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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 81
Settembre 2006
Editoriale:
Lessico o sintassi?
Stanno finendo le vacanze e questo nuovo Faranews è
ricco di materiali da assaporare come frutti che hanno incamerato il
sole e i temporali di agosto. Iniziamo con un saggio di Roberta
Bertozzi sulla funzione paralizzante di certe frasi (ovvero sulla
forza della sintassi), continuiamo con La versione a Nordest
di Simone Lago, le versioni da Orazio e Hubbard di
Marco Scalabrino; proseguiamo con Solo il tempo
di guardare di Luca Ariano, il toccante ricordo
di Maria Luisa Ripa di Emilia Dente, I
di Fabrizio Centofanti, Quando finiamo di porci
domande di Carolina Lio, Una stoccata
in pieno petto di Armando Conti; ci attendono
poi la recensione felina di Maria Rosa Pantè,
il richiamo a fare deserto di Ivan Nicoletto, Piccola
storia di ombre di Vittoria Bartolucci, Dopo
PPP di Massimo Sannelli, Il pane
non si fa con un chicco di Bernardo Francesco
M. Gianni, una nota critica di Luigi Metropoli.
Se scrivete racconti o poesie, vi ricordo il nostro concorso Pubblica
con noi. Buona continuazione!
I
prefer not to, o il senso invertebrato
di Roberta Bertozzi
Da Bartleby o la formula, di Gilles Deleuze (in
Gilles Deleuze, Giorgio Agamben, Bartleby la formula della creazione,
Quodlibet, Macerata 1988). Nell’omonimo racconto di Melville,
Bartleby, impiegato come copista presso un avvocato, improvvisamente
cessa di scrivere e in seguito di svolgere qualsiasi altra mansione,
opponendo alle richieste del suo principale una risposta tanto disarmante
quanto enigmatica, "preferirei di no". Questa espressione,
ossessivamente ripetuta, impedisce all’avvocato e ai suoi subalterni
di prendere posizione di fronte al reticente neoassunto – li rende
disabili. Frase paralizzante perché contrasta quella naturale,
propria di ogni relazione, cattura del significato che possa giustificare
una replica, nel bene o nel male. La formula "germina e prolifera.
A ogni occorrenza cresce lo stupore intorno a Bartleby, come a udire
l’Indicibile e l’Inevitabile".
Lo scrivano si pone letteralmente oltre il discorso, negando
ogni obiezione, scardinando il codice comunicativo e infrangendo la
presunta normalità di un paradigma linguistico condiviso. Scrive
Deleuze: "La formula I PREFER NOT TO esclude ogni alternativa e
inghiotte quel che pretende di conservare non meno di quanto non scarti
ogni altra cosa; essa implica che Bartleby cessi di copiare, cioè
di riprodurre parole; fa crescere una zona di indeterminazione tale
che le parole non si distinguono più, crea il vuoto nel linguaggio.
Ma disattiva anche gli atti linguistici con i quali un padrone può
comandare, un amico benevolo porre delle domande, una persona fidata
promettere."
Proprio in questa disattivazione degli atti linguistici sta
la disarticolazione del rapporto di potere che lega l’avvocato,
o chi detta, allo scrivano, o a chi copia: disarticolazione e non inversione,
ossia non si crea nessuna struttura di potere inversa ma il vuoto del
potere, l’annientamento del gioco delle forze: "Se Bartleby
rifiutasse, potrebbe essere riconosciuto come ribelle o rivoltoso e
avere ancora a questo titolo un ruolo sociale. Ma la formula disattiva
ogni atto linguistico nello stesso tempo in cui fa di Bartleby un puro
escluso al quale nessuna posizione sociale può più essere
attribuita."
Bartleby è un rom del linguaggio, colui che adottando la logica
della preferenza recide i presupposti comunicativi in cui si trova
e così facendo diventa originale, refrattario all’individuazione.
Esule, non comparabile e dunque non assimilabile – nuovo barbaro.
Da La fisica del senso, Saggi e interventi su
poeti italiani dal 1940 a oggi, di Andrea Cortellessa (Fazi
Editore, Roma 2006), citazione da Stefano Agosti: "Per cui a un’epoca,
per così dire, di langagiers (joyciani, gaddiani, poundiani,
lautréamontiani) potrebbe ora sostituirsi un’epoca di syntaxiers."
Bartleby scardina la sintassi. Scardina i flussi di potere,
la reciprocità a ogni costo in un orizzonte di ruoli,
di a-domanda-risposta normalizzato. Cambia sintassi e dunque cambia
logica, disposizione, immagine del mondo. È un syntaxier,
il rappresentante di un nuovo codice, di un sistema di senso altro.
Così i poeti – adottano una sintassi, si scelgono
un corpo in anomalia, uno stare di sbieco, una prassi divergente. Creano
zone di deficit linguistico che corrispondono a zone depressionate di
realtà. Una nuova formula per una nuova barbarie: barbari che
non pronunciano male le parole ma il loro nesso, che forzano
lo slogamento, la scomposizione, la frattura della lingua. Che forzano
il capirsi. Che trasferiscono la variante dalla parola al modo di porla
(di inserirla in un contesto significante) e che di conseguenza forzano
lo scrigno, la concrezione, la routine della parola – tutta quella
mitologia che guarda a essa come tabernacolo, parola-evento, come ente
e non come funzione, tutta quella mitologia incapace di scindere il
pensiero dal linguaggio – dalla cattività del linguaggio.
Ci sono zone del pensiero non verbali, non tematizzate che si traducono
in posture, in stile, in resistenze alla interpretazione (alla terapia)
ad ogni costo. Attivare queste zone di pensiero inverbalizzato,
invertebrato, vuol dire fare un po’ di futuro. Dubito di sì.
Roberta Bertozzi
è nata a Cesena, città dove vive e lavora. Laureata in
filosofia con una tesi in storia della critica, collabora con il mensile
«Poesia» e con diverse riviste letterarie. Ha pubblicato
la raccolta di poesie Il rituale della neve, Raffaelli
Editore, Rimini, 2003 e sempre per lo stesso editore nel 2004 la plaquette
levatrice. È presente nell’antologia La
coda della galassia, con la plaquette Orfeo, tutta la calce.
Ha collaborato con Veronica Melis e i Bevano Est scrivendo il testo
teatrale per El. Primo studio. Ha pubblicato due libri
d’artista: Matrjoske con Amanda Chiarucci e Nostos
Algos con Giampiero Guerri, stampati dall’atelier di
F.&G. Guerri, Cesena. Nel 2000 ha fondato l'Associazione culturale
Calligraphie. www.interno38.it
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La
versione a Nordest: 3 poesie
di Simone Lago
Giardinaggio moderno
Il mio giardino ha una connessione cablata col mondo:
ne conosce gli spasmi le trasduzioni interne, s'interessa
delle falde e di questioni alluvionali, pure arcaiche
quando sfoglia le lamelle degli scisti.
Ma sa farsi calpestare e sostiene minime insolenze, tipo
una pioggia più scarsa un clima più arso, un filo
di cromo esavalente dai modi compiacenti.
