzionava e ho cercato di non addossarmi i problemi della compagnia, facendo finta di nulla. Marco ha provato a uscire con la cugina di Giulia ma la storia non ha funzionato fin dall’inizio. Gabriele ha avuto diverse altre ragazze, ma mai una relazione stabile.
Giulia mi sorride, qui di fronte a me.
Si china verso la carrozzina e accarezza il visino del mio bimbo.
– Diventa ogni giorno più bello! – esclama e gli dà un bacio con un dito.
– Si vede che ha preso dal papà – le dico io con un tono allegro, fissando il mio piccolo.
Lei mi guarda e abbozza un sorriso ancora più grande. Sa quanto è carino il padre di mio figlio.
Giulia li ha tutti ai suoi piedi, gli uomini. Forse la sognano la notte, sperano in un futuro con lei. Ma lei non si avvicina e resta sul suo piedistallo. È una ragazza splendida.
La vita, con le buffe sorprese che riserva, mi ha insegnato ad apprezzarla.
– Dai, Simone Il Piccolo – dico a mio figlio – portiamo la zia Giulia a fare compere!
E la mia amica ride.

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Che cos'è il postmoderno? Un bibliografia semiragionata

di Massimo Pasqualone

Il rapporto cultura-società deve necessariamente tenere conto di una delle categorie interpretative più (ab)usate dagli anni Ottanta in poi: la categoria del postmoderno. Dopo l'esplosione della discussione avvenuta negli anni Ottanta intorno a questa categoria, è necessario interrogarsi se la questione abbia acquisito un significato fondamentale nel panorama della cultura contemporanea, soprattutto filosofica.
L'affaire postmoderno ha raccolto, negli ultimi venti anni, gli elementi più significativi del dibattito filosofico italiano ed internazionale, che hanno provato ad indicare le coordinate del tempo in cui viviamo, coordinate problematiche, contraddittorie, sovente ambigue e decisamente complesse (termine chiave della intricata questione).
Una riflessione accurata deve principiare dall'origine del termine postmoderno che compare per la prima volta nell'ambito linguistico spagnolo a partire dal 1930 ed è impiegato come concetto tecnico della storia letteraria da Federico de Onis nella Antologia de la Poesia Espanola y Hispanoamericana del 1934 come sostiene Michael Kohler nel suo saggio "Postmodernismus": una sintesi storico concettuale [1977], trad. it. in AA.VV., a cura di C. Aldegheri e M. Sabini, Immagini del post-moderno, Cluva, Venezia 1983. De Onis lo impiega come termine che indica una corrente poetica che si oppone al modernismo letterario. Nella cultura angloamericana il termine è riscontrabile a partire dal 1940 e negli anni Sessanta entra come termine della critica dell'arte, della letteratura e della cultura in genere. Arnold Toynbee, nel suo A Study of History, Hoxford 1947 assimila il termine post-Moderno all'età contemporanea, intendendo la fase storica successiva al 1875. In America, sotto il nome di postmodernist fiction si indica una tendenza della narrativa che raccoglie un gruppo di romanzieri che, del romanzo moderno, rifiutano la forma, il protagonismo dei suoi eroi, la ideologia liberalconservatrice e Barth, Vonnegut, Gass decretano la fine del romanzo americano alla Steinbeck e alla Hemingwaj (cfr. AA.VV., a cura di P. Carravetta e P. Spedicato, Postmoderno e letteratura, Bompiani, Milano 1984).
Nell'architettura il termine postmoderno viene impiegato da CH. Jencks nel suo The Language of PostModern Achitecture (London 1977); in ambito italiano sono da ricordare P. Portoghesi, Dopo l'archittettura moderna, Laterza, Roma-Bari 1980; Id., Postmoderno. L'architettura nella società postindustriale, Electa, Milano 1982; F. Bisutti, Case americane: il postmoderno tra letteratura ed architettura, «Rivista di Studi AngloAmericani», 1990, 8, pp. 373-85.
