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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 87
Marzo 2007
Editoriale:
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
Sono parole di Salvatore Basso, un poeta precocemente
scomparso, che ci viene presentato con amorosa acribia da Marco
Scalabrino. Altre voci intense e per niente blandenti aprono questo
numero di Faranews: Chiara Daino ispirandosi ai Trionfi
scrive "Insomma so che dama è alma ondivaga", mentre
Patrizia Rigoni osserva: "Dio, se esisti, forse
mi vedi / forse mi parli da mesi". Il reportage di Fabio
Pulito ci avvicina all'Oriente, il racconto di Alessandro
Sichera ci avvolge come un tango e quello di Corrado
Giamboni ci provoca con il suo sadico umorismo. Filippo
Ranchio si chiede se abbia senso il concetto di "sovrantità"
e la preghiera di Marco Bottoni ci pone sotto gli occhi
questioni di vita e di morte.
Ricordiamo a chi ama scrivere il nostro concorso Prosapoetica.
Buona lettura.
Varka
e Archi di Pietra
di Chiara
Daino
Varka,
sei marinato. Sei miniato: un fumetto. Il mio e capita – no, non
spesso! – fra le mani. È il numero 15: barrato. Linea pieghevole,
che spiega – il nostro essere sotto. Vuoto. Pressione.
E Sale: lui. Tu: un vecchio varka. Tu: pinzi la ruga in radica riga
– baffo liso e teso alla bella, anemica. In bianco, riso: «Tu
lo sai!».
«Sì, lo so!» e cosa è scusa. Per attraccare:
«Si vede da come guardi: tu lo sai» e apri le danze al tuo
temporale. Oltre la pupilla, per fiutare dentro – ma cozzi: non
permetto. Proprietà proibita che provoca: montagne rosse (un
peccato privato!).
Viri il peso del tuo accento, dell’Io carnale e dell’Io
spirituale. Due per uno: trenta. Denari e dazi: trenta euro. Tre
le minute. E fenomeni: «pensa, pensa se fosse un libro, un libro
vero. Ne ho scritte. È in quarantena. Quante. Per i
volontari. Poesie, tu sai».
Tu Varka: condizionale – imperfetto «se uno... Solo... Uno».
E torni ai tuoi muri: in consegna. Fronte del porto. Una copia, ti è
rimasta solo una copia: calcata, come la buccia. Una copia della luce.
Omaggio. La prova, la prima. Dieci euro. Dici: « mi hanno dato
– dieci euro a copia. Fotostatica. Loro. Quelli del reparto. I
volontari. Quelli che non sanno: non hanno.
Non bevono: il porto».
Dieci. Il prezzo della tua dieresi: pezzi divisi, saldati da due punti.
Satura di graffetta. Dieci. Le dita, per due. La base. Dieci. Due cuba,
per salpare. Dieci che se stilo: trovo una bozza di io. Un romano ci
mette la croce.
Dieci.
I minuti a favore. Nostro. Mormori: «Pensa, pensa se fosse un
libro vero. Non sarei più lì, povero».
E penso che non ricordo: una frase, una sola. Della scritta chiara.
Solo il farsi. E ti peso e non voglio sapere: che vento – ti ha
ridotto. E vorrei, vorrei davvero – ripescarti. Sono
parole: sono reti...
Centimetri di una prossima volta. Sì, lo so – non
vela! Non è data: quella parola. Grandini ancora: grani
di voce, per un rosario veloce. Sempre 15. Barrato. L’occhio inibito
dell’altro incede – ma siamo: a Genova. Ianua non
iuvat. Ti confronti le doppie: è Genova. Una porta che non ha:
aperta. Posta come quinta, fissa: controcampo di prato mobile –
è solo blu praticabile. Devo uscire: di-scesa, la mia, è
fermata. E mi benedici. Sia faro.
Fermo, fra le dita: una biONDA. Per seccarsi, nel gioco di strada. Viziosi:
è stipa di versi. Incontro forza 15, per 2 sono 30: cifra. Noi
– e: la formula, si sa… Tonda.
«La rosa gira. Non sapevo: a piedi. ». Nodo manuale. E stringi
l’occhio: gancio del Varka.
«Chocolat!»
Segui il vento…
Archi di Pietra
Una giovene fiera a paro a paro coi nobili poeti va cantando,
et ha un suo stil bruto e raro.
Ven colei ch'ha 'l titol d'esser belva: nudrita di penser non dolce,
sciolta favella, tal che nessun sapea 'n qual mondo fosse. Giunge la
funesta: colei che 'l mondo chiama ostile – e sempre un stil,
ovunque fusse, tenne.
Ven colei ch'ha 'l titol d'esser folle: ch’ella amante terribile
e maligna; disdegnosa e dolente si richiama. Del più dotto(r)
figlia è chiara la crudel fama! Et anco è di malor: sì
nuda e magra, tanto ritien del suo primo esser BILE, che par dolce ma
punge agra.
E veggio ardir quella leggiadra fera, dispietata. Donna, fiera ch'è
oggi ignudo spirto e felice sasso che 'l bel viso serra; fu già
quella: alta colonna di malor. Colei che con sua tela tutto 'l mondo
atterra, tornava con onor da la sua guerra, allegra, avendo vinto. Vedi
il gran nemico? Com'arde in prima, e poi si rode, d'amor, di gelosia,
d'invidia ardendo: in grembo a la nemica il capo pone.
Vidi il gran nemico stanco già di mirar, non sazio ancora –
gli occhi dal suo bel muso non torcea, gli occhi, ch'accesi d'un celeste
lume. Femina vinse chi pareami tanto robusto [del qual più d'altro
mai l'alma – e non sol quella
ebbe piena]
Dogliosa e secca fu principio a SÌ lunghi
martiri: memoria di sospiri. Più salvatica che i cervi, non curando
speme né pene, allegra giostra, avendo vinto la sua
guerra. Costei non è chi tanto o quanto stringa: crudelmente
scorza e rebellante suole – da le 'nsegne d'Amore andar solinga.
Non fan sì grande e sì terribil sòno Etna qualor
da Encelado è più scossa, non freme così 'l mar
quando s'adira. Non bollì mai Vulcan, Lipari od Ischia, Strongoli
o Mongibello in tanta rabbia: non già quanto lei a disfar tutto,
così presto. Sia 'l nome: Chiara e chiamasi Fame – et è
morir secondo; ragion contra lei non ha loco e poco ama sé chi
'n tal gioco s'arrischia.
Tutte le sue Virtuti eran chiare mosse (a chiosa glossa): gente di ferro
e di dolore armata.
Schiera che del suo nome empie ogni libro; e come Fortuna va cangiando
stile! Duro letto, dama sente. Ma benché obliqua, so quale lama
sovra la mente: rugge, so com'ode saetta e come vola, e so com'or rubea
per forza e come invola, instabili sue note, le mani armate –
percote [E non v'è chi per lei difesa faccia quand'ella
è sola]
E son gli occhi: rapaci e tenaci, son come sete. So come
nell'ossa il suo foco di pesce e ne le vene vive occulta
piega, onde morte e palese incendio nasce.
[E l’ira cresce]
E so come in un punto si dilegua e non v’è
speme di trovarla, e so in qual guisa, fra lunghi sospiri e brevi risa,
voglia color cangiare spesso; stando dal cor l'alma divisa. Seguendo
'l foco ovunque fugge; sa arder da lunge ed agghiacciar da presso.