Il mio giardino sta sommerso per metà
nell'asfalto ed è lambito lungo un lato dall'orlo
di uno scavo industriale. Però non si lamenta,
e sotto sotto se la ride perché ha radici
ad alta velocità e dai modi neuronali
a diffusione capillare.
Non so però se la sua rete buchi pure il pavimento
dell'amministrazione comunale, se sappia
- attraverso sensori di sbraitamento -
i nuovi intenti in fatto di permessi e concessioni,
di interventi trasformisti.
***
Mentre gli do da bere gli faccio capire che
dovrà smetterla coi pansé e prepararsi ai travi
e ai clisteri d'acque nere e acque bianche.
Gli ho consigliato pure l'alternativa wireless
per tenere i contatti con le zolle dei vicini.
Il Nordest è una bomboniera
(I sorpassi si susseguono in questa stanza:
cimeli della comunione e della cresima
deragliano su mensole più in alto, in seconda fila,
mentre in basso succedono avvenimenti,
quelli più nefasti)
“Che roba xea co' chea piva” fa mia madre
di fronte a un narghilé da Djerba nuovo:
“lascia stare - no - non puoi capire” e pure io
penso, dato che non ci ho mai pipato dentro
che non so come si faccia coi tocchi di carbone
e il tabacco al miele che non prende.
E un po' sorrido quando fa “mòeghea
co' chel tamburo che te sveji la nona”
ed è un bongo senegalese firmato Niass.
Ogni tanto però lo sguardo di mio padre
se avesse studiato direbbe che
quest' invasione di souvenir non fa
il nostro gioco.
Che di multiculturale c'è solo
lo sbraitare del mercante, come a Istanbul
così a Mestre,
che insomma tutti ci fanno il pane
con le cose che danno a intendere.
Ma tutto questo lo traduce in una smorfia
obliqua della bocca con un lento
dondolìo del capo;
e io lo capisco, e gli voglio bene
ma non darei due soldi alla mia versione.
Pure inutile sarebbe dire che si cresce
che c'è voglia di piantare la stalla
che nei '70 s'è fatta impresa plastica
durata finché è durato questo distretto
marshalliano;
'spiace dirlo ma i miracoli
non sono eterni e soprattutto
qui al nordest dove - insomma - si fa il pane
con le cose che si danno a intendere.
Perciò le mensole si vestono di feticci
di smanie etniche e culturali,
degli occhi svelati di una mediorientale
che prende il çay in una laterale di Haliç street.
E il sorpasso fosse allora un'inversione
di tendenza, il dire finalmente che ci siamo
rotti le palle di questi schei.
Che coi schei
abbiamo comprato le bomboniere, pagato
il vescovo e il prete quel giorno e dentro
non m'è rimasto niente, madre, che anni fa
come hai visto ti ho risposto male e maledetto,
e hai temuto facessi come Pietro Maso.
Non ci faremo il pane con la voglia d'evadere
né il montenegro in piazza Castelfranco;
probabile sì, finiremo a fare a botte in sagrato
cogli albanesi e i magrebini, a dividerci lo spazio
sopra gli eternit per guardare un po' più lontano.
Phlebas il facchino
Ho tante possibilità davanti tante
quante le celle vuote della tombola, o tante
quanti i cent rimasti in pila per il bingo.
Penso - dio mio - che il brivido di vincere potrebbe
smaltire la foia di sviare verso Phuket
il mio estro catechista indottrinando
le piccole lolite del posto per osmosi
alla saggezza della vecchia Europa.
***
E davvero non so cosa darei a trent'anni
per tirare dritto dritto alla pensione,
saltando liste di collocamento, sportelli dell'Umana,
e ritrovarmi al banco del Bar Stadio con la cricca
della briscola, 4 sputi agli anacardi, farsi
bastare la figa di queste parti, urlando
"Sonja! Le carte!" ridendo al doppiosenso
osceno, col marito alla spina che pensa
che è proprio tarata per il lavoro. Lei,
che arrotonda l'incasso con un giro di lingua
con un'inclinazione singolare del carattere.
***
Ma la sconfitta e l'esilio mi obbligano
al rito missionario
(d'adescamenti, regalini e modi ambigui)
che mi porta col ricordo alla mia terra
fra le altalene del costume e della bocca:
il decoro degli abiti, lo sfarzo dei lustrini
le scatologie della parola come
dire puttana a quella nella ridda che si mostra
manco per un giro in giostra.
(E sono il nonno,
sono il nonno dalla faccia buona e dalle fauci
che ti tolgono la notte il sonno. Oltre a tutto
il tuo più intonso conno)
Ma colma d'acido la sconfitta, nasce largo il bisogno
di sperdere il seme per le rive di Phuket
deflorate dai fremiti venuti di lontano, dai tremiti
per terra sottomarina o per corpi
in voli 2nd class.
Perciò dopo il drink della sera, la vista del disastro,
l'umana percezione della morte rende necessario
che la foia si estingua per terra.
***
Così, nella disfatta al gioco con la vita
c'è l'incapace che fotte la miseria della gente
lasciando la zavorra all'occidente e la sua lustra norma
concedendosi una rosa d'oriente
di una madonna lolita.
***
Mio Dio se fossi Eliot ti direi di dannarmi come Phlebas
il 26 dicembre 2004 nel più profondo degli abissi.
Simone Lago
è nato a Cittadella (PD) il 24/12/1983. Vive in un
piccolo paese della provincia padovana, in una delle zone d'Italia col
più alto tasso di aziende e col più basso tasso di quotidiani
letti. Studia lettere moderne e spera di laurearsi entro dieci anni;
per precedenti studi di matrice scientifica non ha mai incontrato i
classici, e prova una considerevole invidia per i privilegiati che possono
citare i latini con cognizione di causa. Ama la novella di Chichibio
ma odia il proemio del Decameron. Ama la straordinaria inventiva di
un popolo quando si esprime nel proprio dialetto; odia i tormentoni
e le frasi fatte, le serigrafie sulle magliette, le separazioni morfologiche
tese a sottolineare la formazione etimologica di un termine. Ama i docenti
che si siedono sulla cattedra o passeggiano gesticolando. Non ha pubblicato
ancora nulla. Le parole dovrebbero sempre essere pubbliche.
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Quinto Orazio
Flacco in siciliano e poesia di Tom Hubbard
di Marco
Scalabrino
(I, 7.)
Cantassiru napocu la bedda Rodi o Mitilene
o Efeso o li mura di Corinto vagnata di dui mari
o Tebe ancora e Delfi divoti a Baccu e Apollu
o pansina la valli di Tempe; e autri,
cu puemi distinati a l’eternità
e ramiceddi d’olivu ‘n-frunti,
Atene, la città cara a la vergini Pallade;
e nun su’ picca chiddi chi, a onuri di Giunoni,
celebranu li cavaddi di Argo e la ricca Miceni.
A mia nun m’attalenta né la gnirriusa Sparta
né la flòria campagna di Larissa
ma la grutta risunanti di Albunea,
l’Anieni chi s’allavanca, lu voscu sacru
di Tiburnu
e l’arvuli di frutta tutt’attàgghiu a li ciumi.