Ma è con J. F. Lyotard, La Condition postmoderne, Minuit, Paris 1979; trad. it. Feltrinelli, Milano 1981 che viene inaugurato e diffuso un nuovo tipo di riflessione filosofica sul postmoderno. In sintesi, il filosofo francese afferma che la condizione postmoderna si presenta come la condizione in cui diviene manifesta l'incredulità nei confronti delle metanarrazioni della modernità in seguito al crollo della metafisica. Lyotard torna sull'argomento ne Il postmoderno spiegato ai bambini, trad. it., Feltrinelli, Milano 1987. Le riflessioni sulla condizione postmoderna, riguardanti gli specifici ambiti del sapere, l'impossibile connessione dei diversi settori della conoscenza, i criteri di legittimazione del sapere stesso suscitano un vivace dibattito internazionale al quale partecipa il filosofo tedesco Jurgen Habermas, chiamato in causa dallo stesso Lyotard (cfr. Jurgen Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1987). Per Habermas il postmoderno è un segno della crisi in cui versa il progetto culturale-emancipativo dell'Illuminismo (Id., Moderno contro postmoderno, trad. it. in «Lettera internazionale», 8, 1986, p. 47; Id., Il pensiero postmetafisico, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1991). Sulla scia dell'interpretazione di Habermas è da collocare la lettura avanzata da Thomas Maldonado ne Il futuro della modernità, Feltrinelli, Milano 1987; Id., Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1997 e, per quello che riguarda l'architettura, di cui è uno dei maggiori teorici, Id., È l'architettura un testo?, «Casabella», 1989, 53, 560, pp. 35-37. Sempre sulla stessa lunghezza d'onda è da ritenere la proposta del critico statunitense F. Jameson ne Il Postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, trad. it., Garzanti, Milano1989. Il postmoderno esprimerebbe la forma culturale eminente del capitalismo maturo. In Italia Franco Rella, in Miti e figure del moderno, Pratiche, Parma 1981, propone una interpretazione particolare del postmoderno legata alla modernità, come tempo complesso e non riconducibile entro i canoni di un puro scientismo. Sulla stessa linea sono da collocare P. Rossi, Paragone degli ingegni moderni e posmoderni, Il Mulino, Bologna 1989 e il volume a cura di G. Mari, Moderno Postmoderno. Soggetto, tempo, sapere nella società attuale, Feltrinelli, Milano 1987. Più vicini al postmoderno sono Maurizio Ferraris e Gianni Vattimo. Di Ferraris sono da segnalare: Tracce. Nichilismo moderno e postmoderno, Multhipla, Milano 1983; Id., L'ermeneutica di Proust, Guerini e Associati,Milano 1987; Id., Storia dell'Ermeneutica, Bompiani, Milano 1988; Id., L'Ermeneutica, Laterza, Roma-Bari, 1998. Di Gianni Vattimo è noto il progetto di pensiero debole, le cui linee si iscrivono perfettamente nella più generale discussione su moderno e postmoderno (cfr. G. Vattimo, Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano 1981; AA.VV., a cura di G. Vattino e P. A. Rovatti, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983; G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985; Id., La società trasparente, Garzanti, Milano 1989): l'idea della fine della modernità è intesa come fine della storia in quanto corso unitario e progressivo degli eventi e la conseguente nascita di una società postmoderna caratterizzata dal ruolo determinante svolto dai mass media. Negli ultimi anni il dibattito è stato arricchito da A. Touraine, Critica della modernità, Il Saggiatore, Milano 1993 e Ph. Lacoue-Labarthe, L'imitazione dei moderni, Palomar, Milano, 1995. Un particolare aspetto è caratterizzato dal problema dell'interpretazione, di cui si sono occupati alcuni tra i più importanti studiosi italiani. Segnaliamo sul tema V. Verra, Ermeneutica e coscienza storica, in Questioni di storiografia filosofica. Il pensiero contemporaneo, a cura di A. Bausola, La Scuola, Brescia 1978; U. Eco, I limiti dell'interpretazione, Bompiani, Milano 1990; M. Luisa Martini ( a cura di ), "Verità e metodo" di Gadamer e il dibattito ermeneutico contemporaneo, Paravia, Torino 1992.
In conclusione le categorie di moderno e postmoderno sono ancora ben lungi dall'essere definite una volta per tutte, ma, nonostante tutto, il merito della discussione sta nel fatto che ci si interroga sulla configurazione da attribuire alla riflessione filosofica alle soglie del terzo millennio (cfr. G. Patella, Sul postmoderno, Studium, Roma 1990; R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997).