So come ogni ragione d’Amor discaccia, e so in quante maniere
il cor distrugge. Insomma so che dama è alma ondivaga: rotto
parlar con subito silenzio. E poi sparge mille volte il sangue: poco
dolce molto amaro appaga, mal temprata con l'assenzio!
Donna involta in veste magra, con un furor qual io non so se mai: «co
la mia lingua e co la forte penna» [rispose quella che fu
nel mondo una]
Chiara: virtute accesa, quasi un scoglio. Et la boriosa
impressa avea: sangue meschio, un singular suo proprio portamento,
suo riso, suoi disdegni e sue parole. E poi
un drappello di portamenti e di volgari strani: ch'ogni maschio
pensier de l'alma tolle.
Pallida no, ma più che neve bianca che senza venti in un bel
colle fiocchi, parea posar come persona stanca. Quasi un dolce dormir
ne' suo' belli occhi, sendo lo corpo già da lei diviso, era quel
che consumar chiaman gli sciocchi. A chi sa legger era condutta,
a guisa d'un soave e chiaro lume – cui nutrimento a poco a poco
manca, tenendo al fine il suo caro costume. Ecco colei che
vien selvaggia, che di non esser prima par ch'ira aggia: ancor
fa orror col suo dir strano e singolare. Poco era fuor de la comune
strada, se, come dee, virtù nuda si stima. Era colei ch'Algòs
sì leve afferra, et a Genova tolta, et a l'estremo cangiò
per miglior patria, abito e stato [SOGNO D'INFERMI E FOLA
DI ROMANZI]
Ma pur di lei, che 'l cor di pensier m'empie, non potei
coglier mai ramo né foglia, sì fur le sue radici audaci
et purpuree le penne, né volle catene. Benché talor, doler
mi soglia (com'uom ch'è offeso) ecco quel che con questi occhi
vidi: penitenzia e dolor dopo la pelle, la mia nemica Amor non
strinse.
Tardi ingegni rintuzzati e sciocchi: qual greggia eran condutti; i cori
e gli occhi fatti di smalto – la bella vincitrice, legarli vidi,
e farne quello strazio che bastò ben a mille altre vendette!
Tal si fe' quel giorno e disse: «Io son colei che SÌ importuna,
fera chiamata son da voi, sorda e cieca gente a cui si fa notte inanzi
sera. Di gioventute e di bellezze altera, con la mia spada la qual punge
e seca, e giugnendo quand'altri non m'aspetta, ho interrotti mille penser
vani. Or a voi, quando il viver più diletta, drizzo il mio corso
inanzi che Fortuna nel vostro amaro qualche dolce metta. Ben vi riconosco:
so quando 'l mio dente vi morse e qui – conven più
duro morso!».
Fiammeggiava a guisa d'un piropo: bella era, e ne l'età fiorita
e fresca; quanto in più gioventute e 'n più bellezza,
tanto par che sua forza accresca; nel cor femineo fu sì gran
fermezza, che col bel viso e co l'armata coma fece temer chi per natura
sprezza.
Io la vidi pien d'ira e di disdegno: ché già mai schermidor
non fu sì accorto a schifar colpo, né nocchier sì
presto a volger nave dagli scogli in porto, come uno schermo intrepido
et onesto subito ricoverse quel bel viso: «la gran vendetta».
E 'n un momento
– ammorba.
Io la vidi: scudo in man, arco e saette. E tal morti da lei, tal presi
e vivi. Lei pensa, parla o scrive: « Per fictïon il ver non
cresce, né scema», barbarica funesta. E ride.
[taccia 'l vulgo ignorante!]
Poi, col ciglio più torbido e più fosco,
disse: « Piaga antiveduta assai men dole. Forse che 'ndarno mie
parole spargo, ma non fate contra 'l vero al core un callo, come sete
usi! Anzi: volgete gli occhi, mentre il vostro fallo, che sempre al
vento si trastulla e di false opinïon si pasce, tremando scote.
'L tempo è breve, vostra voglia è lunga – e voglia
in me ragion già mai non vinse!
Io v'annunzio che voi sete offesi da un grave e mortifero letargo, ché
volan l'ore, e' giorni, e gli anni, e' mesi; insieme, con brevissimo
intervallo, tutti avemo a cercar altri paesi.
Qui non si stima la penna ch'oso ardita in versi o 'n rima.
Ond'io fora più chiara e di più grido: (reci) Diva son
io, e tu se' morto ancora e sempre sarai».
Così parlava, e gli occhi avea al ciel fissi devotamente; poi
mosse in silenzio quelle labbra ch'io vidi rosse lampeggiar. Dinanzi
a tutto 'l mondo aperta e nuda: mente vaga, al fin sempre digiuna.
Pallida in vista, orribile e superba che 'l lume di beltate vermiglio
avea: dolci sdegni e dolci ire, le dolci paci ne' belli occhi. I' vidi
il ghiaccio, e lì stesso la rosa, quasi in un punto il gran freddo
e 'l gran caldo: dinanzi agli occhi un chiaro specchio.
E NON chiaro si vede ché chiuso cor profondo in suo secreto:
un duro prandio, una terribil cena, come fu suo piacer volse e rivolse.
Nulla temea e con dolce lingua, con fronte serena uscì del foco:
ignuda in cruda grazia, a parlar secco – a faccia a faccia. E
quel che, come un animal s'allaccia, co la lingua possente legò
'l sole: la mia nemica Amor non strinse. E co la lingua
a sua voglia lo vinse.
Un gran folgór parea tutta di foco: che quando
il miri più tanto più luce; e di che sangue qual campo
s'impingue. Empié la dïalettica faretra ma breve
e 'scura; e' la dichiara e stende. E alzò ponendo l'anima
immortale: mostra la palma aperta e 'l pugno chiuso; e per fermar sua
bella intenzïone nulla forza volse ad atto vile. La lunga vita
e la sua larga vena pone in accordar le parti [che 'l furor
litterato a guerra
mena]
Falcon d'alto a sua preda volando e più dico: non
difalca! Né pensier poria già mai seguir suo volo, non
lingua o stile, tal che con gran paura la rimirai. Di lei o di sua rabbia
par che più d'altri invidia s'abbia, che per se stessa è
levata a volo, uscendo for della comune gabbia. E riprende un più
spedito volo – la reina di ch'io sopra dissi.
Passan nostre grandezze e nostre pompe, passan le signorine, passano
i ragni; né MAI si sposa né s'arresta o torna, finché
v'ha ricondotti in poca polve [Perché umana gloria ha
tante corna]
Io dissi di quella che ’l ferro e ’l foco
affina: la penna da man destra e ’l ferro ignudo tèn dalla
sinestra. Invece d’osse la vidi indurarse in petra aspra che del
mar infamia fosse.
Disperata scriva, donna viva
– e chiara una volta fia Chiara [in eterna
brama]
[colpo di mano ai Trionfi di Francesco Petrarca, polpa di Chiara
Daino]
Chiara Daino vive a Genova.
È attrice di teatro, songwriter, traduttrice e autrice. Il suo
primo one woman’s act è stato Su un Io colonna,
su testi di Emily Dickinson nella traduzione di Massimo
Sannelli (2006). Per le edizioni di Cantarena (Genova) ha pubblicato
nel 2006 la commedia Permis de traduir in Animaelegentes.
