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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 105-6
settembre-ottobre 2008
Editoriale:
Letture che dilatano i sensi
In questo Faranews di fine estate potrete trovate nuove
e intriganti poesie di Stefano Cervini, Emilia
Dente, William Stabile, Lorenzo Mari,
Luca Ariano; i racconti dei viatores Domenico
Lombardini e Subhaga Gaetano Failla; e Callimaco
di Marco Scalabrino. Concludiamo con la collatio
lucana di Dom Bernardo.
La foto delle scarpe insabbiate è di
Corrado Giamboni, che ringraziamo, e ci ricorda la raccolta di Stefano
Bianchi.
A
volte un qualche
di Stefano
Cervini
A volte un qualche
barlume verace
smaglia gli opachi veli
dell’emozioni nostre
che sotto di già
brulicano vive
e ne traluce un senso.
La mente mia
affannata
insegue sempre,
affamata di luce.
***
L’assenza tua stona
come viola scordata.
Del castello mio precario
obliqua sei tu l’altra carta.
Tu da dispari mi fai pari.
***
Inermi nasciamo e nudi,
assolutamente ignoranti,
dannati.
Eppure gambe abbiamo per ballare
e allora proviamolo questo valzer,
che per certo avremo tutta la noia
cui il modo non le avremo tolto.
A volte un qualche è stata finalista al Premio Firenze
2005 ed ha avuto la menzione d’onore al Premio Il Convivio 2007,
L’assenza tua stona è stata finalista al Premio
Les Lyriques 2005 e Inermi nasciamo e nudi è stata finalista
ancora al Premio Firenze 2005 nonché al Premio Pensieri in Versi
2007.
Stefano
Cervini. Vincitore del Gran Prix franco-itaLIEN 2007, del premio
Les Lyriques 2006, della sezione Poesia del premio Brevis 2006. Finalista
nella edizione I e II del concorso Le Figure del Pensiero, sezione Aforismi,
nonché del Premio Firenze 2005. Menzione d’onore nel premio
N. Martucci-Città di Valenzano 2008. Segnalazione di merito nel
concorso Pubblica
Con Noi 2005 della Fara Editore.
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Odio
il silenzio
di Emilia
Dente
odio il silenzio
il rumore assordante
del tuo respiro afono
che sfiora la pelle
e l’urlo impazzito
che nel nulla freme
odio lo spazio lontano dei tuoi pensieri
e il bianco del mio volto
nel mosaico imperfetto dell’incontro
odio l’attesa
l’inquieto niente
le parole frantumate
sparse sul pavimento
e le pagine vuote
che trasudano emozioni
odio le tue labbra mute
che mi insegnano l’amore
nel silenzio
Poesia vincitrice della sezione poesia d'amore al Premio
Cluvium 2008.
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Scrutinio / Scrutiny
di William
Stabile
Scrutinio
In strada, tra la gente che cammina
cerca il bersaglio nell’incrocio: x
Ora [x] è sul divano...
e tra le gambe
accavallate: y
Scrutiny
in the street, among the walking people
seek a target in the crossing: x
now [x] is on the couch
and overlapped
among the legs: y
(traduzione di William
Wall)
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Dall’uomo
che cade all’uomo che continua
di Lorenzo
Mari ( lejosdeitalia84@yahoo.it
)
… continua
cade ma continua
caduta libera
cade di settembre
piove da un’eternità
occidentale…
John de Leo, L’uomo che continua (dall’album
Vago Svanendo, 2007)
L’uomo che cade
(Lo vedi,
l’uomo che cade? –
Che domanda cretina,
tutti lo stanno vedendo, tutti!,
in questo preciso momento. –
E se ne ricorderanno
“come se fosse adesso”,
fossilizzando il gesto...
Ma tu davvero lo vedi,
l’uomo che cade? –
Sì. Vedo anche che a nulla è servita
la lotta quotidiana, la polvere,
la paccottiglia in una nuova forma
d’amore e il movimento del viceversa. –
Non ti credo, e non soltanto perché sei
falsa disperazione: tu non lo vedi davvero,
non lo vedi realmente, l’uomo che cade –
Sì. –
No, che non lo vedi. –
Sì. –
No. –
(…)
Non ti credo, ti sbagli,
non lo vedi. Te ne fornisco prova
appena si schianta. –
(…)
Ecco, non lo vedevi:
l’uomo morto, contrariamente a quanto sostenevi,
non aveva nessuna mela,
in mano.)
cade ma continua
l’uomo che cammina
(…)
continua
lingua contro lingua
spinta dalla sete
racconterà ti salverà, o Sheherazade...