Massimo Pasqualone ha scritto prefazioni per una ventina di volumi, due volumi di poesia in vernacolo (Che ce ne freg’a me e Vijate a te) ed uno in lingua (Agende Postmoderne) e i saggi Il Pascoli conviviale. Tra poesia e filosofia, 1996; Dal valore alla vita. Considerazioni sull'etica di Francesco Orestano, 2000, La dimensione etico-religiosa nella poesia dialettale di Natale Cavatassi, 2000; Etica, persona e ambiente, 2001; Primo Fiocchi poeta dalla parte di Dio. La vita, il pensiero, la poesia, 2003; Per una Pastorale delle Comunicazioni Sociali in G.Cocco-M. Pasqualone-D. De Simone, Verso un nuovo Areopago. Per una introduzione alle Comunicazioni Sociali, 2003. Insegna Filosofia Morale al Master di Coordinamento per le Scienze Infermieristiche e Bioetica e Bioetica Clinica al corso di Laurea on line in Infermieristica dell’Università G. D’Annunzio, Etica e Storia della Filosofia all’Istituto Superiore di Scienze religiose “S. Pio X” di Chieti.

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Fuga dalla solitudine del traduttore nell'esilio della sua parola e del suo sentimento

di Vesna Andrejevic

Da che mondo è mondo o forse meglio dire dal tempo della famosa storia della Torre di Babele persiste una lotta tenace per la parola. Gli scrittori cercano sempre una combinazione nuova, fresca e mai vista mentre i loro traduttori vanno a caccia di quella giusta e unica possibile. Così, sia gli uni che gli altri viaggiano sullo stesso binario affrontando l’identica e "dolce" fatica, solo che un interprete della parola e del sentimento altrui deve acconsentire a sua volontà al proprio esilio durante questo viaggio perché possa aiutare nell’unico modo, e questo vuol dire, nel modo migliore, lo slancio dello scrittore all’altezza mai salita. Ma che cosa è in realtà il traduttore? Un’ombra eterna senza la quale non si può eseguire un tour nel mondo letterario. Semplicemente, il traduttore è sempre la terza invisibile mano dello scrittore.
Riguardo alla fatica e alle difficoltà del tradurre sono state scritte pagine infinite e soprattutto dall’affaticata ed eternamente semisodisfatta mano dello scrittore. È vero, ogni tanto è successo che "il manoscritto" dello scrittore ha riconosciuto questo travaglio e l'intraprendenza di un lavoro da minatore che consta di ricerca, esplorazione, scavo e ripulitura dei vari strati, densi e depositati in ogni lettera del testo. Così sono nati i rari, ma veramente intraducibili inni del ringraziamento degli stessi autori nei confronti dei loro traduttori o, secondo alcune sincere dichiarazioni, dei loro veri "riparatori" dei testi scritti. Tuttavia, nessuna lode poteva mai descrivere gli strapazzi sia interni che esterni, né i dubbi, né l'atto del misurare le parole, né l'impotenza, né la mutezza, né il sottile gioco delle proprie accuse e delle illusioni crudeli attraverso cui deve passare anche il miglior traduttore: un travaglio che non tace mai bensì si rinforza e si moltiplica col tempo. Tutto questo perché il maggior compito del traduttore sta nel fatto che lui non deve mai rovinare o imbruttire la parola dello scrittore e l’emozione che sta dietro la parola stessa. Lui deve semplicemente "riconoscere" la parola e direzionarla come una diga perché raggiunga un nuovo gorgogliamento. Proprio per questo è neccesario intuire e tradurre anche quello che stava nella prima versione del testo, queollo che lo scrittore ha respinto con tanta indignazione, oltre a tutti gli slanci e i dubbi che s'infrangevano sullo scrittore, nella varia forma di fatti storici, sociali, personali, e finalmente tutti i silenzi, le virgole, i punti e... ah, sì, dimenticavamo, il traduttore deve tradurre anche "qualche" parola nel testo. E come può fare tutto questo un traduttore che ha sempre paura di diventare un traditore? Prima deve svestire la parola come se essa fosse la