In rete:
www.chiaradaino.blogspot.com
Un
mondo a p'Arte
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Distanze
astrali
di Patrizia
Rigoni
Qualcuno mi adagi
uno scialle lilla
di parole intrecciate
maiuscole di lane
pizzi di metafore
e fili trascinati
per scaldare di note
e sussidi di disadattamento
queste mie povere
spalle mutilate
dove le braccia
non arginano
le mani non remano
e la malattia così vicina
così odorosa di gerani
tra le pisce dei gatti
e rigurgiti di una razza
la prima, forse l’ultima
distante questo giorno da me
come quell’ultima tremula stella
***
Perdere padri, perdere madri
perdere certezze nelle frasi
perdere fratelli per strada
figli tra le bombe
non riuscire più
in quel noi
perimetro di ossa, di bestie
togliere, levare, spogliare
denudare, e ancora
e più sotto
fino a procedere come
edere di muscoli
parassiti alle proprie stesse ossa
farsi acqua, chiedere tè
Laggiù, laggiù,
molto lontano
allo stesso modo nudo
forse mi aspetta
e ha profumo di menta
***
Se piangessi soltanto
la partenza già avvenuta
di un cuore che ha preso la finestra
e un corpo che ha temuto di seguirlo
e qui urta, non riconosce i muri
trema, rinuncerebbe alla fame
dimentica i suoi stessi primi bisogni
i tre comandamenti di Dio
il Sinai sui marciapiedi
di telefonate sbagliate
come scrosci di bestemmie
Se così fosse perché i vestiti
perché le cose perché il denaro
e non io, Genoveffa, Matilde, Miriam,
nessuno, e neve di molti
perse in un canto
sparite
dove davvero non c’è rimbombo
e la vita è il gusto languido
del tacere
***
Dio, se esisti, forse mi vedi
forse mi parli da mesi
in questo anfratto semibuio
di stelle e polveri
dove io vedo scheletri e
non vedo di me che i contorni
sbiaditi di apparenze
di ciò che più non sono
Restituiscimi tu un nuovo cappotto
tu sai cosa cerco
più di me vedrai cachemire, cammelli ed angore belare
su colline di infinito perdute
lini azzurri soffiati nel vento
pupille di luce che risorgano
nei miei occhi spenti
e mi vestano di piccoli petali
nontiscordardime
***
Coltivo
da anni
una pianta malata
su una terra che vedo
torba, cemento, inaridita argilla
e poi piana di alluvione
luogo dove solo ninfee
possono accettare
di ritmare questo tempo di fuoco
devastazioni di cornici e capoversi
normalità e diritto romano
Tutto è fuori posto
io sbando
ridatemi un binario
un arrivo, una partenza
un passo
una traccia
C’è ancora
da qualche parte
una zolla?
***
Solo così
nullificata al tempo dell’essere
assalita da tarme in divenire
lo sguardo atterrito sui buchi dei colori
nel frigorifero obitorio del riprodursi
tiro sera, avanzo nel tiepido inverno
che non ha infierito
e mi ha soffiato
primavere dalle porte
perché già intirizzita e al di là
in un igloo di coscienza e di passione
mi vedeva, mi scopriva
sfiorava un pube congelato
e due piedi rovesciati
nella cupola del Nord
***
Il dire troppo stretto
l’udire scroscio, eco senza fine
rimbombo del dubbio
nei cerchi delle frasi
ad ogni sasso lanciato
e ogni parola è bomba
al petto, al seno di madre
ai pugni piccoli di figlia
attentati quotidiani alla verginità
dell’origine
assalti d’occidente alla sacralità
degli asini ai mercati
frecce sul bersaglio al campo di tiro
perché nel centro, vivo
solo un cuore
diecimilapunti, e la pelle
è di troppo, come i fili d’erba.
una sera, indimenticabile, perché come tante altre
15 dicembre 2006
Patrizia Rigoni è nata a Monza nel 1956, da qualche
anno vive a Trieste. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni tra cui
i romanzi Giallotondo (selezione Bancarellino 1997), Il
fuoco e la pioggia (1995) e il libro di filastrocche per bambini
Librimano (1989) più diversi racconti, l’ultimo
dei quali nell’antologia Il galateo del telefonino (1999).
Si occupa di progetti culturali; da tre anni conduce Laboratori di scrittura
autobiografica per gruppi.
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La "S"
più affollata del mondo
di Fabio
Pulito
Pur essendo il paese più popoloso del mondo,
la Cina figura soltanto al trentunesimo posto nella graduatoria dei
paesi più densamente popolati. La precedono, tra gli altri, la
“ribelle” Taiwan e persino l’Italia.
Se il miliardo e trecento milioni di abitanti fossero uniformemente
distribuiti sull’intero, enorme, territorio nazionale, la Cina
sarebbe probabilmente un paese molto più vivibile. Purtroppo
non è così.
L’altopiano del Tibet e le distese desertiche dello Xinjiang a
ovest, le steppe della Mongolia Interna e le aree sub-artiche dello
Heilongjiang a nord sono scarsamente o quasi per niente abitate. La
maggior parte dei cinesi si ammassa in una striscia a forma di “S”
non molto spessa, a ridosso della costa ad est e a sud.
Non fu difficile intuire per quale motivo il virus della SARS si propagò
con tanta facilità nelle province di Pechino e del Guandong,
popolate da decine di milioni di abitanti la cui attenzione per l’igiene
si rispecchia nella loro irresistibile propensione allo sputo. Il “doppio
sca” – che non è un nuovo passo di danza bensì
l’accoppiata scatarrata-scaracchio – è un’abitudine
alla quale pochi cinesi riescono a rinunciare. Il visitatore straniero
familiarizza in fretta con la melodia di una ruvida grattata gutturale
seguita da un secco pop e, dopo un momento di suspense, dal tonfo sordo
di una granata viscosa che cade spesso a poca distanza dai suoi piedi.
Muoversi in questa regione può essere un’esperienza esilarante
e frustrante al tempo stesso. I cinesi sono in grado di formare code
di decine di metri e di aspettare per un’ora che vengano loro
serviti una dozzina di ravioli su un vassoio di polistirolo. Ma non
avrete realmente sperimentato la sovrappopolazione della Cina orientale
fino a che non avrete provato a viaggiare come fanno i suoi abitanti,
possibilmente durante un fine settimana.
Una semplice gita treno da Shanghai a Suzhou, alla scoperta dei suoi
rinomati giardini di epoca classica, può trasformarsi in un’avventura
per molti versi indimenticabile. Si comincia con il complesso sistema
che dalle gomitate davanti alla biglietteria porta al binario: mettersi
in coda all’entrata, far scorrere i bagagli sul nastro dei raggi
X e individuare il numero della sala d’aspetto per “l’imbarco”
del treno. Mostrare il biglietto e cercare sul tabellone il numero del
convoglio per sapere a quale cancello fare il check-in. Solo dopo che
il tagliando sarà stato controllato per la seconda volta sarà
possibile scoprire a quale binario bisogna dirigersi.
Una volta all’interno del vagone può capitare di scoprire
che il posto indicato tra gli ideogrammi del biglietto è già
occupato, e che decine di passeggeri stanno accalcati lungo il corridoio.
Una situazione misteriosa, dal momento che il viaggio è a prenotazione
obbligatoria dei posti. Il tragitto è breve, come andare da Milano
a Pavia, la cosa migliore da fare è mettersi il cuore in pace
e poggiare la spalla sullo stipite della porta.
I pochi cinesi che osano rivolgersi in inglese agli stranieri amano
informarli che “La Cina è un paese molto popoloso”.
Un’ovvietà che trova un’ulteriore conferma nelle
statistiche della guida: Suzhou, la Pavia di Shanghai, il presunto borgo
fuoriporta, vanta una popolazione di quasi sei milioni di abitanti.