Lu biancu Sciroccu assicuta li nuvuli niuri di lu celu
ma nun sempri porta l’acqua
e tu, Planco, fatti spertu,
e arrassa la picònia e li camurrìi di la vita
cu lu vinu bonu, quannu si’ in battagghia
e macari quannu si’ a l’ùmmira di la to amata Tivoli.
Teucro, scappatu di Salamina e di so patri,
si cunta chi si misi nna li sònnura umiti
na cruna di chiùppuru e accussì parrau a l’amici:
" Unniegghiè ni porta la sorti,
di sicuru chiù benigna di me patri,
d’ora ‘n-avanti jemu, cumpagni,
cu Teucro a lu timuni e senza scantu
chì Apollu chi sulu dici la virità
ni prumisi a qualchi banna nautra nova Salamina.
Lu peggiu passau, picciotti:
a st’ura vivèmuni lu vinu e sbiugnamu li nguttumi
e dumani … via, arrè mari mari."
IX
Lu vidi quantu è biancu e autu di nivi
lu Soratti chi nun ni tennu chiù lu pisu
l’arvuli e lu ghiacciu
citrignu attassa li ciumi?
Arrassa lu friddu, Taliarcu,
mittennu ligna e ligna supra lu focu
e abbunnanti sdivaca lu vinu
di quattru anni di lu bùmmalu sabinu.
Lu restu làssalu a li dei
chi ammànzanu li venti furiusi e li mari
e li vecchi chiuppi
e li fràssini ponnu, ora sì, scialari.
Di lu futuru nun ti dumannari
e li jorna chi la sorti t’accorda
aggarratilli, comu puru li ducizzi di l’amuri
e li jochi, sennu chi si’ picciottu
e la vicchianìa smanciusa ancora addimura.
Chistu è lu tempu di li chiazzi e di l’ariu,
lu tempu di li ciuciulìi ntra la notti,
lu tempu di la carusa e di li risati,
tradituri mentri idda s’agnunìa
darrè la cantunera e tu ci ascippi
di li vrazza un pignu d’amuri,
e di li jìdita soi chi fannu finta di anniccari.
Bandusia
Fonti Bandusia splinnenti chiù di lu cristallu
cu vinu duci e ghirlanni di ciuri
dumani t’aju a offriri un ciaraveddu
cu li corna giustu giustu spuntati
ma già allungati ammeri li battagghi di l’amuri.
Ammàtula però: chì, vastaseddu figghiu
di na mànnara, lu russu di lu so sangu
avi a ‘llurdari l’acqui toi gnilati.
Tu chi lu chiù tintu càudu
nun ti tinci, tu chi arricrìi
li tori stanchi di lu vòmmiru
e li pecuri quannu si sbànnanu,
tu macari arresti pi sempri
sennu ca ju cantu l’ìlici ‘n-capu dda rocca
d’unni l’acqui toi,
carcariànnusi, scìddicanu.
***
THE NIPMUCK TRAIL
(di Tom Hubbard )
He who guides others better than himself
Finds in his wanderings a sore enjoyment.
It seems he parts from those who respect him and even love him,
As from those who despise him; where is the difference?
He is the silent scout, his gestures seen from afar
Through the barring branches of the forest of centuries.
And could it be, even now,
He is visible still, at the rise and turn of the path,
At the service of his sometime followers?
I praise those, of whatever nation,
Who have joined the dance of the sun as it patches itself down into
the stream,
Who have shed the worn unnecessary letter upon the sedge:
– Even such was she, master of all the arts
Learned in the open, a woman calling and loving:
Oh pearl, oh grace, what man could hold you and then retreat?*
We always fail them. They barely show the hurt.
But I have tasted the sweet scented tears seeping from that rock,
And its unhealing fissure that was perhaps worshipped here;
By the rude bridge that links two ends of this unending path,
I have looked tenderly at the solitary poppy among the reeds
As at my small inscrutable son at the other side of the ocean.
This, the trail of the Nipmuck tribe,
Is their ancient ground of my New World.
My nation scouted out theirs,
Scouted and scalped.
And have I not also heard
How a hundred years ago, far south and west,
Captive Geronimo learned our counter arts,
Sold photographs of himself for cents to tourists;
Today he’d run a casino, donate to charity,
Field accusations of unfair competition
From the everly-blonded New York millionaires.
Yet here, I have joined a sadly welcoming dance of ghosts,
Winding through the elements. There is a brief bitter love between us,
That disperses in dust and smoke even as I wander on.
So must I strip down at the bankside as to a mingling death and birth:
Oh lovely Indian water, we flow nakedly together.
* See Nathaniel Hawthorne, The Scarlet Letter.
LA PISTA DEI NIPMUCK
(di Tom Hubbard: versione in Italiano di Marco Scalabrino)
Chi guida gli altri meglio di come guida se stesso
trova nel suo peregrinare un dolente godimento.
Egli sembra separarsi da coloro che lo rispettano e lo amano
così come da coloro che lo disprezzano; dov’è la
differenza?
È l’esploratore taciturno, i suoi gesti
filtrano attraverso i fitti rami della foresta dei secoli.
E potrebbe essere
che egli sia tuttora visibile, ad ogni piè sospinto del sentiero,
al servizio dei suoi seguaci di un tempo?
Io elogio quelli, di qualsiasi nazione,
che hanno raggiunto la danza del sole mentre esso infrange la sua luce
nel sottobosco,
che hanno sparso l’esausta, superflua parola sul falasco:
– Proprio come era lei, padrona di tutte le arti
imparate all’aperto, una donna che ama e declama:
Oh perla, oh grazia, quale uomo potrebbe possederti e dopo abbandonarti?*
Noi li tradiamo ognora. Loro mostrano con riserbo la ferita.
Ma io ho assaggiato le dolci inebrianti lacrime che sgorgano da quella
roccia,
la fenditura giammai sanata che forse lì fu venerata;
presso il rudimentale ponte che collega i due estremi di questo passo
senza fine,
io ho guardato teneramente al papavero solitario tra le canne
come fosse il mio piccolo inscrutabile figlio all’altro lato dell’oceano.
Questa, la pista della tribù dei Nipmuck,
è il loro antico suolo del mio Nuovo Mondo.
La mia nazione s’è fatta beffe della loro,
l’ha imbrogliata e derubata.
Sappiamo tutti
di come cento anni fa, nel lontano Sud Ovest,
il prigioniero Geronimo, fatte sue le nostre controverse arti,
fu ridotto a vendere foto di se stesso ai turisti per quattro soldi.
Oggidì egli dirigerebbe un casinò e farebbe beneficenza:
confuterebbe le accuse di impari competizione
alle bellone bionde che si strusciano ai milionari di New York.
Ma qui, io mi sono unito a una triste danza di benvenuto di fantasmi
che fischiano tra gli elementi. C’è un breve amaro amore
tra noi,
che si disperde nella polvere e nel fumo persino mentre continuo a vagabondare.
Così mi spoglio, giù all’angolo della banca, in
una mistura di morte e di vita:
oh fresca acqua indiana, noi fluiamo puri insieme.