John de Leo, L’uomo che continua (dall’album Vago
Svanendo, 2007)
Alberto Giacometti, Uomo che cammina (1947)
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Il passo maldestro
di vecchi
di Luca
Ariano
ad I.
Il passo maldestro di vecchi,
quasi con la paura di frantumare ossa:
“Ehi, non mi riconosci più?
Vabbè che siamo diventati anziani!”
“Ciao, lo sai che sono diventata nonna?”
L'Emilio questa sera non sopporta
quei baci affettati, sorrisi forzati
dell'Amalia... forse l'antico amore castrato
o nuovi giorni sempre uguali sulla via di Milano.
Fiulìn è forse un parsuflòn di
paese
e le strade di Barcelona – come di Bologna,
sono serrande della domenica
tra cumuli di rudo accanto ai muri;
Teresa sorride di fresco e c'è una foto
della Costa Brava anni Cinquanta, prima delle code
alla frontiera. La casa costruita quando la Transizione
non era poi così lontana, ma di quei viaggi
sono rimaste carte e libri ancora da sfogliare.
Il fischio del treno di notte che varca le porte
è il suono di navi nel porto in cerca d'un faro.
***
ad I.
Davanti al salotto buono
l'Emilio manda i suoi messaggini,
lui – figlio d'operai – ancora ci credeva
in falce e martello;
domani racconterà la solita storia e sognerà
d'emigrare in Spagna come al Fronte Popolare.
Il Rino – l'ultimo socialista con le tasche vuote,
barba da intellettuale internazionalista
e occhiali da contestazione amaro disquisisce
con l'Andrea del futuro politico.
L'Amalia tornando una sera frizzante di luna,
ripassa i passi del Manzoni, quelli per la recita
dalle suore prima dell'ultima preghiera notturna.
Teresa sparge odore di pesce e verdure per la cucina
e sorride al volo di passeri di mare,
di fiulin che ancora disegna il suo piccolo mondo
di provincia, di parole buone per pochi amici:
il profumo dei fiori non lo sentirai oltre cento metri
tra quei fumi che sempre laveranno le palpebre.
***
ad I.
Vista su Scalo Farini per l'Emilio
in quell'appartamento sopra un locale trendy:
un tavolino con un vecchio barattolo
- mangiato col mastellino, davanti a vuoti scaffali
d'una polverosa Commedia del Momigliano
e un Momsen da sfogliare dopo cena.
“Per la vita che faccio...” mentre scorrono
gli scioperi del Biennio Rosso e il sorriso gobbo
di Gramsci perchè lui ci spera ancora;
un manifesto elettorale sul comodino
e un 25 aprile da celebrare con lei,
pensando a una staffetta pedalare al coprifuoco
“Raus” e Milano da liberare o si muore.
Una passeggiata in Corso Como tra cloni di veline
e calciatori, di occhi indiscreti
e della Michela – bella mora, che il moroso
passa a prender sull'Audi per Forte dei Marmi.
L'Eugenio si commuove una sera che i finestrini
semivuoti del treno si specchiano nelle risaie
e le nottate a Pavia sono già un ricordo,
di fiulin che pensa alla sua Teresa sorseggiando vino.
***
Starace l'hanno beccato a correre in tuta;
processato al Politecnico:
“Voi non sapete chi sono...Voi non potete!”
L'hanno appeso come una Bondiola in Piazzale Loreto.
Don Anelli nemmeno il tempo di mettere fuori
la testa dalla canonica che una revolverata...
“Se vincono i fascisti la riscrivono loro la Resistenza!”
Quel figlio ci ha provato perchè la lotta continuasse
ma forse alla Rivoluzione
ci credevano troppo per una scrivania e cravatte.
Berto D. l'hanno preso al discount
con grana e bresaola nella giacca
“Non ditelo a mio figlio, ho preso quella in offerta.”
L'Andrea forse si fermerà in qualche distributore
di battone ma poi ripensandoci
si ritrova con una birra da Selvaggia
- lei che si vergogna dei genitori operai,
ora a notte fonda la sentono per radio
in quasi tutta la regione.