Dopo che il sole è calato sui cipressi, i padiglioni, le rocce
e gli elementi d’acqua dei giardini, è possibile imbarcarsi
in uno dei numerosi treni per Shanghai che non offrono il servizio di
prenotazione dei posti. Chi primo arriva meglio alloggia, e i cinesi
ce la mettono tutta. Saltano le panchine e scavalcano le ringhiere per
velocizzare le operazioni di imbarco. Quando le porte del vagone vengono
aperte si scatena una mischia furiosa per l’ingresso. Qualche
persona anziana perde l’equilibrio ma chi sta dietro non se ne
cura, e continua a spingere. Altri passeggeri dal fondo della coda lanciano
i bagagli sopra le teste di chi sta loro davanti.
Usciti dalla stazione centrale di Shanghai ed imboccato il tunnel della
metropolitana ci si imbatte quasi sempre nella stessa scena: tutte le
biglietterie automatiche sono fuori uso e ad uno degli sportelli, l’unico
aperto, una signora stremata si scortica i polpastrelli su banconote
e biglietti, davanti ad una bolla ondulante di cinesi vocianti.
Al margine del mucchio un signore americano avanti nell’età,
piegato su un bastone, esplode la sua frustrazione: “Fantastico!
Sono qui da sette anni. Sette anni! E ancora non smetto di sorprendermi
davanti alla stupidità con cui il governo gestisce tutto ciò!”.
Non resta altro da fare che scrollarsi di dosso lo sconcerto, girare
i tacchi e ripiegare su un taxi. Sempre che ce ne sia uno libero. Non
bisogna dimenticare che è sabato sera, e che questa è
Shanghai, il cuore pulsante della Cina orientale.
Siamo al centro della regione più affollata del mondo.
(Cina nordorientale, novembre 2005)
Fabio Pulito
è nato a Padova il 30 settembre 1970. Dopo la laurea in Ingegneria
ha lavorato in Italia e all'estero come consulente aziendale. Largamente
insoddisfatto ha lasciato quell'occupazione e nel settembre del 2001
si è messo in viaggio alla scoperta di un altro continente: l'Asia.
Thailandia, Laos, Vietnam, Cambogia, Malesia, Singapore, Indonesia,
Birmania. E poi Taiwan, Giappone, India e Nepal. Ha documentato le sue
esperienze con foto e scritti.
Nel sito mondoscopio.blogspot.com
(anche in inglese worldoscope.blogspot.com) raccoglie lettere, brani del suo diario, opinioni, commenti, interviste
e aneddoti. Commenti benvenut: pulfabio@hotmail.com
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Tuti
di Alessandro
Sichera
Dietro la porta. È il luogo preferito di Tuti.
Quell’angolo morto di vertigine che permette di essere osservatore
anonimo ma attento. Lo scarto di senso tra il pensiero comune e la propria
individualità. Dietro la porta, dove non è obbligatorio
salutare chicchessia e può starsene finalmente accovacciata in
angolo a disarmare di pause il silenzio, corrucciata in viso proprio
come se avesse figliato cinque volte. Sapevo cosa intendesse dire, ma
non la comprendevo completamente.
Tuti aveva questa capacità incredibile di capirmi senza bisogno
di parole e in ciò, forse, si sentiva un po’ meno randagia
nella sua lotta con il dolore. Mi si affiancava, quasi a voler essere
protetta e mi avvolgeva con sguardi di calore; e io sentivo, in modo
nitido, il suo bisogno di spazio, privato e condiviso.
Dietro la porta. In perfetta armonia con le proprie paure e un senso
porco d’impotenza verso il tempo; in quei momenti era bellissima:
irrompeva nei miei occhi in tutta la sua nudità ed io la ammiravo
perché era libera. Si poteva scorgere tutta la sinuosità
innamorata delle sue mani. Mi piaceva lasciarmi condurre dal suo odore,
che conoscevo a memoria. Era così forte che aveva riempito tutta
la casa di piccole tracce, solchi minuscoli del suo passaggio che io
potevo cogliere soltanto affidandomi all’ebbrezza dei sensi meno
sviluppati. Odore di arancio in fiore.
Avevamo trovato uno strano modo di stare insieme: ci piaceva andare
ad acquistare libri o dischi e separarci, ognuno secondo il proprio
percorso, per poi ritrovarci alla cassa con lo stesso libro o disco
e, senza dirci niente, lo ascoltavamo a casa, nella nostra casa, e poi
facevamo l’amore per ore. Tuti aveva un modo orchestrale di muoversi
che mi faceva sentire un elefante e rideva ogni volta, quasi avvertisse
esattamente le mie emozioni. Mi sentivo disarmato e lei era leggerissima:
una condizione di svantaggio che non ero abituato a sostenere. Anche
questo, credo, è normale. Ma è difficile spiegarlo a una
donna. O forse è più complicato spiegarlo ad un uomo.
Tuti era una persona inaffidabile, una compagna di vita
fantastica, sincera, onesta, ma maledettamente inaffidabile. Non sapevi
mai cosa le frullasse per la testa. Era capace di slanci disarmanti
di affetto e, un secondo dopo, di crudeltà gratuite, quasi a
soddisfare il proprio ego, non a ferire gli amici o l’uomo che
amava. La odiavo terribilmente per questo! Ma sapevo al tempo stesso
che ad ogni suo colpo di lama corrispondeva anche una dichiarazione
di affetto e una richiesta di aiuto. Così la sopportavo. E la
amavo, anche.
Aveva uno strano hobby: le piaceva raccogliere la polvere che trovava
in giro, in casa, nei locali e, quando aveva raggiunto una quantità
considerevole, la chiudeva in un sacco di juta e andava al mercato sotto
casa a vendere i suoi cuscini di gatti di polvere. E ogni volta tornava
con qualche migliaio di lire in mano..
Ci eravamo conosciuti in una infima milonga milanese, in uno di quei
posti dove anche il più malevo degli uomini avrebbe
avuto qualche resistenza ad entrare, e avevamo iniziato a ballare un
tango come fosse la cosa più naturale, senza sapere i nostri
nomi, senza le preoccupazioni tipiche dei ballerini di poter fare brutta
figura. Tre tanghi. Come il numero delle Grazie. E dopo, un’intera
vita da trascorrere insieme, in tutta l’irruenza del silenzio.
Era come se i nostri corpi fossero entrati in perfetta sintonia tra
di loro, come un magico incastro in cui le parole sono di troppo: spesso
querule o melense rischiano di rovinare l’intenzione del momento;
a volte, invece, prepotenti o ingombranti non sanno abbandonarsi all’ingenuità
del corpo.
Già, il corpo. Forse è per questo che scriviamo, o balliamo,
o suoniamo o dipingiamo o facciamo yoga o uccidiamo: per il corpo. Non
siamo educati ad ascoltarlo. Ci insegnano a curarlo, a modellarlo, a
scolpirlo, a modificarlo, ma mai ad assecondarlo. Ci dicono di piegarlo
all’idea che noi abbiamo di esso, ci propinano ricette per renderlo
presentabile alla società, proprio come l’amante perfetto,
in un fottutissimo turbine narcisista che porta allo stato più
degenerato di autocompiacimento.
Tuti ballava il tango come una Dea: non aveva bisogno
di esibirsi, o di mettersi in mostra, o di fare cose strane, spettacolari.