* Vedasi Nathaniel Hawthorne, La Lettera Scarlatta .
Marco
Scalabrino è nato a Trapani nel 1952. Poeta (Palori,
1977; Tempu , palori aschi e maravigghi, 2002), saggista,
traduttore ha pubblicato anche commedie in siciliano. Per una più
esaustiva presentazione si rimanda al sito www.vaidiqua.it/scalabrino
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Solo il tempo di guardare
di Luca Ariano
Solo il tempo di guardare
le lancette di quel vecchio orologio
per accorgerti che i figli crescono,
se ne vanno.
L’hai visto lì in quella strada
che si inerpica sopra i laghi
dove il cielo si copre in un soffio
e le persiane sbattono d’improvviso.
Non riempirai il letto in una notte
e quella riga sulla pelle non la sutureranno
i profumi e i colori d’una fattoria
perché poi sempre tra case e palazzi
dovrai tornare.
Si scuote la tenda ed è l’ora di compilare
quel quadernetto di carta profumata.
Luca Ariano è
nato nel 1979 a Mortara (PV), vive tra Vigevano e Parma. Ha pubblicato
nel 1999 la raccolta di poesie Bagliori crepuscolari nel buio
presso Cardano di Pavia. Numerose sue poesie sono apparse su riviste
e siti letterari tra cui Frontiere,
Faranews e FuoriCasa.Poesia
e su antologie tra cui Oltre
il tempo/Undici poeti per una Metavanguardia, curata da Gian
Ruggero Manzoni per le Edizioni Diabasis (2004) e La
coda della galassia, a cura di Alessandro Ramberti, FaraEditore
(2005). Collabora con il sito internet Pagina
Zero, Il Foglio Clandestino
e La Clessidra ed è tra i redattori della rivista Ciminiera.
Nel 2005 è uscita la sua seconda raccolta di poesie Bitume,
con la prefazione di Gian Ruggero Manzoni, per le Edizioni del Bradipo
di Lugo di Romagna.
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Nelle stanze scure
del dolore, una luce
Ricordando Maria Luisa Ripa
di Emilia Dente
Nel percorso esistenziale di molti esseri umani ci sono
spazi e tempi in cui il malessere si annida e striscia insinuoso nel
corpo, silenzioso radica nella mente e nell’anima. Ci sono attimi
eterni in cui l’inquietudine soffoca i pensieri nei cunicoli dell’incertezza
ed incrina lo specchio lucente dei giorni. Ci sono momenti come lame
sottili che incidono sulla pelle ferite profonde, scavano voragini e
tracciano sentieri tortuosi forzando il passo dolente della vita. È
l’esistenza umana… il cammino di ciottoli e luce, la via
di ombre e passioni, la vita, la vita, con i suoi incubi e i suoi sogni,
le sue angosce e le sue gioie. È la vita. Ogni individuo, unico
protagonista di una storia infinita, solleva a suo modo gli stentati
passi nei solchi della dolorosa via. Egli forse arranca inseguendo promesse
e ricordi oppure si arena sulle righe di diagnosi infauste; egli forse
trascina fardelli di speranze mettendosi in fila per un sorriso o, ribelle,
inventa nuovi cieli aggrappandosi a timidi raggi di sole. È allora,
negli spazi e nei tempi del malessere, che l’uomo si scopre solo
e piccolo, è nella sofferenza la necessaria intuizione che la
luce spesso bisogna scavarla dentro, nella roccia viva dell’anima,
per illuminare il passo.
Io, una e tanti, in bilico sulla soglia dell’essere, ho cercato
una strada, ho scelto la mia strada per attraversare le stanze scure
del dolore. In un labirinto di tristi pensieri ho trovato il filo sottile
che mi ha condotto alla luce: la parola, la scrittura, il dialogo con
me stessa, con i figli, con gli affetti più cari, con la vita,
con Dio.
Io, una e tanti, nei corridoi di un ospedale, sola, a dialogare con
il dolore.
Catene di parole per liberare la mente e l’anima prima dell’implosione
fatale.
Un foglio stropicciato allora diviene sindone candida a cui inchiodare
urla soffocate e pianto e disperati silenzi. Pagine pallide stese al
sole come lenzuola bianche su cui intrecciare passato e futuro ricamando
l’eternità della vita. Fiumi di emozioni che scrosciano
rapidi, impetuosi, rompendo i quieti argini della “normalità”.
Lungo la strada tante luci compagne, donne soprattutto, madri della
vita artigliate ad aquiloni di parole. Una per tutti, viva, oltre la
sofferenza, il vuoto e l’assenza: Maria Luisa Ripa, artista irpina,
eclettica e completa, donna di luce e poesia. Il suo testo poetico,
Parole dal silenzio,
diario dei lunghi periodi di degenza in ospedale, è il faticoso
cammino verso un’alba nuova. Nelle tenebre di un male che, impietoso,
trasforma il corpo e lo consuma, la scrittura diviene luce, speranza
e respiro. Le parole e i disegni dell’Autrice sono specchio dell’essere
e cristallizzano le emozioni in un eterno canto di vita che neppure
le morte osa sfiorare: "Le parole scorrono / nel silenzio / come
scorre il sangue / nelle vene / danno vita a versi che si stemperano
/ in poesia /e la poesia, profondo moto dell’anima / diventa /
la barca che ci porta su altre rive / e verso la speranza della vita."
Sulla barca delle parole, Maria Luisa resiste alle maree furiose della
sera e veleggia verso luminosi orizzonti, orizzonti autentici, veri.
L’essere nudo infrange le onde del male ed approda su spiagge
di pace.Ella supera la fisicità di un corpo martoriato e, consapevole
della sconfitta e della vittoria, naviga fiera oltre l’illusione
della vita e verso la vita vera nel respiro eterno in cui la donna ha
guarito l’anima, ha trovato la serenità e la forza per
non lasciar morire i pensieri insieme al corpo e per essere ancora oggi,
sempre, luce di vita.
Dono generoso ed importante questo foglio di viaggio lungo le tappe
di una malattia che tante donne avvelena ed uccide. Messaggio di solidarietà
e coraggio per quanti restano prigionieri alle radici del male. Dono
di immenso amore che Maria Luisa offre alle tante “sorelle accucciate,
raggomitolate” nei letti disfatti di un tormento.
Lo spasimo del corpo, l’Autrice lo sa bene, lo testimonia, lo
documenta, con parole e disegni, le cicatrici, i tagli, gli sfregi aprono
valichi impervi che conducono all’Essere, valichi che portano
lontano. E da qui, dall’oltre, dal lontano bisogna ripartire per
attraversare la soglia o per percorrere la lunga strada per tornare.
Io, una e tanti, sulla strada del ritorno, propongo una ultima riflessione
a quanti sono in cammino e soprattutto a coloro che si adoperano per
il loro benessere: il corpo ha il suo percorso, i suoi tempi e i suoi
limiti, il corpo si può curare, può guarire, può
sopravvivere ai giorni, ma ha sempre la sua gravità, il suo peso,
la sua inevitabile precarietà, tracce pesanti che sono necessario
contrappeso alla levità del soffio di eterno che ognuno di noi
porta in sé.