Ancora vedi il volo delle cicogne a Faenza
e dopo la pioggia un canto di passeri sulla grondaia.
(Luca
Ariano presenta venerdì 5 settembre 2008 alle ore 21, assieme
al cocuratore Enrico Cerqueglini, Vicino
alle nubi sulla montagna crollata, a Rimini presso Interno4)
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Sud
di Domenico
Lombardini
Du’ vrazza con dita di terra intrecciate di sabbia;
sullo sfondo, là tra nuvole biancheggianti, 'a Muntagna, che
coglie impreparato lo sguardo più acconcio all’antracite
di vie polverose, fumiganti fate morgane e smog, in città. Anche
qui è città, certo, ma tavoli sono in mezzo alle vie dove
anziani e giovani giocano con le urla dei padri, intrecciando carte
e dita, occhiute e malandrine figure, epifanie di popolo. Ché
qui tra la luce e i brividi di caldo, con freddi sudori mi accorgo che
poco si è fatto e tutto si sfece, che il talento è sprecato
per mercimonio e noncuranza. Nessuno è innocente; questo popolo,
soave di spontaneità, libertario nei costumi, ha chinato la testa
al consumo, obbediente. Non tutti; in questo caldo sodale di amnesia,
presto si alzano particolari di ère passate; non migliori –
passate. Il lavoro nei campi sopravvive nella concrezione cutanea
delle mani, i nomi dei campi – 'nchian' castidd', mi
ripete un vecchio con occhi larghi – una toponomastica dei sentimenti.
Quegli spiriti sono salvi; cadesse una bomba, sopravvivrebbero mangiando
radici e cucuzzidd', non fosse per la debolezza dei corpi.
Di notte – di giorno non si vedono, immersi chissà dove,
chissà con chi appresso – sonagliere di giovani lasciano
scie di luci dai fanali, spiriti persi nella notte; disperatamente vivi,
e a me pare un po’ già morti. Le loro di mani, non importa
molto l’età, sono come mamma le ha fatte; sorprende vedere
le linee, i solchi dei palmi, così diversi e nuovi, che prendono
circonvoluzioni inedite. Lì, nel uaddòne uterino,
si perderanno stretti tra terrazzamenti tuberosi di terra, in cui non
potranno mai andare abbasc’, né salire, sospesi
ombelicamente in un parto di continuo travaglio – labour.
Il lavoro non c'è - dietro campi tenuti a maggese o bruciati
e il vapore che sale dalla terra come nebbia, un presidio federiciano
e Melfi, che sferraglia notte e giorno; producono automobili, come se
non bastassero, e anche lì non i campi ma molti operai sono a
maggese, molti i giovani. Eufemismi di stampo orwelliano definiscono
in tinte moderne l'esistenza di quei giovani: mobilità, flessibilità,
on-demand, lavoro a progetto – accidiosi, i più,
preferiscono passare la mano e lasciarsi consumare dal sole, annerendo
pareti con le scapole poggiate, vestiti come guappi, facendo le viste
quando le ragazze passano ancheggianti per la via che porta in piazza.
Non ne vogliamo di fannulloni in famiglia – loro lo sanno,
nessuna femmina li guarda.
(Domenico
Lombardini ha recentemente pubblicato la silloge Fuori dal senso
ne Lo
spirito della poesia, Fara 2008)
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La scorza degli
agrumi
di Subhaga
Gaetano Failla
Ebbi una sensazione di strappo violento quando la
nave
ruppe l’atmosfera. E i miei pensieri si frantumarono.
(G. Bonaviri, Martedina)
Giungemmo sul pianeta azzurro d’estate.
La terra brulicava di vita e di luce, vaste distese di fichidindia accendevano
i nostri occhi e i campi arsi. Il cielo sfolgorava di raggi gialli e
blu e le valli assetate si tuffavano nel mare d’infiniti orizzonti,
di ferite e solchi – liquide cicatrici, vascelli, morsi sulla
costa, denti che strappano. Il pianeta azzurro, per comprenderlo davvero,
andava visto, e ascoltato, toccato, mangiato, e bisognava inebriarsi
dei suoi profumi, e perfino – secondo alcuni – si doveva
sentirne gli umori segreti e le voci senza parole.
Vapori d’acqua.
Fanciulle che giocano,
d’antiche terme.