Le bastava semplicemente un pizzico di dolcezza, un sorriso accennato
nel buio e i nostri corpi diventavano essenza in mezzo a tanti pupazzi
di marmo, esteti indefessi della coreografia esibizionista. (Tuti preferiva
l’anonimato, ma quell’anonimato bastardo che ti costringe
a esporti nella notte perché non c’è più
quella porta a proteggerti e allora non ti resta che abbandonarti e
sperare che almeno il fegato non ti tradisca, in quella porzione di
buio che ha sempre un tavolo prenotato per te.)
Dietro la porta. A urlare in silenzio il proprio bisogno di sé.
A scrutare il più piccolo germoglio di candore solo perché
ne aveva scorto la scia. Ma quando la porta non c’era, Tuti si
impauriva, non aveva più ancoraggi o imbracature a proteggerla
e allora mi faceva ubriacare per essere più vicino ai non sensi
che mi legavano a lei.
Tuti ora sta davanti alla porta, in preda al panico e all’insonnia
per la lontananza, esasperata nei seni e affannata nel respiro, a cercare
uno spiraglio di miele nell’amarezza della sua impotenza, addolcita
di whisky nella malinconia dell’attimo, ma ignorata nel sesso
e privata di lacrime.
Dietro la porta Tuti mi amava. Dietro la porta aveva finalmente una
casa. Dietro la porta Tuti contemplava la vita sanguinando sogni a bassa
voce.
II parte
Dietro la porta: un rifugio dal mondo dei vivi, dalle
ansie di sé. Ora Tuti vacillava, al tracollo della propria esistenza.
Dolcissimo sorriso di gatta, tremendo graffiarsi di autodafé.
Consistenza tangibile del suo dolore, ma densa di fisicità. E
sempre quel profumo di arancio in fiore a inebriarci le notti.
Dietro la porta, a perseverare nei vizi, a sostenere le spalle nella
semi oscurità di muri marciti dall’umido. Dietro la porta:
quella soglia invarcabile che separa il suo dolore dal mondo, il suo
corpo dalla vita.
Dietro la porta Tuti stava in equilibrio, aggrappata ad un soffio che
sarebbe durato per sempre. Dietro lo schermo del trucco, Tuti celava
un vuoto profondo trent’anni.
Nel buio Tuti sudava l’oltraggio subito; ma era bellissima. Stavo
ad osservarla per ore, nel silenzio della notte, tra i giochi dei gatti,
sudare lacrime di abusi, richieste di aiuto. Oltre la porta Tuti temeva
la vita.
Ora Tuti ha chiuso la porta, ha chiuso a chiave il passato ed è
diventata farfalla.
Alessandro
Sichera è nato a Milano nel 1975, nel giorno dei natali di
Roma. Ha pubblicato intime
frane (Lietocolle, 2004) e Le
smagliature del sonno (Lietocolle, 2006). Lavora in modo frammentario
nell’editoria, collabora con il quotidiano on line la
voce d’Italia, ballerino e insegnante di tango argentino,
cerca di sbagliare da solo.
Da un anno abbondante innamorato della sua compagna, che ha riportato
il profumo di primavera nella sua vita.
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Alcune riflessioni
sul concetto di "sovranità"
di Filippo
Ranchio
Nessun concetto ha sollevato altrettanti conflitti ideologici
né impegnato i giuristi e i teorici politici del XIX secolo in
un labirinto altrettanto confuso quanto il concetto di sovranità.
La ragione di ciò sta forse nel fatto che non avevano adeguatamente
esaminato e valutato, né abbastanza verificato in partenza, il
significato originario e autenticamente filosofico del concetto in parola.
Inizia così il saggio di Jacques Maritain intitolato appunto
"Il concetto di sovranità". Personalmente condivido
molti dei punti toccati dal filosofo francese su questa spinosa tematica:
perciò queste brevi riflessioni risentono molto delle idee da
lui espresse in "L'uomo e lo Stato", dove peraltro si trova
anche il saggio da cui abbiamo preso le mosse.
Il dibattito intorno al concetto di sovranità, si sviluppa ormai
interamente in un contesto di diritto internazionale: qui sorgono infatti
le questioni più complesse, dal momento che la sovranità
dello Stato non viene concettualizzata, per così dire, in sé,
ma nei suoi rapporti verso l'esterno, cioè verso gli altri Stati.
La nascita di una comunità internazionale, di un vastissimo numero
di organizzazioni, politiche e non, di livello sovranazionale, la recente
firma della costituzione europea, sono eventi che ripropongono una domanda
importante, ma ancora senza risposta: la sovranità è detenuta
dalla comunità internazionale nel suo complesso o dai singoli
Stati considerati ciascuno separatamente? La paralisi dell'ONU di fronte
alla guerra anglo-americana in Iraq è solo uno dei sintomi dell'incapacità
politica, ma anche, e prima ancora, filosofica di dare una risposta
a questa domanda. Ed è questa, forse, la ragione principale per
cui mi sembra opportuno tentare di venir in chiaro sul concetto stesso
di sovranità.
Per quanto riguarda la sua genesi storica, mi basti qui ricordare che
si tratta di un concetto sconosciuto al mondo greco e al Medioevo e
che quindi siamo di fronte ad una invenzione dei moderni. Per comodità
citiamo tre autori su tutti: Bodin, Hobbes, Rousseau. Quando parliamo
di sovranità ci riferiamo pertanto, anche inconsapevolmete, a
quanto di essa pensarono questi tre autori che, a prescindere dalle
inevitabili specificità delle loro ricerche filosofiche, seguono
la medesima logica quando ne va del concetto di sovranità.
Come si istituisce il potere sovrano? Citiamo la formula del "contratto"
hobbesiano:
«Io Conferisco autorità e abbandono il mio Diritto di autogovernarmi
a questo Uomo, o a questa Assemblea di uomini, a condizione che anche
tu alla stessa maniera abbandoni il tuo diritto, e Conferisca autorità
a tutti i suoi Atti. Fatto questo, la Moltitudine così unita
in una sola Persona, è chiamata Stato. […] E colui che
rappresenta così la Persona di tutti è chiamato sovrano
ed è detto possedere il POTERE SOVRANO; e tutti gli altri sono
suoi sudditi».
La chiarezza di Hobbes ci è d'aiuto nel mostrare la dinamica
fondamentale in base a cui si istituisce il potere sovrano, dinamica
che è comune anche a Bodin e Rousseau : il popolo, per ragioni
che mutano di caso in caso ma che qui non ci interessano, si priva completamente
di tutto il suo potere e lo trasferisce alla persona del Sovrano, che
può essere tanto il Re quanto una assemblea di eletti. Una volta
investito di questo potere il sovrano non fa più parte del popolo
e del corpo politico: è "diviso dal popolo", è
posto in un tutto separato e trascendente, in quanto è l'unico
possessore del potere del corpo politico. Il potere sovrano è
allora un potere assoluto (ab-solutus, sciolto da). Maritain osserva
in proposito: «La sovranità o non significa niente o significa
un potere supremo separato e trascendente: non un potere al vertice,
ma al di sopra del vertice e che governa dall'alto l'intero corpo politico».
Che cosa significa dunque "sovranità"? Essenzialmente
due cose:
1) un diritto naturale e inalienabile (tratti tipici della sovranità)
alla indipendenza suprema e al supremo potere;
2) un diritto a una indipendenza e a un potere che sono supremi in senso
assoluto, ossia in modo trascendente: il sovrano è indipendente
di fronte al tutto da lui governato e ha potere su di esso separatamente
da quello stesso tutto.