A volte, molte, troppe volte, viene curato solo il corpo, vengono medicate
solo le ferite della pelle, le cicatrici visibili e superficiali.Quelle
cicatrici, quei “segmenti incisi sulla pelle (sono) burroni dentro
il cuore” e restano il segno visibile di voragini paurose in cui
sprofondano, oltre alle sensazioni fisiche dei travagli, pure tutte
le parole dette e non dette, la solitudine, l’incomprensione,
l’indifferenza, pure, purtroppo, a volte, l’arroganza e
la superbia di chi quel dolore lo deve lenire e invece, per superficialità,
o per cinica indifferenza, lo aggrava e lo pietrifica nelle grotte del
cuore. E tutto, nei tempi lunghi della mente, poi torna alla luce e
diviene tormento. Questi i fossi in cui si precipita, questi i temporali
sulla strada del ritorno. Queste le ferite che lacerano l’anima,
sprofondano tra le pieghe del tempo e sbiadiscono ed offuscano il sogno
della vita che non si è capaci, da soli, di colorare più.
Giugno 2006
Emilia Dente
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I
di Fabrizio
Centofanti
I
la paura sottostante, la pineta, e l'ombra
onnipresente della madre, nelle grida violente,
l'impressione di scavare in una pietra,
l'ultima versione: il rumore e il clangore,
nonostante. la domanda, perché, perché tre volte
– come se ci fosse una ragione – l'onta, il bisogno di lavare,
di distruggere il muro della pelle. di tutto,
rimane quel recinto, e il pino,
l'insensato silenzio delle stelle, come in sogno.
Fabrizio
Centofanti è laureato in Lettere moderne con una tesi su
Italo Calvino. Sacerdote diocesano a Roma dal 1996, opera soprattutto
nel campo della spiritualità e dell'approfondimento della Sacra
Scrittura. Ha pubblicato due volumi su Calvino e Rebora, oltre a numerosi
saggi e articoli di natura letteraria. Nel 2005 è uscito il volumetto
Le
parole della felicità (Laurus Robuffo).
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Quando finiamo di porci domande
di Carolina Lio
1. La torta dell'imperfezione
Lui non veste bene, non parla di arte e cultura,
non ha una casa ordinata e pulita, una tv tutta sua,
non ha una famiglia inquadrata, non ha un fisico asciutto,
cammina pendendo da un lato, ha il petto ricoperto di peli,
gli cresce troppo in fretta la barba,
mette sempre le stesse solite scarpe,
inciampa nelle parole, cade dal letto la notte,
arriva agli appuntamenti troppo in ritardo,
non salda i suoi debiti e mangia sempre biscotti.
Poi mi poggia la testa sul petto, mi chiede cosa è giusto e sbagliato,
e sento il suo amore nel corpo, e sento il suo naso sul collo,
la sua fronte soffice, le spalle larghe e pesanti,
le labbra grandi, la lingua lunga e le mani fredde,
e nessun altro uomo cammina più per la strada,
nessun altro uomo ha più un filo di voce.
2. La storia tra Giorgio e una come me
La cattiveria di mia madre nello schiaffeggiarmi col la verità
è insostenibile questa volta che non le ho chiesto nulla,
non le ho detto niente, e ha capito ad ogni modo tutto su Giorgio.
- Cosa ti importa di Giorgio, mamma? Non hai niente altro a cui pensare?
Ma lei ha capito in quelle due volte che hanno parlato
e tra le poesie che ha trovate sparse sul pavimento del bagno,
che Giorgio è uno che si illude su di me e che mi cerca perchè
non ha di meglio.
Mi ha detto in faccia che se davvero ha avuto una donna bellissima
allora non potrà mai affezionarsi a una come me.
mi ha sempre detto, insomma, come stanno le cose, mia madre,
fregandosene di tutte le crisi che mi ha provocato e delle mie paure.
Ho iniziato a gridare di smetterla: io e Giorgio siamo scrittori: è
l'unico legame.
E lei non distraeva il suo sguardo di pietà sul mio corpo in
piedi davanti la credenza.
Mi ha ancora detto, quando mi sono seduta per terra, vicino a lei:
- Credi che ti voglia bene, ma non è così. Forse ne è
convinto,
ma niente altro per una come te; gli uomini sono fatti così.
Una come me, non so bene cosa voglia dire, ma sono anni che mi sento
chiamare così,
e forse è il mio vero problema, forse è tutto in quelle
tre parole.
Carolina Lio, nata nel 1984
a Cosenza, vive tra Treviso e Bologna, dove si sta laureando in Scienze
della Comunicazione. Lavora come critico e curatore d'arte contemporanea
per testate specializzate e gallerie private. Si interessa soprattutto
sull'interazione tra fotografia, arte digitale e video. Ha
pubblicato racconti e poesie su riviste e raccolte, lavorato in pubblicità
come copy writer e come sceneggiatore per teatro e radio. Si occupa
occasionalmente di critica letteraria e cinematografica.
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Una stoccata
in pieno petto
di Armando
Conti
– Scusa!
Io, accovacciato in un angolo nell’attesa dell’incontro,
mi riscossi. Nel vocìo del palasport, sollevai lo sguardo verso
una ragazzotta infagottata in una tenuta da gara troppo larga. Abbracciava
un borsone più grande di lei che le cascava da tutte le parti
e mi guardava imbronciata.
– Mi puoi aiutare? – chiese, scaricando il suo borsone accanto
al mio. Si girò, mostrandomi il groviglio di filo elettrico che
le pendeva dal giubbotto e il rullo che si trascinava dietro. Di lì
a poco sarebbe iniziato il torneo femminile e chissà come era
riuscita a combinarsi in quel modo. L’aiutai a sgarbugliarsi e,
infastidito com’ero, non feci caso a quel che l’altoparlante
stava gracchiando.
– Oh, mi chiamano! – si meravigliò. Sorrise, poi
fece una bracciata di tutta la roba che aveva sparso attorno e scappò.
Poco dopo vennero a dirmi che avevano chiamato anche me. Corsi alla
pedana, dove il mio avversario era già pronto. Mormorai una scusa
e, mentre l’arbitro aspettava impaziente, posai il borsone e aprii
la cerniera. Lì per lì ci rimasi di sasso, ma mi ripresi
immediatamente e cominciai a frugare nel viluppo di biancheria che ne
debordava. La prima cosa che mi capitò tra le dita fu un reggiseno,
che subito rificcai dentro. Tastando nel mucchio, finalmente sentii
la spada; con un sospiro di sollievo la tirai a me, ma la lama s’impigliò
e un pacchetto cadde sul pavimento: erano assorbenti. Tra la gente che
si era radunata intorno corse qualche ghigno. Rosso in volto, salii
in pedana senza guardare in faccia nessuno.
Si può immaginare con che spirito affrontai l’assalto e
come andò a finire. Subito dopo, andai a cercare quella pazza
ma, nella confusione, non riuscii a trovarla. Così, quel giorno,
ci guadagnai un’eliminazione precoce, una borsata di biancheria
femminile e, al posto delle mie due splendide lame francesi, una sola
spada malfunzionante.