donna piú bella e desiderata al mondo, denudandola completamente mentre lui scava dentro i dizionari cartacei e virtuali e poi deve toglierle questa impersonalità acconciandola con il vestito piú prezioso che abbia trovato nella propria abilità, e sapere e dentro la propria anima. E tutto questo deve dare un’impressione di leggerezza e fluidità, come d’impresa fatta in un batter d’occhio e senza fatica. Davvero un’impresa difficile. Succede che pure allo scrittore manchi la parola ed al suo traduttore mancherà per questo sia la parola ritrovata che l’inquietudine dell’autore smarrito.
Purtuttavia, è proprio la rassegnazione davanti i riflettori sempre spenti sia del lettore che dello scrittore che scomoda maggiormente il traduttore. La maggior parte degli autori non conosce mai i loro traduttori e figuriamoci che facciano un minimo sforzo di imparare la lingua del proprio traduttore per poter valutare la compiutezza e la beltà della parola tradotta. In breve, lo sforzo, l’energia e l’ingegnosità che un interprete del pensiero e della parola altrui deve impiegare ogni volta di nuovo senza far pesare sul testo dello scrittore nemmeno un briciolo della propria capacità e ambizione artistica sono uguali al canto agonizzante del colibrì che va cantando nel proprio silenzio. Poi, se vogliamo essere sinceri, dobbiamo ammettere che c’è un rovescio della medaglia: solo uno che porta dentro sé stesso la propria creazione e le proprie poesie ancora non scritte o i racconti, i romanzi, i drammi ecc. può eseguire quest’ impresa, cioè può trasportare il carico altrui nella propria barca al di là del fiume proteggendolo da tutte le rapide, da ogni onda, pure da quella piú piccola che vorebbe bagnarlo, ma nello stesso tempo difedendolo dalla propria navigazione inquieta e dal proprio timone "turbato". Per questo i veri scrittori e i loro veri e grandi traduttori sono legati per sempre con catene che non si possono mai spezzare.
Ma se questo riconoscimento della matrice personale e professionale avviene nello stesso tempo e proprio all'inizio della collaborazione, il doppio binario iniziale diventa col tempo solo uno e pure un grandissimo slancio comune. Le conoscenze altrui assieme alla parola altrui, cioè alla parola dello scrittore, prima o poi devono strappare e svegliare l’altra parola raffrenata, quella del suo traduttore, spingendola a sbucare con tutta la forza alla luce o meglio dire, a spuntare all’ improviso dalle ricchezze del sottosuolo come un geyser che schizza con i suoi getti lo stesso traduttore-autore e il suo scrittore-interprete. Ed ecco che miracolosamente i ruoli vengono scambiati e i conti fra il creditore il debitore vengono saldati e ridotti allo zero. I grandi ed eccellenti scrittori, cioè quelli rari, scoprono nei loro traduttori dei nuovi autori, i loro riflessi e le loro tracce e li aiutaono ad uscire dalla dedizione vereconda con cui interpretano i pensieri e i sentimenti altrui. Non dimentichiamo che i migliori interpreti dei poeti sono i poeti, dei pittori gli altri pittori e cosi via. In tal modo nasce una simbiosi d’arte dalle dimensioni cosmiche, ma solo in casi rari. Anche se lo scrittore con la beltà del suo stile o con le insolite maniere (però rimane sempre la domanda cos’è oggi veramente insolito?) riuscisse solo a svegliare la sublime ambizione creativa del suo interprete, questa impresa sarebbe tanta e così grande che rientrerebbe nell’eterno ordine dell’universo secondo cui niente, proprio niente, succede per puro caso e secondo cui ogni manifestazione ha le sue forme e i suoi mutamenti.