Mi limito ad enunciare queste due tesi, in parte sperando di averle
fatte emergere, almeno la seconda, da quanto detto sinora, in parte
lasciando la discussione aperta al gruppo.
Secondo Maritain, la sovranità, nel significato autentico qui
illustrato, è un concetto illusorio, perché è frutto
di un errore originario. Questo errore risiede nel fatto che i teorici
della sovranità hanno scambiato il diritto del popolo ad autogovernarsi
in un potere che può essere deliberatamente donato al sovrano.
Il potere, come un qualsiasi bene materiale, se è posseduto dall'uno
non può essere posseduto dall'altro: ecco spiegata la necessità
della trascendenza della sovranità. Viceversa il diritto (quello
dell'autogoverno) può essere posseduto dall'uno (dal popolo)
come appartenente alla sua natura, e dall'altro (dal sovrano) in quanto
ne sia fatto partecipe. Riprendendo il concetto medioevale di "vicariato",
Maritain può allora dire: «Il principe quindi avrebbe dovuto
essere considerato come al vertice (ma non al di sopra del vertice)
della struttura politica, come una parte che rappresenta il tutto (e
non come un tutto separato) o come una persona che ha ricevuto la missione
di esercitare la somma autorità del corpo politico e che possiede
tale autorità in modo vicariante, a titolo di partecipazione
al diritto naturalmente posseduto dal popolo». Questa nozione
di principe, sempre secondo Maritain, non si è mai incarnata
nel corso della storia umana.
Se quanto abbiamo visto è il vero significato di sovranità,
non siamo forse di fronte a un concetto che è necessario abbandonare?
Possiamo parlare di "popolo sovrano" o di "stato sovrano"
senza rischiare di incorrere in errori concettuali molto pericolosi
(ipotizzare che il popolo sia sovrano significa ammettere, stante la
tesi 2, che il corpo politico si autogoverna separatamente da se stesso
e al di sopra di se stesso, il che è manifestamente impossibile)?
Lascio volutamente aperta la questione, di fatto risolta da Maritain,
per non influenzare l'andamento del dibattito. Spero infine di essere
stato abbastanza chiaro.
Filippo Ranchio fa parte del gruppo dei Semi-filosofici
che riunisce studenti di lettere e filosofia delle università
di Venezia e Padova, e si propone come uno spazio di riflessione e approfondimento,
anche al di fuori dell’ambito accademico. Affronta temi e problemi
legati ai principali ambiti d’interesse del dibattito filosofico
contemporaneo, con particolare attenzione ai risvolti di carattere pubblico
e sociale e all’integrazione fra ambiti disciplinari distinti.
Partecipando a diverse attività culturali veneziane e non solo,
con una forma espressiva che tenta di conciliare l’intimità
della riflessione e l’esigenza di risultare quantomeno “accattivanti”
per le persone che ci vengono a sentire. Articoli e iniziative su www.semi-filosofici.it
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E fu subito sfiga
di Corrado
Giamboni
Alle ore 17 di venerdì 17, dopo aver negato l’elemosina
ad una zingara grassa, scivolai malamente su una buccia di banana e
mi ruppi il collo, o così mi sembrò. Dopo 17 giorni di
ospedale fui dimesso con un collare che mi impediva di girare la testa
e per questo motivo non mi accorsi dell’arrivo di un grosso TIR
rosso in manovra che mi investiva rompendomi bacino gambe e braccia.
Dopo 17 mesi uscii dall’ospedale, chiamai un taxi e mi feci portare
a casa, deciso a chiudermi dentro per 17 anni. A casa però i
ladri mi avevano rubato tutto. Erano entrati dalla finestra sfondandola
e siccome avevano trovato poco, secondo loro, mi avevano imbrattato
muri divano e letto con escrementi. Ne avevano fatti moltissimi. Feci
per telefonare ma mi avevano staccato il telefono per morosità.
Al sopraggiungere del tramonto mi accorsi di essere al buio perché
mi avevano staccato la luce per morosità. Ecco da dove veniva
quel brutto odore, mi dissi, dal freezer pieno di carne che era rimasto
spento durante la mia assenza. Infatti, verificai. Andai verso l’acquario,
un tempo pieno di pesci, tartarughine e iguane. Evitai di darci un’occhiata
dentro, anche perché tanto era ormai buio. Di notte un gran freddo
perché mi avevano tolto il gas, o forse era per via di una fuga
e stavo per saltare in aria, mi dissi. Invece.
E comunque quando feci per entrare in bagno al lume di candela, le infiltrazioni
dovute al lavandino che sgocciolava da mesi e che io avevo lasciato
con il tappo chiuso come sempre per paura degli scarafaggi (io ho una
paura tremenda degli scarafaggi), le infiltrazioni dovute al lavandino
avevano formato un lago per terra e sollevato le piastrelle del pavimento.
I vicini del piano di sotto non se ne erano accorti perché erano
morti. Scivolai malamente sul bagnato e caddi rompendomi il femore.
Riuscii a raggiungere le scale non so come, chiamai l’ascensore
ma era saltata la luce nel condominio, o meglio in tutto il quartiere,
in quello che si rivelò poi essere il più lungo black
out degli ultimi quarant’anni, dieci ore di black out. Feci
perciò le scale a piedi. Sette piani. Con il femore rotto. Quando
arrivai a terra svenni dal dolore. Un ladro mi portò via il portafoglio.
Nel portafoglio avevo anche la tessera sanitaria, così quando
venne l’ambulanza chiamata da un vicino, avendo gli infermieri
constatato che non ero in possesso dell’assicurazione sanitaria,
mi lasciarono lì. Mi curò un vicino, forse lo stesso che
aveva chiamato l’ambulanza. Ma mi fasciò malissimo e per
questo guarii zoppo, un po’ come Ignazio
di Loyola.
Ma che sfiga, però.
Corrado Giamboni
ha pubblicato con noi Il
virus dell'elefente e, en poète con l'eteronimo
Massimo Pensante, la plaquette Il bambino e l'acqua sporca. Poesie
savate contenuta in FaraPoesia.
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Su
Quattru sbrizzi di
Salvo Basso
Edizioni Nadir – Scordia (CT) 1997
di Marco
Scalabrino
La tentazione, non appena l’hai ricevuto, è
quella di lasciarlo scivolare, destramente, nella tasca della tua giacca
e da qui, senza ulteriori indugi, distrarlo nell’archivio morto
della memoria.
E gli appigli, in apparenza, ci stanno tutti: le dimensioni ridottissime,
il corpo minuscolo e leggero del carattere che spavaldamente ti preannuncia
la fatica alla quale dovresti sottoporre i tuoi occhi, le pagine: poche,
spoglie.
E come non bastasse… Dov’è la prefazione? E l’indice?
Oddio, manca finanche la numerazione!
Passiamo ad altro! – verrebbe la voglia di dire.
E invece, no. La curiosità, quella sana curiosità che
ci avvince ogni qual volta ci si trova al cospetto di un testo nuovo
– nuovo in quanto non conosciuto – è tanta, irrefrenabile.
E l’amore per la Poesia, per il Siciliano, come sempre ci vince,
ci convince.
E allora beviamo, tutto d’un fiato, questo calice di inchiostro.
Ed ecco scopriamo che le dimensioni, il carattere, il titolo…
non sono ingenuità, artificio, peccato.
Essi sono, invero, la quintessenza di questo lavoro e si offrono, candidamente,
al Lettore a significare la prima delle molteplici chiavi di lettura
dell’opera stessa.