E la vita si frantuma in animali, belve, pesci, giganti, acque bollenti,
battaglie, lievi giochi di donna, occhi e ombelichi – sotto teli
cotti dal sole del mezzodì – il cielo e la terra, l’amore,
si ricompongono in minuscole pietre colorate d’Armerina.
E poi, giù, dopo una breve sosta di parole multisonore, attraversiamo
distese lunari che sfiorano l’atmosfera, e sassi, ulivi e ulivastri,
fichi danzanti, profumi di gelsomino, nepitella, l’afrore della
vita in decomposizione, il nettare acre della morte e trasformazione,
fiamme, il firmamento ha le stelle nascoste dalla lama accecante d’un’unica
stella – sprofondiamo verso la costa, storditi.
Dicono che la sopravvivenza sia un male necessario, e che l’aria
debba essere plasmata con dita forti, e la linfa nera della terra sia
succhiata da labbra fredde, e che i corpi trasudino cellule smarrite,
che il sudore abbia il sapore di carne infetta, al lavoro, per vivere
ancora, sul mare di Gela.
Fuggiamo, distogliendo spaventati lo sguardo, dalle ciminiere, dalle
case ammazzate, dal sole che azzanna strade morte, e ci appare Akragas,
e percorriamo in alto con l’urgenza della fuga i macigni infuocati
del tempio, della voglia antica, eterna, di naufragare nel cuore pulsante
del cosmo, negli innumerevoli cuori dell’universo, ovunque –
poggio la mano sul mio cuore, depongo l’orecchio, ascolto, il
battito, il battito. Vi è poi un rifugio imprevisto, nell’ombra,
nella frescura d’acque, di gebbie, giardini, vasche e
ruscelli, arance e limoni, pomodori e zucche, mandarini e fichi, melanzane
e pompelmi, e l’unghia incide la scorza degli agrumi e il profumo
solca la superficie dell’anima e l’oasi nascosta di Kolymbetra
ci ristora dall’arsura dionisiaca delle vie più in alto,
e mangiamo furtivi due pomodori e un fico che s’apre come vulva
accogliente, e già la carne e il sangue della terra sicula, oltre
labbra denti bocca stomaco, diventa il nostro stesso sangue, carne mortale
ed eterna trasformazione.
Un cane ci guarda, ha la lingua penzoloni in cerca di quiete.
Poi, chiediamo a un vecchio se l’acqua d’una fontanella
è potabile, e l’uomo ricorda la sua infanzia, quando il
giardino di Kolymbetra era ancora lontanissimo dalle voci dei turisti,
e i frutti di quell’oasi maturano al contatto delle sue mani.
Acqua che cura.
Le bocche si aprono
su fonti d’oro.
Ed echeggia l’ansia di ricongiungersi alla madre infinita, da
una minuscola dimora smarrita, ai margini del tempio, nel groviglio
di strade, giù, Kaos e uomini dalle menti sbriciolate in centomila
schegge di specchio, Pirandello resta sperduto lì vicino, alla
ricerca senza respiro dell’Uno.
Osserviamo il sole adagiarsi al tramonto tra le colonne del tempio,
e il respiro si placa, la pelle riposa dopo il fulgore del giorno, e
il ritmo dell’arteria nella gola è lontanissimo.
Di corsa poi inseguiamo l’ultima luce verso la costa, verso Porto
Empedocle, e il filosofo, rimasto impigliato tra cemento armato e clamori
d’attracchi marini, bisbiglia ancora “… fui fanciullo
e fanciulla, arbusto e uccello e muto pesce del mare”, e cantano
le parole sulla soglia incantata della divina foresta di Bonaviri.
Corriamo verso la spiaggia, oltre ghirigori d’automobili e frastuono
balneare, sfioriamo appena le reti da pesca raccolte a sera. Ed è
lì, laggiù, protesi con la mano, affannati a fermare l’ultimo
sole oltre il monte sul mare, e cerchiamo un nome, un suono, parole
colorate, profumo d’alghe.
“Dov’è la Scala dei Turchi?” chiediamo ripetutamente,
tra ombrelloni chiusi, sabbia, pneumatici, scogli, strade di nuovi fantasmi
cartacei siciliani, e gli ultimi uomini sulla spiaggia tornano a piedi
nudi volgendo le spalle al tramonto, alla luce d’arancia sanguigna
rimasta immersa nelle loro pupille sognanti.