Ma se, per un puro caso, il traduttore ardisse stare fianco a fianco con il suo scrittore e si mettesse a scrivere nella di lui lingua materna dello stesso scrittore, allora tutti si trasformerebbero nei veri testimoni di un’impresa quasi impossibile. Si dice che non si possa scrivere né recitare nella lingua altrui, ma con la globlizzazione stiamo diventatndo tutti Sam o Pam dimenticando nello stesso tempo chi siamo, da dove veniamo, e tutto questo in nome di una e unica cultura comune da “chewing gum” che ha diritto esclusivo alla sopravivenza e alla “masticazione” di ogni cosa e di ognuno… allora l’apparizione di scrittori e di traduttori-scrittori o di una metamorfosi di queste due vocazioni, i quali non scrivono nella popria lingua madre bensì pensano e direttamente trasformano i loro pensieri nella lingua altrui, presenta l’unico positivo “effetto o danno collaterale” di tutta la globalizzazione. Anzi, siamo sicuri che i suoi creatori non si immaginavano nemmeno che questo fenomeno sarebbe potuto nascere. Forse siamo pure i testimoni di una chimera donchisciottesca che si manifesta come una fusione di reltà e immaginazione. Però il fenomeno di autori che scrivono in lingua straniera ha cominciato il suo cammino e continuerà a diffondersi in modo irrefrenabile. Ci sono certo stati autori di grande successo che hanno scambiato la propria con una lingua straniera. Per la maggior parte erano scrittori delle ex colonie in cui francese o inglese erano le lingue della educazione obbligatoria e della formazione intellettuale, ma oggi si tratta del volontario esilio dalla propria lingua e cultura nella nuova lingua straniera, appena imparata o perfezionata, dove si cerca un valido posto. Si parla, guindi, dei moderni esuli dalle proprie radici che cercano l’ancoraggio nella nuova e vicina patria linguistica e culturale, cioè del fenomeno che ha fatto venire alla luce il nuovo millennio proprio con il suo fanatico atto del riordinamento dei confini, togliendone alcuni e stabilendone di nuovi, con l’angoscia tremenda che quelli che si sono trovati fuori il loro "ovile" possano incattivirsi e non aspettare il proprio turno di entrare nel recinto desiderato. E qui si parla di tutti quelli riordinamenti storici, dei calcoli e delle misure politiche degli ultimi decenni del secolo passato e dei primi anni del nuovo secolo.
L’impresa può davvero sembrare una mission impossible. Una lingua straniera non si riesce mai ad imparare come quella che si assume con il latte materno, si può però perfezionare in modo tale da ottenere "un caffellatte" dal "latte materno" altrui: provate a scrivere in una lingua straniera e il risultato vi sembrerà o un dolce e fallace inganno della vostra ambizione o un’attraente boccone d’arte. Dopo la prima esaltazione, date il vostro capolavoro al primo contadino al mercato che ha "il vostro boccone" geneticamente impresso nella mente. La sua soluzione forse non sarà migliore, ma si dimostrerà sicuramente più viva, più sciolta, più comprensibile. Provate a sfogarvi nel pianto sulle sue spalle, nascondendogli il motivo della vostra disperazione.
E allora, è mai possible eseguire questa impresa? E poi come e in quale misura riesce a compiere questo compito il nostro traduttore con l’ambizione sincera di cimentarsi con un lavoro così imprevedibile nella lingua del suo scrittore? Come può fare tutto questo se il suo principale difetto cioè il maligno avversario è proprio la lingua in cui deve realizzare il suo sogno? Siamo di nuovo nella twilight zone della afasia e dell’impotenza del traduttore che ora si mescola con il tacere e con il nodo alla gola dello scrittore. L’autore che è stato il modello e il nostro grande maestro, ha compiuto la sua missione e pur volendo, non può aiutarci. L’unica cosa che possa fare è guardare di buon occhio la nostra riluttanza verso la logica delle cose e verso il nostro tentativo furioso di saltare "il recinto da casta" o "gli steccati altrui" dietro cui stavamo sbirciando finché non ci siamo stancati dell’unico buco forato attraverso cui potevamo vedere solo con un occhio tutto quello che accadeva nel vicinato