– Il mese scorso hai rubato tutta la mia roba…
Mi voltai e tra il via vai della palestra riconobbi il mio borsone.
Lei, che me lo stava porgendo, invece, non l’avrei mai riconosciuta.
Non solo era più grande di quanto mi fosse sembrata, ma, mio
malgrado, dovetti constatare che era anche carina. Mi guardò
compunta, poi s’allargò in un sorriso:
– Spero almeno che la mia ti abbia portato fortuna. La tua, a
me, un po’ ne ha portata. Guarda!
Lasciò cadere il mio borsone, aprì la cerniera, frugò
nel disordine e mi mostrò un foglio stropicciato.
– Guarda la classifica! – e indicò un nome nelle
ultime posizioni – Prima ero sempre ultima!
Senza dire altro rovesciò tutto per terra e, prima che potessi
fermarla, fece altrettanto con quello che avevo portato io; rovistò
nel mucchio, raccattò alla rinfusa la sua roba e filò
via.
Questa, lo sentivo, era la volta buona. Quattordici pari: una stoccata
e sarei entrato in semifinale e poi via, verso la finale. In quel momento
lei passò alle spalle del mio avversario. Si era già cambiata
e camminava mogia verso l’uscita. Appena mi vide s’illuminò
in viso e s’accoccolò per terra. L’arbitro disse
“a voi!”. Lei sorrise e mi salutò con le dita della
mano. Notai come socchiudeva gli occhi e non mi accorsi della stoccata
che mi arrivò in pieno petto, dalla parte del cuore.
Non la incontrai per diverse gare e anche quel giorno,
prima di entrare nel palasport, mi guardai bene in giro. Non la vidi
e tirai un sospiro di sollievo. Passai brillantemente i gironi di qualificazione,
la prima, la seconda diretta. Mi accingevo a salire sulla pedana per
la terza, quando arrivò lei tutta affannata.
– Ti prego... devo entrare nelle semifinali e ho bisogno del portafortuna!
– implorò, e io subito non capii. Quando finalmente compresi,
stava già scappando con la mia spada.
– Grazie! – mi urlò.
Lei entrò in semifinale e fu il miglior risultato della sua carriera;
io no. Ero furibondo. Lei invece arrivò raggiante e si alzò
in punta di piedi per darmi un bacio. Si accorse che ero scuro in volto.
– Stavolta ti meriti un premio... – mi disse, e quella notte
nessuno di noi due tornò a casa.
Forse, in fondo, avrei preferito vincere la coppa, e forse
fu per questo che non la cercai, né mi feci trovare. Eppure,
il mese dopo, quando la rividi a un torneo, ne fui contento. La osservai
mentre mi veniva incontro e la trovai bella. Era in tailleur e aveva
con sé solo la borsetta.
– Non tiri, oggi? – le chiesi, dopo un rapido bacio.
– Sono incinta.
Cappotto. Come se un arbitro mi avesse decretato la sconfitta per 15
a 0.
Che dire? Se c’è una cosa che lo sport mi
ha insegnato è non fuggire davanti alle responsabilità,
e le cose sono andate come dovevano andare.
Con i gemelli non c’è stato più tempo da dedicare
alla scherma. Crescono bene e, a parte il disordine per casa, tutto
sommato siamo una bella coppia. Lei è radiosa e parla ancora
con tutti dell’amore nato per caso sulle pedane di gara. Poi si
gira verso di me e sorride:
– Siamo felici, vero?
– Sì, cara – le rispondo. Ma, per un attimo, un’ombra
mi sfiora la fronte. Maledetta, se non era per te, a quest’ora
sarei alle Olimpiadi.
Armando Conti, nato nel 1959, vive nella provincia di Parma, dove
svolge l’attività di geologo. Ha pubblicato articoli scientifici
e lavori sulle tradizioni e la cultura locale. Con noi ha pubblicato
Stati di nebbia e altri
racconti.
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Su Vita del gatto
Romeo detto anche Meo di Angelo Mundula
Ed.
Spirali, 2005
di Maria Rosa Pantè
L’ultimo libro del poeta sassarese Angelo Mundula,
edito da Spirali, è, come recita il sottotitolo, un libro di
“versi per un gatto speciale che meritava miglior padrone”.
Il libro, dunque, è dedicato a un gatto, Romeo, detto Meo: la
sua fotografia campeggia all’inizio del libro; è un bel
soriano dal cipiglio ardimentoso. I versi sono impreziositi dalle illustrazioni
coloratissime di Saverio Ungheri e da altre riproduzioni di quadri il
cui soggetto unico è sempre il gatto.
Questo felino è spesso e da sempre ispiratore di versi poetici
(Tasso, Baudelaire, Eliot tanto per citare esempi illustri), giacché
questo animale ha molto della poesia: il mistero, l’essenzialità,
il selvatico amore, l’indomabilità e anche la giocosa inafferrabilità.
Romeo, che comunque ha avuto nel poeta più che un padrone un
compagno di vita, riassume in sé tutte queste caratteristiche.
Del gatto ha insomma vizi e virtù.
L’autore, attraverso il ritratto di Meo, che ogni gattofilo apprezzerà
per il realismo, l’acutezza e l’accuratezza delle osservazioni,
o addirittura grazie alla presenza del felino, ci parla anche d’altro:
del mistero della vita, della morte e della sopravvivenza dopo di essa.
Scrivere di Romeo è infatti farlo sopravvivere oltre la sua scomparsa:
la poesia qui si fa memoria, uno dei suoi “compiti” essenziali.
Il poeta dunque, scrivendo del suo amico gatto, ci parla dell’inutile
affaccendarsi umano, in contrasto con l’apparenza distratta e
assente del gatto che “fabbrica nella sua mente/ infinite gattolerie”
e dice: “Io soltanto vedo scorrere la vita mentre scorre/ ne conosco
il segreto ma non lo dico” (p. 58). Parla del relativismo d’ogni
nostra velleità umana: “Siamo nati per l’eterno e
per grandi imprese / ma basta un niente appena il fiato d’un animale
/ a mutare per noi il senso dell’universo” (p. 13).
Non basta, il poeta arriva a dire la sua (o del gatto?) anche sulla
poesia, sulla parola poetica quasi un miao che si afferma in un mare
di parole superflue: “quel/ suo miao interrompe da sempre / il
nostro parlar quotidiano / nessun vocalizzo al mondo è più
ricco di senso / e più raro” (p. 21).
Romeo è, però, pur sempre un gatto (e il ricordarlo è
un merito di Mundula poeta, ma anche gattofilo): suscita le ire del
padrone, che subito si pente delle sue reprimende e sente il ridicolo
della sua agitazione. Anche questo insegna il gatto: a vedere cosa è
davvero l’essenziale, a guardare oltre le apparenze. “Tu
/ sei quello che hai voluto essere/ senza guardare né in alto
né in basso / ma dentro cercando (anche tu!)/ te stesso, chissà
perché” (p. 31).