È lì, è lì la scala dei turchi, un nome
che ruba dalle nostre visioni visioni di vascelli, di attracchi furtivi,
di sciabordio d’acque, di vesti bagnate, fulgidi arabeschi, urla
e singhiozzi, fuochi nascosti, fragori di metallo, e ancòra il
sangue e gli umori mischiati del maschio e della femmina, spinto l’umano
a rinascere per forza, a morire, a nascere, di nuovo, all’alba,
luce che strappa, dal mare, dal mare.
Slaccio i sandali, li prendo in mano, le mie radici si spostano sulla
spiaggia, ricevono il sale umido, l’aria salmastra mi annienta,
gloria al creato, alle voci di uomini e donne, alle creature che corrono
con scarpe ginniche sulla sabbia dura, al sentiero che s’infila
tra pietre levigate e cespugli, e rinasce in un bagliore negli occhi
il fiore violaceo dei capperi striscianti sulla via dei templi, gloria
alle sedie a sdraio bianche dei villeggianti, all’acqua che bagna
i nostri piedi, alle lievi nuvole infiammate sull’orizzonte.
E nell’affanno
verso la meta buia,
la prima stella.
Nell’incerto sguardo del crepuscolo i sogni già s’addensano,
il mare s’inabissa, si confonde, si innalza, nella baia, nell’ombra
nera delle alghe, il respiro si mischia con le parvenze, e appare grandissima,
immensa, vasto fantasma bianco che scaturisce dai flutti, profumo –
dissetarmi con quell’acqua salata, divenire essenza – profumo
di ventre marino, si erge nella luce che crolla, ragnatela di immagini
addormentate sulla tela, appare la roccia bianca, come l’ultima
visione del marinaio di Poe.
Danziamo increduli sulla roccia, passi fragili sull’orlo, sopra
acque sussurranti nenie, e lì infine seduti, con le mani e i
piedi tinti di bianco, è più facile ricordare.
Poi torniamo, camminiamo nel sonno, ci stendiamo sulla riva, sono ormai
tutte giunte le stelle, e chiudiamo per un poco gli occhi, e ne conserviamo
oltre le palpebre una manciata – sono buone compagne le stelle.
E bisogna pure berla e mangiarla questa terra – frittura di paranza
nel ristorante, grovigli di spaghetti e frutti di mare, bevo e mangio
un’ostrica, prolungo la sua vita tra denti lingua e oltre, Nerodavola,
cassata, sorbetto al limone, e poi un biglietto d’indicazione
stradale, un obolo per il traghettatore, sulla strada buia del ritorno,
verso la montagna.
Ci sveglia il nuovo giorno, l’ultimo d’un lampo di Trinacria.
Durante la giornata bisogna raggiungere ancòra una delle nostre
fugaci dimore. E sulla via incontriamo un mondo già sognato,
oltre Caltagirone, oltre strade deserte, ci innalziamo in cerchi concentrici
verso la collina – il sole ha di nuovo incendiato le valli brulle
– dall’alto il volo del falco ci guida verso le pietre di
Mineo, favola d’un cosmo intriso di spiriti degli alberi, di fughe
verso la costellazione di Betelgeuse, e vulcani, e pane che scotta,
e l’infanzia dell’uomo, le capre, la fame, il sangue mestruale,
ossa precipitate nello spazio interstellare, pulviscolo di fiori.
Giuseppe Bonaviri ci accoglie con la sua assenza.
Vago trasognato in cerca d’un indizio, il sole brucia i miei passi
cauti, chino l’orecchio verso un bisbiglio, echi di voci s’impastano
nell’aria, vortici elettromagnetici, colori, profumi di zolle,
turbinio di piante, di versi d’uccelli, linfa, linfa di questa
vita, la stradalunga nasconde i tuoi vagiti, dal sasso scaturisce il
riso e il pianto, la folgore, la parola – la luce si è
ritirata nei tuoi occhi, la luna piange questa notizia – e Silvinia
ti manda un sorriso, l’infinito azzurro.
La vecchia porta
e le finestre chiuse.
S’apre il cielo.
Calabria, al ritorno, 5 agosto 2008
Subhaga
Gaetano Failla è nato a Scalea in Calabria nel 1955. Laureato
in Sociologia a Urbino, ha pubblicato saggistica sociologica in volume
e in una rivista. Suoi racconti e poesie sono stati pubblicati su numerose
riviste cartacee, sul quotidiano Il Messaggero, attraverso RAI Radio
3, e su riviste e siti on-line italiani ed esteri tra i quali Faranews.