attraente. In sintesi, come si conquista "il mercato linguistico straniero" e in che cosa consiste "un buon marketing d’autore" per chi scrive in una lingua straniera? Allora, niente di imitazioni di modelli presenti, nemmeno di quelli linguistici. È necessario rispettare le regole: sia quelle grammaticali che quelle letterarie, ma niente di piú. Sembra paradossale, ma proprio la nostra posizione di intrusi nel teritorio altrui, di esuli linguistici e culturali, di outsider, sarà la nostra arma più potente: tutto questo fa nascere un’emozione tremenda da tempo soffocata che, una volta venuta a galla con tutte le sue forze, comincia da sola a farsi riconoscere senza traduzione perchè il dolore, la gioia, la paura, l’angoscia, la felicità sono concetti del vocabolario emotivo di ogni essere umano. Le emozioni si comunicano a una velocità sconosciuta a cui la velocità della luce fa il garzone. Per di più le emozioni hanno bisogno di essere trasfuse nelle grandi immagini che prenderanno il ruolo delle parole. Ecco, siamo arrivati al cuore di qualcosa che si può definire l’effetto filmico della lingua di chi scrive in lingua straniera. La sinestesia non è una cosa nuova, però finora abbiamo avuto sempre l’immagine a fare la funzione della parola. Se non c’è una bella storia, non c’è nemmeno un bel film. Con l’introduzione della poetica e del linguaggio cinematografico nella parola scritta forse è giunta l’ora che la settima arte saldi il suo debito verso la parola scritta che è ne stata finora la trama e la base, il che aiuterà tutti coloro che scrivono e magari sognano in una lingua straniera a risolvere il loro dilemma creativo. Ma questa globalizzaazione delle poetiche non significa l’annullamento delle varie arti bensì l’incoraggiamento perché la parola e l’immagine si trattengano ognuna al proprio cardine, cioè l’opera letteraria alla parola e il film alla immagine. Altrimenti, se togliamo la parola da un libro, e da un film le immagini, otterremmo vuote e spettrali quinte letterarie e una cieca e muta storia da film.
Infine, che cosa rappresenta uno scrittore-traduttore-interprete straniero (chiamiamolo pure l’unico pasticcio mondiale fatto dei propri bisogni, amori, ambizioni, desideri e speranze ecc.) nella letteratura italiana? Proprio un nuovo occhio, un nuovo sguardo, un nuovo ritmo, la nuova cantilena che si deve solo correggere un po’ adattandola alle definite norme linguistiche e letterarie e che non ha affatto bisogno di essere "tradotta e messa" nei canoni di una letteratura così grande ed immortale come quella italiana. A prescindere dal fatto se gli autori stranieri vivano sul suolo italico o siano collegati ad esso in modo virtuale o tramite la loro immaginazione, a prescindere dal fatto se scrivano direttamente in italiano oppure come fa la maggioranza di loro, traducano i loro pensieri, una volta dalla propria mente alla madrelingua (e di questa traduzione non si parla molto) e poi da essa alla lingua straniera, è importante che l’opera venga concepita sul modello italiano, sia linguistico che culturale. Il compito generale di questo modello che, a nostro avviso, è stato già ben riconosciuto dalla antica e saggia memoria latina, sta nell’apertura di un porto tutto nuovo con posti sufficenti le zattere, le barche, le navi, i bastimenti, ma anche per qualche antico veliero smarrito o forse pure per una nave grandicella. In tal modo la leterattura italiana ci guadagna perché sarà tra le prime a poter scegliere tra i nuovi respiri, tra i nuovi e vari rinfrescamenti e potrà crescere con una moltitudine di voci rimanendo ancora unica, quella che esiste da sempre e fa a modo suo cioè "alla italiana". In breve, camminerà verso un nuovo modello linguistico e poetico promovendo in modo perfetto il concetto contemporaneo del marketing mondiale "crescendo globalmente col pensiero locale".