Leggere le gesta di Meo mette allegria, perché il poeta ha il
merito di toccare temi fondamentali con lieve ironia e uno sguardo sempre
pieno d’affetto. Anche il canzoniere di Meo (mi si passi l’accostamento
ad un altro Canzoniere) ha una parte in morte e una in vita. Così
nelle ultime liriche il tono si fa via via più sommesso, nostalgico,
si assiste al declino non solo d’un gatto, ma d’un misterioso
e affettuoso compagno. Nella bella lirica “Romeo è invecchiato”
gli accenti sono leopardiani per la coscienza della natura che tutti
accoglie in un destino comune; ma il poeta torna subito alla visuale
del gatto, a toni più realistici, all’occuparsi del pasto
e “del piccolo lago della pipì” (p. 64).
Alla fine Romeo muore. La sua morte è descritta con una sobrietà,
un silenzio che rende il dolore straziante: “No, nessun commento
/ né pianto, nulla di più / dell’avvenimento. Romeo
/ è morto nient’altro” (p. 66). La morte è
una, come il dolore, e per tutti, è un evento troppo serio per
inquinarlo coi miao o le parole.
Ma è morto davvero? Sembra che il primo a dubitarne sia il poeta
stesso. Forse Meo è un gatto universale, il tono si fa biblico:
“Se un gatto ha sette vite Meo, gatto speciale, / ne ha avute
(ne avrà?) sette volte sette” (p. 73).
Se invece è davvero morto ci sarà, questo è l’ultimo
auspicio del poeta, senz’altro un “piccolo spazio”
un aldilà del gatto, di questo Romeo che ha finito per divenire
tanto simile al suo padrone (o viceversa?).
Infatti nelle liriche in morte dell’amato Meo si assiste a quella
sovrapposizione, alla identificazione tra uomo e gatto adombrata lungo
tutto il libro. Nella breve poesia Ritratto, il ritratto è
appunto di Meo, ma dietro lui, attraverso lui, del poeta. (p. 68)
Benché sempre Mundula abbia evidenziato la differenza tra uomo
e gatto, alla fine l’affetto, come sempre accade, fa superare
quella che in fondo è una barriera molto labile: “Abbiamo
respirato la stessa aria!”
Le liriche hanno tutte un ritmo vivace, segnato dalle frequenti rime
interne che sottolineano momenti ilari e malinconici, sentimenti dell’uomo
e del gatto. Concorrono al risultato poetico molto originale e di grande
fascino, le ripetizioni, le anafore, le rime forti con la parola gatto,
le allusive allitterazioni. Quando ci descrive le fusa di Meo, Mundula
non esita a creare un verso gradevolmente onomatopeico: “fa le
fusa. Le fa…” (p.48). Non esita nemmeno a scomodare il padre
Dante quando nella poesia Bentornato, Meo cita: “Bentornato
Meo, dalla bianca città / delle tue scatole: questo è
il massimo / viaggio che fai per l’altrui scale” (p. 51).
Ne Il cavaliere antico il ritmo fortemente spezzato, i frequenti
enjambement rendono bene l’agile cavalcata del gatto in corsa.
Arricchiscono la scrittura poetica di Mundula le metafore ardite e spesso
suggerite dalla natura metafisica del gatto: “o gatto che ogni
volta scruto come fosse la / prima volta o gatto direttissima mia piccola
/ parola accesa nella notte nel dormiveglia” (p. 46).
La chiave del libro, del rapporto tra uomo e altro da sé, il
gatto, sta nello sguardo dell’animale, ben lo sanno coloro che
sono legati a qualche micio: “Chi non conosce lo / sguardo di
un gatto non potrà mai capirmi / fino in fondo, perché
un gatto non guarda / mai soltanto per vedere guarda per / interrogare
per chiedere per avere una risposta / per darla come chi sappia tutte
le leggi / del mondo e dell’uomo e se ne senta / al di sopra con
tutta l’ironia della sua / specie col suo insuperabile understatement”
(p. 26).
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Camaldoli 23.7.06.
16a domenica/b
Ger 23,1-6, Ef 2,13-18, Mc 6,30-34,
di Ivan
Nicoletto (monaco camaldolese)
Un amico mi ha raccontato di aver fatto una visita a Monza,
lo scorso maggio, al museo del postumano. In genere
un museo raccoglie reperti archeologici del passato o immagini delle
epoche trascorse o al massimo di artisti contemporanei, mentre in questo
spazio un gruppo di artisti hanno inscenato il futuro della nostra civiltà.
Hanno immaginato di vedere, con gli occhi dei nostri discendenti, i
resti della nostra umanità e del pianeta terra dopo che si è
autodistrutto a causa di processi irreversibili che la stirpe umana
stessa ha innescato. Di qui il nome del museo, postumano,
per indicare ciò che viene dopo la scomparsa della specie umana.
Attraverso video, sculture, dipinti, fotografie, musiche, questi artisti
hanno cercato di far luce sulle cause che hanno portato all’estrema
catastrofe della civiltà: l’inarrestabile e onnivoro sviluppo
economico, l’abbruttimento del cuore umano, la devastazione indiscriminata
dell’ambiente, guerre disastrose di predominio per l’accaparramento
delle risorse…
I nostri amici visionari compiono un’operazione in puro stile
profetico! I profeti si fanno spesso portavoce di catastrofi imminenti
come un antidoto preventivo prima che gli eventi precipitino, prima
che sia troppo tardi…
"Venite in disparte – ci invita oggi il vangelo – in
un luogo solitario, e riposatevi un po’."
Mi sembra una terapia dell’anima appropriata per cambiare corso
al processo di distruzione che abbiamo avviato sulla terra e tra gli
umani. Riposatevi un po' in mezzo alle accelerazioni della vita, alle
frenesie del produrre, del competere, del difendersi, del contrastarsi,
dello sfruttamento illimitato… ritmi che sembrano condurci sull’orlo
di un abisso, in un vicolo cieco e spesso disperato, pieno di infelicità:
Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde l’anima?
Quando le sorgenti della speranza e della fiducia si sono essiccate
di che cosa ci disseteremo? Quando il sale perde il sapore, come troveremo
gusto? Quando non si ha più nessun pastore che ci fa intravedere
prati di senso, orizzonti di felicità, momenti di quiete, che
cosa ci resta da fare?
Reggeremo al vuoto che abbiamo creato intorno a noi e dentro di noi?
Da quando il progresso e il giusto profitto mettono a disposizione di
ogni essere umano, a cifre ragionevoli, congegni di sterminio personale
e di massa, il suicidio è diventato una tendenza principale del
nostro tempo. Uccidersi e uccidere, smembrare, bombardare, massacrare,
fare strage, abbattere, disgregare sembra l’energia che nel mondo
evoluto ed efficiente in cui viviamo viene fornita a domicilio come
l’acqua, il gas e la televisione… E non è un fenomeno
che riguarda solo gli zelanti fondamentalisti islamici che si fanno
esplodere, ma attrae frotte di giovani liceali foruncolosi, gente comune
delle periferie cittadine, mamme o papà di provincia o di paese.
È odio aggressivo quello lanciato da capi di governo, da industriali,
da generali, da capi religiosi, dai protettori dell’integrità…
"Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’."