Chiavi di lettura che, come in un gioco ad incastro a più livelli
successivi, sovrapposti, ci introdurranno in questo prezioso scrigno,
ci consentiranno di navigare agiatamente in questo universo virtuale,
ci permetteranno di accedere responsabilmente a questa delicatissima
miniatura.
Chiavi di lettura oltretutto che, come vedremo di qui a poco, sono immediatamente,
naturalmente, gratuitamente nella disponibilità del Lettore.
A volte, in specie all’inizio del testo, esse si presentano singolarmente,
ognuna nella propria individualità, distintamente; in altre occasioni,
nel prosieguo dello stesso, esse pure si combinano per tratteggiarlo,
con le tinte più decise che loro derivano dall’unione.
E con la prima chiave appunto, l’Autore manifesta la propria volontà
di porre in essere un contatto diretto con il suo Lettore, una sorta
di familiarità, di confidenza.
Una complicità programmatica che egli vuole si instauri e li
leghi.
Egli infatti intende, d’ora in avanti e per sempre, rapportarsi
a noi come un tascabile; vuole essere insieme a noi, addosso a noi,
comunque, in ogni istante.
E per suscitare questa complicità egli, gradatamente, si svela.
Ne acquisiamo infatti, sin dalle primissime battute, un importante dato
anagrafico:
egli è un giovane “ora comu ora / a morti para / na cosa
/ impossibbilissima”;
un giovane schivo che si offre del tutto disadorno: non un indizio biografico
infatti è presente, né una foto; nessun cenno ad altre
opere, nessun orpello critico;
un giovane che ci parla sempre in prima persona, sebbene con un filo
di voce “abbaiu pianu sti / paruleddi”.
E al contempo, direttamente collegata alla prima, ecco già configurarsi
la seconda delle chiavi:
lo Scrivere “scriviri… ca para e nun para”;
il sortilegio dello scrivere “pigghiavu, / a mmenti, / du palori:
/ ncucchiavu, mi piaceva”;
l’urgenza di scrivere “scrivu / picchì / mi mangiunu
i manu”, “scriviri / scriviri senza / stancarisi”.
Uno scrivere che, di volta in volta, si fa ricerca interiore “Mi
scavu intra o fogghiu”;
liberazione “ora ca tuttu, no libbru, / ddiventa chiummu e nniuru
/ mi pozzu ripusari”;
oblio “e tturnari / ne casciola”.
Ma scrivere cosa? Perché? – viene spontaneo chiedersi.
Ed ecco, quasi avesse udito i nostri interrogativi, che la scrittura
acquista una dimensione certa, definita, forte:
quella della Poesia “poesii nichinichi”.
Una Poesia che affonda le proprie scaturigini nell’Amore e nella
Vita, e della Vita e dell’Amore assume le fattezze:
è irta di difficoltà “na strata curvicurvi”;
è un percorso imprevedibile “nunnu sai mai / quannu finiscia,
/ quanna ffiniri”;
“è ttesta cauda / o sonnu ca nun vena?”.
L’Amore, dunque.
L’Amore, la terza – o forse la prima, la fondamentale –
delle chiavi.
L’Amore movente di questo moderno, minimale Poemetto?
O non invece il varco dalla Poesia prescelto per sgorgare, ancora una
volta, fresca, irruente, armoniosa?
Amore, mai apertamente dichiarato eppure costantemente in agguato, che
irrompe, anch’esso, alla prima finestra utile “… nta
stu iocu / nuddu vincia e nuddu perda”.
Un Amore grande “… pareunu sulu / quattru sbrizzi”
, “mi dasti a vita”;
che stravolge ogni riferimento temporale “u iornu è nnotti
/ rrusbigghiata”; “è ottobbri, / novembri, / cu sapi”;
che sfianca “No vidi / ca semu tutti / peddi e ossa?”, “l’anni
passati / mi sentu tutti / no calannariu / de dinocchia”.
Un Amore gagliardo “… ti vulissi / pigghiari / a pparoli”;
“t’aiu nzurtatu na para di voti”;
che si batte strenuamente per la propria sopravvivenza “Mmazzimi
/ e stramazzimi. / Ma npaci, … nun miccilassari”;
che, alla fine, pure è costretto alle corde “ora bbasta”
, “Ora / ni putemu / sulu vaddari”.
Una esperienza, l’Amore, che se da un canto crea il Poeta, erige
un monumento alla Poesia, d’altro canto mette seriamente a repentaglio
l’Uomo;
ne mina l’equilibrio “e m’ascordu cu sugnu”,
“no sacciu unni vaiu”;
lo rende solitario e insicuro “Ma spagnu, … di sulu a ssulu”;
lo estranea dalla realtà “u munnu / ora / cu sapi com’è”
.
E tuttavia, pure nello sconforto “cchi / ccampu / a diri”;
la Vita che, come la Poesia, tutto in un attimo brucia “centu
poesii / nta menza nuttata”, “a mmoriri / semu tutti sperti”;
la Vita, la Poesia, hanno il sopravvento “tutti i cosi / s’aggiustunu…”,
“menzumortu / ma ancora parrulìu”.
Amore per cosa? Per chi?
Per la Poesia, “u fogghiu, / figghiubbeddu, / iancu di latti”;
indubbiamente per la Poesia “i paroli mi o ccercu / una a una”;
solo per la Poesia che “… è / comu na cannila: /
sciuscia ccà”.
La donna,
quella donna anonima “A signurina cc’anfacci”;
quella donna che l’Autore ha relegato nel Limbo del cuore di ogni
uomo “arreri o vitru”;
quella donna rinunciataria che “astutatu na vita vaddannu”;
quella donna, che per un solo fugace attimo fa capolino… essa
è solo “n’ùmmira”;
non merita tanto struggimento, tanta passione, tanta devozione.
Non può, non deve essere lei l’Amore!
E allora… la Poesia. La Poesia; all’altare della quale immolare
tutto l’Amore.
La Poesia alla quale l’Autore, proprio come un innamorato, si
rivolge appassionatamente sussurrando: “tutti sti carizzi / ca
cciai / sabbili”.
Si accennava, in premessa, a molteplici chiavi.
Altre interessantissime notazioni possiamo, infatti, trarre da questa
silloge.
Alcune di esse, correlate al codice di comunicazione, alle soluzioni
ortografico-morfologico-sintattiche, all’impianto costruttivo
adottati, sono evidentissime:
le liriche molto brevi
i cui versi, funzionalmente spezzati, sospesi, sottintendono la vocazione
a concatenarsi, a connettere una pagina all’altra, in sostanza
a un dispiegarsi monotematico proprio di una suite:
“Chiddu ca t’ava ddiri / tu dissi… nunnanma ddiri
/ nenti cchiù”,
“scinnu dò lettu / ccò pedi ggiustu… nesciu:
/ unni è / ll’aria?”,
“i paroli mi o ccercu / una a una… ccà penna nte
ita / a manu ferma / subbra u fogghiu”,
“ti talìu / cche manu… ccà / ccì /
sù / i / manu”,
“chi / ccampu a ddiri… campu / pp’arriurdarimmillu”
espressione di un sentire asciutto, minimalista, contemporaneo
ricche di invenzioni poetiche di assoluto pregio “sta / quasi
/ chiuvennu. / U sentu / nte scarpi” , “nesciu: / unni è
/ ll’aria?”, “poesii nichinichi / caramelli / ca sa
schiogghiunu / na testa / mancutempu”, “no calannariu /
de ginocchia”, “abbaiu pianu sti / paruleddi”, “ti
talìu / cche manu”, “… l’ossa / ca ogni
ssira appennu”, “u iornu è nnotti / rrusbigghiata”,
“fazzu a fila / aspittannumi”
pure, per un ancestrale retaggio fonografico, prevalentemente –
ma non soltanto – dopo un monosillabo (sia esso l’ausiliare,
l’avverbio, la particella pronominale, la congiunzione, la preposizione)
piegano, la parola al raddoppio della consonante iniziale “bbona,
bbasta, ccuccia, ccampari, ffattu, ffridda, mmenti, mmintari, nnenti,
nnotti, ppassari, ppicca, rriparu, rrestu, ssira, ssulu, ttinta, ttesta
...”
tutte, esordiscono con la iniziale minuscola.