Suoi libri di racconti: Logorare i sandali (Aletti, 2002, vincitore
del concorso “Alla ricerca dell’autore”), Il coltello
e il pane (Aletti, 2003), La
signora Irma e le nuvole (Fara, 2007). Racconti in antologia: con
Aletti Editore (2002) e in due antologie di Perrone Editore (entrambe
del 2007). Il racconto lungo Il seminario di Vinastra, tra
i vincitori del concorso “Pubblica con noi”, è in
3x2
(Fara, 2006). Il testo Oltre le mura inesistenti dell’io
è nel volume Lo
spirito della poesia (Fara, 2008). Suoi haiku sono presenti, in
lingua inglese, nelle antologie, tradotte in tedesco e francese: Zen
poems (Londra, 2002), Haiku for lovers (Londra, 2003).
Ha collaborato con la rivista Orizzonti e con la rivista londinese Hazy
Moon. Vive a Massa Marittima (GR).
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Callimaco, 310
ca. a.C.
di Marco
Scalabrino
“O tu ca passi … / ricordati ca sugnu …
patri / d’un Callimacu natu nta Cireni / … pueta”;
“Passanti, tu si’ accantu di la tomba / di lu figghiu di
Battu, / bravu comu pueta.”
Biografia essenziale – luogo di nascita, paternità e (ribadito)
status di poeta – fornitici di prima mano, rispettivamente dagli
epitaffi per il padre, Batto, e per sé stesso.
A corredo di questo succinto elaborato su Callimaco, poeta, erudito,
precettore, catalogatore della Biblioteca di Alessandria d’Egitto,
ricorreremo a taluni convenienti cenni e, quanto a ciò che più
ci preme in questa sede: la poesia, come egli la percepì e la
realizzò, al supporto dello stesso autore.
E ci avvarremo – in apertura un anticipo – di un risicatissimo
numero di versi, per giunta nella loro traduzione in Dialetto operata
da Salvatore Camilleri, poeta e letterato siciliano tra i più
insigni del secondo Novecento, il quale in proposito appunta: “Con
Callimaco la poesia greca si rinnova, e per le mutate condizioni politiche,
quali sono quelle che seguono il grandioso sogno di Alessandro, e per
una nuova concezione della vita, a misura d’uomo, più legata
alla realtà, al contingente. Di questa poesia, egli è
il poeta più alto, il teorico più illuminato, l’artista
più completo.”
La poesia di Callimaco rompe col “canto unico e continuato”,
non celebra più il mito degli dei e degli eroi. Essa predilige
“la brevità e la leggerezza”, congiunte alla raffinatezza
dello stile, e per prima intese indirizzarsi non alla moltitudine ma
a un uditorio selezionato che ne cogliesse e apprezzasse lo spirito,
l’erudizione, la grazia, l’ironia.
Ma l’aspetto più rimarchevole, determinante, che in definitiva
ci incanta, è quello del poeta dalla consapevolezza e dalla originalità
assolute, dell’innovatore il quale concepisce che la poesia deve
inoltrarsi per i sentieri inusitati e non già ripercorrere le
piste battute, deve trovare in sé la propria autonoma giustificazione
– la nozione dell’arte per l’arte – e sottrarsi
ad ogni finalità morale, pedagogica, civile, religiosa ...
“Pueta, si addevi / ‘n-animali pi fari un sacrifiziu, /
criscilu beddu grassu. / Però la puisia l’hâ fari
sèngula. / Pi di chiù ti cumannu di non fari / la stissa
strata di li carriaggi / unn’è ca tutti passanu a fudduni.
/ Non mettiri li roti / di li to’ carrioli / unni ci sunnu già
li ntacchi fatti, / nta la carrata granni. / Pigghia trazzeri novi /
puru si sunnu stritti.” E ulteriormente proclama: “Odiu
la puisia fatta a stigghiola / e la strata cumuni, ca la fudda / scarpisa
d’ogni parti. Non m’attira / n’amanti ca si duna a
chistu e a chiddu. / Non bivu a la funtana di la chiazza. / Disprezzu
chiddu c’apparteni a tutti.” Quest’ultima altresì
nella versione in lingua allestitane da (un altro illustre siciliano)
Salvatore Quasimodo: “Non amo la poesia comune e odio / la strada
aperta a chiunque. / Odio un amante goduto da tutti / e non bevo a una
pubblica fontana. / Odio ogni cosa divisa con altri.”