Vesna Andrejevic, nata a Belgrado, è professoressa di lingua e letteratura serba e di letteratura internazionale. Fra i vari riconoscimenti ricordiamo la segnalazione nel concorso Pubblica con noi.

 

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a Federica e Su Papier Mais

di Chiara De Luca

a Federica (da Senza)

Il tuo corpo lanciato in volo inerte sull’asfalto
quella linea sottilissima di sangue sulla fronte
Stai lontana piccolina non guardare
i tuoi capelli biondi attorno al volto silenzioso
in alto il grido spaventoso di mia madre
subito sparita dietro te nell’ambulanza
mentre all’improvviso si serravano le porte
a sirene spiegate verso l’ospedale
stai tranquilla, non piangere, non ti preoccupare.
Conoscere nei mesi seguiti all’incidente
un qualcosa di più definitivo della morte
giocando da sola all’infinito con il niente
vivisezionando nel silenzio la paura
fra le mani i tuoi scritti, i tuoi pensieri, i tuoi progetti
per il nostro “Miniclub delle Giovani Marmotte”
la candela che danzava inesausta contro il muro
graffito nella casa dell’infanzia in via Mentessi
il tuo corpo negli anni che cresceva e si formava
ma cosa ti accadeva, nella mente, Fede,
costretta giorno e notte dentro il buio a non vedere…
Riesplode ancora uguale la rabbia lungo il fiume
stringi i denti frangi il fiato spezza quelle gambe non gridare
di quella che sarebbe potuta diventare
della scheggia divelta dall’acciaio del mio cuore
Dio l’ha liberata,
mi hanno detto, Fede
a ventotto anni finalmente se n’è andata.