E ancora peculiare rilevanza assumono le espressioni legate, composte
di cui Salvo Basso fa calibrato uso; locuzioni, sintesi di un sapiente
combinato estetico-tecnico-contenutistico:
ccabbannaddabbanna, figghiubbeddu, malibbenni, quannucomufù,
culavaddiri, finanmumentufà, nichinichi ...
E altre indicazioni potremmo altresì individuare nella interpretazione
di alcuni singoli versi o nelle strutture di significato che essi evocano:
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
il poeta moderno, affrancato ormai dal giogo del verso costruito metricamente,
emancipato dall’obbligo della forma predefinita – e nondimeno,
suo malgrado, dal senso di protezione, di sicurezza che pure dalla forma
gli derivava – appare smarrito, impreparato ad affrontare d’un
tratto quella inaspettata, ritrovata libertà e avverte, quindi,
tutta la precarietà della Poesia e forse della Vita stessa;
“Sti quattru sbrizzi / ammenzu all’autri”, “antura
pareunu sulu / quattru sbrizzi”
per un attimo, avevamo immaginato “A signurina cc’anfacci”
giovane; magari bella, perché no? Ma, un istante dopo, abbiamo
appreso che “Idda / astatu na vita vaddannu”. E allora,
quella donna – la cui vita dietro una finestra è scivolata
via, come la pioggia, sempre uguale – giovane non è!
Da quale dei due componimenti – ci si interroga – prende
titolo il libro?;
“no calannariu / de dinocchia”
le rughe sul viso, il tremolio delle mani, l’incanutirsi…
sanno di stantio ormai, di ovvietà, di prammatica; non gli bastano
più! E allora, il poeta, si inventa una nuova figura per rappresentarci
il gravare degli anni.
Quattru sbrizzi… all’ennesima potenza! Marco Scalabrino
Nato a Giarre (Catania) nel 1963, Salvo
Basso trascorse tutta la vita a Scordia, importante centro agricolo
della Pianura di Catania, dove morì nel 2002. Laureatosi in filosofia
con il massimo dei voti e la lode all’Università di Catania,
dal 1994 fu Assessore alla Pubblica Istruzione del Comune di Scordia,
poi dal 1998 anche con funzioni di vice sindaco, fino alla morte.
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Preghiera
di Marco
Bottoni
Domenica, in piena notte, mi ha chiamato il figlio
di un mio vecchio insegante, un Professore di Lettere, anzi: "Il
Professore".
Suo padre sta morendo di cancro, ed ha una crisi di dolore incontrollabile.
Io, mentre cerco di fare il possibile, sono letteralmente travolto emotivamente
dalla situazione; torno a casa e non dormo, nella speranza di calmarmi
butto giù una pagina, dettata dall'urgenza più che dal
pensiero razionale.
Solo dopo avere "vomitato" le parole sul foglio riesco a prendere
sonno.
Ti allego il file: se vuoi, sopportami e leggilo.
Grazie
Poi, entro nel tuo studio, e tu sei lì.
Centinaia di volumi ordinati sul legno povero di una libreria snella
e spartana: la ricchezza è tutta dentro i fogli.
Gli scaffali tappezzano di libri tutte e quattro le pareti, lasciando
libera solo la luce della grande finestra; devo fissare lo sguardo sulla
scrivania per arginare la vertigine che mi coglie mentre cerco di guardarli
tutti.
La tua scrivania: la pergamena arrotolata di una poesia, su una busta
l’appunto “cene con gli alunni degli anni 1953- 54-55”
vergato di tuo pugno.
Una traduzione delle Bucoliche curata da te.
Erodoto, in greco.
Professore.
Non so nominarti altro che così, perchè questo è
“Colui che sei”: Professore.
Dicono “quanto è difficile vivere insieme a una persona”;
molto, molto più difficile da condividere è il morire.
Poi, tolgono la coperta, ti tolgono di dosso il lenzuolo che ti copre.
Le braccia larghe sul grande letto bianco, la testa reclinata su una
spalla, hai persino le gambe scarne semiflesse e accavallate, come è
nel dolore di un vero crocifisso.
Fanno per prenderti, fanno per spostarti, per portarti.
Dicono che fanno per curarti.
Tu apri gli occhi e in un sospiro fai sì che si adempiano le
Scritture.
“Come volete voi.”
Poi, entro nella tua stanza, e mi sforzo di trovare una verità
qualsiasi che mi giustifichi, qualcosa che mi sollevi del peso del mio
compito, che mi renda sopportabile il mio essere qui.
Lo cerco nei gesti del mio mestiere, dentro quel poco di sapere che
mi sono trascinato dietro in tutti questi anni; cerco il perdono per
i miei peccati, una assoluzione alle mie molte colpe, non ultima questa
impotenza mia di fronte al tuo dolore.
Quello che non trovo scavando nella semeiotica, nella fisiopatologia,
nella clinica, me lo offri in dono tu, con un filo di voce.
“Mi fido di te.”
Dicono “è questione di vita o di morte” , e davvero
non sanno quello che ti fanno.
Perdona loro, per quello che non hanno.
La “questione” è “di vita e di morte”.
Poi, salgo anch’io sull’ambulanza, spinto dalla necessità
impellente di dirti qualche cosa, parole che non so, che non conosco,
che sento urgenti e necessarie solo perché, forse, ultime.
Nemmeno questo ho, di te: l’intimità del silenzio da riempire
soltanto di una stretta, e forte, della mano.
“Stai tranquillo, ora ti facciamo passare il male, ti togliamo
il dolore, poi…”
Ho cercato la Poesia, Professore, l’ho cercata davvero, con passione,
con rabbia, con disperazione.
Ho provato a leggerla, ho provato a scriverla.
Continuamente, sinceramente, dolorosamente.
L’ho inseguita e l’ho attesa, senza mai trovarla, senza
mai incontrarla.
“… ti vogliono tutti bene, ti vogliamo tutti bene…”
Dicono che è questo che fa paura, agli studenti, dei loro insegnanti:
di trovarsi loro di fronte essendo impreparati.
Poi, mentre ti sono sopra e addosso, chinato su di te a guardarti,
tu guardi verso il basso, ai piedi della croce, e mi fai dono di tutta
la Poesia che tanto a lungo ho cercato, e invano.
Tutta insieme, dentro due parole tue, in un ultimo fiato.
“Ti piango.”
Dicono che è tutto Uno, e ora so che hanno ragione.
Ti prego Professore, tieni anche me tra i tuoi fogli, sugli scaffali
fitti di libri che lasciano libera appena la luce della grande finestra.
Tu, sei a pagina quarantotto.
Professore.
Marco Bottoni,
medico e scrittore, ha pubblicato con noi Sullo
stesso treno. Suoi racconti sono presenti in Antolologia
Pubblica e Storie
di vita.
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