Non senza ragione dunque, Callimaco fu definito il più moderno
tra i Greci, si è parlato della sua quale l’archetipo di
una visione nuova della poesia, antesignana quasi di quella moderna.
In polemica con le accuse mossegli: “Dicinu ca non aju / mancu
scrittu un puema, granni e grossu, / di milli e milli canti, / dicantannu
li re / o li superbi eroi di lu passatu, / ma sulu puisii di pocu versi,
/ com’è ca li po fari un picciriddu”, egli ribatté:
“Canciati sistema; / mparati a giudicari / la puisia cu l’arti,
/ non cu la longa ammàtula / pertica pirsiana, / e non m’addumannati
/ canti comu li trona ca ribbùmmanu! / Non è còmpitu
miu, / ma còmpitu di Giovi truniari.”
Callimaco, dopo oltre duemila anni, ancora esemplare.
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Scalabrino
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Collatio
inerente ai brani del Vangelo di Luca 1-9,62 e alla meditazione sulla
Pasqua
di Bernardo
Francesco Maria Gianni (v. anche qui)
Iniziando la collatio sui brani del Vangelo di Luca,
letti e commentati sino ad ora, i primi interrogativi sono sorti in
ordine al battesimo di Gesù, alle tentazioni nel deserto, alla
trasfigurazione sul monte Tabor e alle impressioni prodotte da questi
avvenimenti che, talvolta, vengono esposti in chiavi interpretative
che riducono la trasfigurazione e le tentazioni a fatti puramente immaginari.
È stata anche espressa la perplessità sulla comparsa dello
Spirito Santo in forma di colomba nel battesimo di Gesù: «e
scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba»
(cfr Lc 3,22), per cui è stata auspicata una lettura del Vangelo,
in un certo senso, più razionalistica. Un contributo riguardo
alla Meditazione sulla Pasqua ha sottolineato la morte di Gesù
avvenuta fuori dalla logica del sacro, fuori dalla logica del tempio:
un tema che ha fatto registrare aperture personali anche in ambiti esterni
a San Miniato. Infine, ha suscitato interesse e perplessità l'espressione
«morte atea di Gesù», contenuta nella Meditazione
sulla Pasqua.
Colpisce l'effetto prodotto dall'espressione «morte atea di Gesù»,
perché un altro padre della comunità monastica di Bose
– e questo è apparso per noi un segno di grande benevolenza
del Signore – ha fatto della nostra lectio l'oggetto di un'altra
lectio agli ospiti della sua Comunità: questo è il segno
che nella storia di questo nostro piccolo gruppo di «Uditori della
Parola» c'è una presenza del Signore che lo unisce ad altre
Comunità, ad altre persone inserite nel cuore della Chiesa e
anche a persone lontane dalla fede. Poi, dovendo meglio determinare
nel contesto della lectio cosa significhi «morte atea di Gesù»,
va anche detto che la sintesi dei nostri incontri non può rendere
pienamente giustizia al contesto verbale argomentativo. Tuttavia questo
limite nulla toglie alla terribile solitudine che il Signore prova sulla
croce e, nella fede, noi sentiamo che Gesù Cristo ha veramente
patito la nostra più radicale solitudine e abbandono, e sentiamo
anche la disperazione altrettando radicale che l'uomo prova davanti
al dramma della morte, della malattia e della sofferenza, altrimenti
il mistero del Calvario verrebbe ridotto ad un semplice teatrino. In
altre circostanze il Padre si compiace del Figlio: nel battesimo; nella
trasfigurazione; ma sulla croce tace! Questo silenzio del Padre rende
palpabile tutta la serietà drammatica di questa morte.
Ricollegandoci agli interrogativi emersi dalle tentazioni di Gesù
e dalla sua trasfigurazione sul monte Tabor, non dobbiamo dimenticare
che i testi evangelici non vanno letti come un trattato razionale dove
tutto torna alla perfezione! Sappiamo bene che mettendo insieme i vangeli
sinottici troviamo situazioni in cui l'uno dà torto all'altro,
perché non tutto torna da un punto di vista narrativo o semplicemente
letterale. Ma non per questo possiamo trascurare quello che il vangelo
attualmente ci narra e considerare le tentazioni nel deserto come una
semplice avventura psicologica del Signore Gesù. Noi crediamo
che il Vangelo, con la fatica e l'umiltà della parola, esprima
la volontà da parte del Padre di ricreare e riplasmare la nostra
storia; quindi anche gli eventi che possono sembrare miracolistici ed
avere del sensazionale, noi crediamo che siano eventi della storia del
Signore Gesù che noi accogliamo con fede, nel mistero del Dio
fattosi uomo, e per questo si caricano di un significato simbolico,
teologico, umano, straordinario. Giovanni conclude il suo vangelo dicendo:
«Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi
fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è
vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che,
se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe
a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21,24-25).