***

Su Papier Mais

Papier Mais, di Francesco Randazzo, è un libro che si estende ben oltre il piccolo formato e la brevità dei testi che lo compongono. È un libro che dura ben più del tempo della sua lettura. Lo abita un’ironia acuta e intelligente, che ti porta al sorriso o al riso, per poi smorzarlo e lasciarti a riflettere, a lungo. Come giustamente scrive Stefano Martello nella sua introduzione, Papier Mais è un’opera colma di umanità. Ed è un’umanità intesa nel senso più profondo del termine. Non si tratta dell’ostentato buonismo ipocrita e falsamente tollerante di chi guarda al mondo da una posizione di auto proclamata superiorità ora bacchettante, ora assolutoria. Si tratta piuttosto dello sguardo sofferto e partecipe di chi la realtà vuole coglierla nelle sue sfaccettature paradossali e contrapposte, eppure compresenti in un precario equilibrio che è in gran parte costruito su giochi di ruolo e di potere stabiliti dagli esseri umani (es. Un sindaco, La regola dell’alternanza, Il funzionario); e sulla mediocrità della massificazione acritica dei comportamenti (es. La vita quotidiana dei Vikinghi, Se non ci fosse l’America, Reality show). Mentre ciò che produce lo scarto, ciò che rompe l’equilibrio fittizio sono i comportamenti non convenzionali dei singoli, quelli che spesso li condannano a essere isolati, anche ostracizzati (es. Soltanto il mare, Papier mais, Il giardiniere, Il divoratore di libri).
Tutti i testi di Papier Mais muovono da un fatto di cronaca, o da un evento storico, da un episodio biblico o da un dato reale di esperienza, in ogni caso di vita vissuta o vista vivere. Il più delle volte, il dato reale viene poi restituito mediante una straordinaria capacità di sintesi e una sapiente ed originale trasposizione fantastica, che spesso fa del paradosso la sua cifra, "superando" il reale, per poi riprecipitarvi il lettore all’improvviso.
Così, ne Il nano, l’intolleranza razziale diviene un gioco al massacro che non comporta né vinti né vincitori, perché il vincitore sarà carnefice e vittima della propria stessa furia omicida, "Ma forse è solo una leggenda che noi subumani superstiti ci raccontiamo per consolarci un po’, nel buio delle fognature dove viviamo in clandestinità e paura".
Ne L’addio e Gesù il fatto biblico viene anch’esso immerso nella realtà, l’amore incarnato diviene amore carnale, con un procedimento paradossale che non tende tanto alla dissacrazione, quanto piuttosto alla riaffermazione di quella stessa umanità di cui si parlava, così come avviene in Prima del nirvana e Budda.
In Reality show è ancora la rappresentazione iperbolica e paradossale a rivelare la vacuità della strumentalizzazione mediatica del quotidiano e della spettacolarizzazione di emozioni e sentimenti costruiti a tavolino e abilmente orchestrati.
Ne Il bello dei bambini, che, con Fuori corso e La regola dell’alternanza è a mio parere uno dei testi più riusciti, l’ironia intelligente e dissacratoria colpisce il cliché che fa dell’infanzia l’età dell’innocenza e della spensieratezza: "Mentre invece quei serafini graziosi, concentrati su se stessi, ci fanno tenerezza e ci commuovono persino, sono l’emblema, disegnato da un divino pittore, della terribile natura umana. In questo senso sono angeli: messaggeri di una spietata verità. Ed è per questo che bisognerebbe vietarne l’uso negli spot pubblicitari: sono immorali”. Qui, come per esempio anche ne Il poeta, e Who is Who, l’autore colpisce per estensione ogni cliché e stereotipo determinato dalle convenzioni e dai condizionamenti che chiudono la strada al senso critico.
L’ironia disincantata domina fino al testo conclusivo, Ultima lettera, una lettera di disperato amore "mai scritta e mai letta", che tu divori, aspettandoti il solito guizzo di ironia, la consueta svolta dissacratoria cui l’autore ti ha abituato fin dalla prima pagine. Ma stavolta giungi al punto finale con un senso di sospensione, quasi di incompiutezza. Perché l’attesa e liberatoria sdrammatizzazione non arriva. Ed è come se la vera lettera fosse ancora da scrivere, come se l’opera restasse aperta, chiamandoti a parteciparvi davvero attivamente, a leggere oltre l’apparente leggerezza, per lasciarti schiacciare dal "peso" che essa sottende, un peso che le parole non possono assumersi, perché, per dirla con l’autore "Continuo a confondere la realtà con queste insulse parole che scrivo e che fingono d’alleviarmi le notti, che m’allontanano dai giorni".
Il fallimento della parola non è però abdicazione, bensì affermazione estrema di umanità, nel senso di un amore fatto essenzialmente di gesti concreti:
“Non basterà il tempo, per finire di pensarti.
Come l’inizio, con te vedrò la fine. Mi assolverai e ti darò la mano. Non sarà più necessaria nessuna parola.”

Chiara De Luca ha pubblicato con noi una silloge nella Coda della galassia e La collezionista, in presentazione a Bologna sabato 11 marzo 2006 ore 18,00 presso la Librincontro di Via S. Vitale 4. Del libro così parla Carla De Angelis:
"La collezionista è un gran bel libro tiene il lettore appeso ad un filo perché sono tanti i modi di leggerlo, come un racconto perché scorre, come un giallo perché tiene il fiato sospeso; invece è cronaca, documento, atto di accusa che coinvolge l’attuale generazione e quelle precedenti. Mi chiedo che fine fanno tutti quei giovani che non hanno le capacità della protagonista.
Federica è una ragazza generosa, leale, con un profondo senso della realtà, per la sua età sogna poco (non ne ha il tempo) ha già capito l’altro, ciononostante continua a spendersi con generosità, stringere mani che forse vorrebbe frantumare. Un profondo ringraziamento a Chiara De Luca che ha saputo rendere (complice la sua simpaticissima vespa) con stile, dovizia di particolari e una scrittura davvero bella, l’esperienza di tanti giovani, quasi fosse divertente: fa riflettere i più adulti su come sta andando il mondo e invita tutti a rimboccarsi le maniche, non so a fare che, non ho ricette, so che è un libro che dovrebbero leggere tutti e farne argomento di discussione."

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