Dunque c'è un di più che si lascia intuire e afferrare
con la fede e pensiamo che ciò non può non chiamare in
causa anche l'agire storico del mistero del male. Ma è Gesù
Cristo che ha preso la nostra carne e non il demonio, ed è Gesù
Cristo che sperimenta la nostra umanità costantemente insidiata
dalla fragilità e dall'esposizione al male che, in qualche modo,
il Signore nel suo mistero lascia che accada.
Gesù sulla croce si abbandona completamente all'invisibile che
è il Padre; il demonio gioca proprio sulla croce, e qui si recupera
la morte atea del Signore Gesù, perché il filo che lo
lega al Padre è teso allo spasimo; il filo è esilissimo,
quasi invisibile agli occhi di chi lo circonda e alla percezione stessa
che il Signore Gesù ha del rapporto col Padre, per cui diventa
– per quella gente che gli dirà scendi dalla croce se sei
davvero il Figlio di Dio – il momento per manifestare tutta la
soddisfazione del palese insuccesso; tutto il movimento burlesco con
cui Gesù è trasformato in re con il mantello e la corona
di spine diventa, in un certo senso, un morire lontano da Dio. Ma è
qui la grandezza di questo amore senza riserve del Signore Gesù,
che continua a fidarsi portando a radicale compimento la grande scuola
di affidamento iniziata nel deserto. Il demonio sta proprio su questo
cardine estremamente delicato che è appunto la paura che l'uomo
ha di affidarsi all'invisibile, di affidarsi a Dio che quanto più
lo vorremmo tangibile quanto più è nel mistero.
Concludiamo, rispondendo in maniera molto sintetica ai
problemi interpretativi sorti nel corso di questa collatio
sul Vangelo di Luca. Quando ci si accosta alla Sacra Scrittura possono
sorgere, come abbiamo visto, vari interrogativi. Uno di questi è:
dove sta la verità storica nei brani che abbiamo preso in considerazione
in questo incontro? È quello che viene definito «problema
esegetico». Come si fa oggi ad arrivare alla verità storica
di duemila anni fa? Il problema viene affrontato in maniera "scientifica",
cioè facendo ricorso, come si fa da due secoli a questa parte,
al metodo storico-critico, cioè seguendo lo stesso motodo adottato
dagli studiosi contemporanei con gli altri testi antichi. Durante la
collatio si faceva osservare che il testo relativo alle tentazioni
di Gesù nel deserto si trova riportato nei tre vangeli sinottici
(molteplice attestazione); che è poco plausibile che si tratti
di un testo creato dalla Comunità cristiana dato che Gesù
appare provato e fragile (criterio di discontinuità). Ebbene,
questi sono due criteri che gli storici comunemente utilizzano per avanzare
delle ipotesi sulla autenticità storica di un testo. Oltre a
questo l'esegesi cerca di cogliere cosa intendeva dire l'evangelista
ai suoi destinatari. L'altro problema che il testo pone è quello
«ermeneutico», cioè il modo di interpretare e attualizzare
il messaggio evangelico; in altri termini: cosa vuol dire questo testo
a noi oggi? E qui possiamo riprendere il tema delle tentazioni di Gesù
per confrontarlo con la nostra esperienza di vita, con la storia di
una piccola comunità come la nostra: il testo entra in dialogo
con la nostra vita e da una parte ci manifesta una nuova e più
profonda ricchezza di senso, dall'altra pone la nostra vita e la storia
al confronto con il suo messaggio e con il suo Autore, realizzando il
detto di Gregorio Magno più volte ricordato: «Scriptura
crescit cum legente».
Notizie dalla Lectio
a cura della Redazione Comunicato n. 51
lectio.divina@libero.it
Bernardo
Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano dell'Abbazia
di San Miniato al Monte
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze
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