Il vangelo ci invita a fermarsi, a fare dei respiri profondi, ad allentare
la pressione del fare e del produrre, a disinnescare le cariche di risentimento,
a deporre per un istante il peso delle preoccupazioni e delle ansie,
a scoprire laghi di inoperosità, a regalarci prati di silenzio,
brezze di ascolto, rugiade di amicizia, aurore di affidamento…
Soprattutto, Gesù ci invita a rivolgerci alla Sorgente che anima
tutte le forme viventi, sorgente che è Padre, Madre, amico, amante…
come canta un’antifona del salterio:
“Venite alla sorgente, voi che avete sete, cercate il Signore,
ora si fa trovare” (557).
"Ora si fa trovare". Non dobbiamo fare nessun
lungo viaggio, né acquistare nessun biglietto o incolonnarci
in nessun casello autostradale…
"Venite in disparte", venite al cuore del vostro cuore, alla
Voce che parla dal cuore e rivela a ciascuno di noi di essere amato
e amabile prima di ogni nostro fare, meritare, dire o produrre.
Voce amorosa che scioglie le mura difensive e minacciose della paura,
ci disarma, ci immerge in un silenzio che diventa spazio accogliente…
C’è un’altra bellissima immagine evangelica che oggi
ci rinfresca e ci disseta, quella degli uccelli del cielo che non mietono
e dei gigli del campo che non tessono.
Per il pastore luterano Søren Kierkegaard, essi sono i nostri
maestri nell’arte del silenzio e dell’ascolto.
L’uccello del cielo e il giglio del campo tacciono e attendono.
Non chiedono: "Quando verrà la pioggia? Quando avremo il
sole? Come sarà l’estate? Ma tacendo vogliono farci percepire
che siamo davanti a Dio, che dovremmo diventare silenziosi davanti a
Dio, cosa che in genere dimentichiamo del tutto quando ci affanniamo
e discutiamo."
E Kierkegaard, concludendo, si rivolge a ognuno di noi:
"Che tu, nel silenzio, possa dimenticare il tuo nome per poter
pregare Dio in silenzio: Sia santificato il tuo nome!
Che tu, in silenzio, possa dimenticare te stesso e i tuoi piani grandiosi,
per pregare Dio in silenzio: Venga il tuo Regno!
Che tu, nel silenzio, possa dimenticare la tua volontà per poter
pregare nel silenzio: Sia fatta la tua volontà!
Cerca prima il Regno di Dio, cioè diventa come il giglio e l’uccello
cioè diventa silenzioso davanti a Dio, così ti sarà
dato tutto in sovrappiù."
Ivan Nicoletto (Vò
Euganeo - Padova, 1958), monaco all'Eremo di Camaldoli,
si è laureato in filosofia all'Università di Padova e
si è licenziato in teologia alla Pontificia università
gregoriana di Roma. Accanto ai servizi che svolge nella propria comunità,
si interessa principalmente dell'intreccio tra fede, pensiero ed espressione
artistica.
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Piccola storia
di ombre*
di Vittoria Bartolucci
L'OMBRA
Accanto a me
la mia ombra
nel sole cammina
sull'asfalto azzurrina
coi piedi fissati
alle mie stesse scarpe
36-37
E potrebbe volendo
essere l'ombra di un'altra
con lo stesso mantello gli occhiali i capelli
l'andatura un po' incerta la borsa la spesa…
se non fosse
(le coincidenze sarebbero troppe)
per quell'irrequieto (quasi un tormento)
fumetto-pensieri (un po' folli un po' dolce amari)
che le vedo io sola (ora a sinistra ora a destra)
attaccato alla testa
QUASI PENOMBRA
E ora è già qualche giorno
mi sembra a volte mentre cammino
un po' sbiadita sfuggente quasi penombra
o se la guardo stando seduta
come un piccolo cane accucciato
che ne ha incontrato per strada
un altro
molto molto più grande
E spero che non stia meditando
di rendersi
all'improvviso una mattina di queste
chissà latitante
LATITANZA
Dove va un'ombra quand'è latitante?
In spazi sembra a noi sconosciuti
in cui stranamente si dice un'ombra
che altro non è che un'assenza
può imporre la propria presenza
Quanto a chi resta senza di lei
sappiamo
che a disagio procede
chiedendosi a tratti
se è dovuta la sua sparizione
al sole che in verticale con la sua testa
sembra latitante a sua volta
oppure al poco peso (l'inconsistenza)
della propria esistenza
E pagherebbe (se l'avesse)
sino a un milione per vederne
dalle sue scarpe
sull'asfalto spuntare (come i suoi spettinati)
anche soltanto i capelli
RITORNO
L'altra sera poi è tornata
e per sorprendermi forse
mica ha aspettato
un giorno di sole:
all'improvviso è spuntata
mentre tornavo dal centro
procedendo un po' spaventata
per strade stradine scalette in discesa
e sentendo inquiete alle spalle presenze
affrettavo i miei passi
È tornata sotto un lampione che anzi
essendo dotato di più di una lampada sola
a un tratto
ne ha proiettate sopra l'asfalto tre copie
o forse anche quattro
che come bambine un po' saltellanti
di fianco di dietro davanti
mi si aggrappavano addosso
Quasi quasi le ho detto
mi hai fatto paura Non c'è bisogno
che per farmi sapere
che sei ritornata
ti faccia in quattro per me!
Ed è così
che col fumetto-pensieri
attaccato alla testa
di nuovo da allora
accanto a me nel sole
la mia ombra cammina
anche se sarà un'impressione mi sembra
che più di prima il suo procedere sia
un po' titubante
* È in realtà la storia, scritta in momenti successivi,
di periodiche frequentazioni, di forzati abbandoni e ritorni della Poesia
(o di qualcosa che un po' le somiglia).
Vittoria Bartolucci
è nata ad Asmara e dopo aver vissuto in varie città d'Italia,
abita a Perugia dal '71. È laureata in matematica e si dedica
sia al disegno(in particolare all'illustrazione di libri e all'umorismo
grafico) sia alla scrittura. Ha pubblicato: "Agrodolcemente"(poesie
e racconti,Premio S.Penna '88),"Connotazioni corrispondenze universi"(Premio
S.Penna '98),"Due rami per un'altalena","Pezzetti di
carta".E' presente in varie antologie(alcune delle quali da lei
stessa curate) e riviste.
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Dopo PPP*
questo saggio può essere commentato nel blog Poesia
e spirito
Non si tratta di identificare il cadavere di Pasolini con quello del
Cristo morto – anche se ogni ucciso innocente è quasi Cristo.
Perciò non si deve santificare Pasolini; ma nemmeno ridurlo ad
una misura troppo criminologica, politica e laica. E invece: l’uomo
privo di azioni non intellettuali deve essere guardato secondo l’uso
di una carità intellettuale. La mitezza merita mitezza.
Pasolini muore, e questo è l’unico fatto certo. Ma l’interpretazione
è convulsa: ucciso per caso, in una “squallida cornice
di cronaca nera” (G. Accame); no, ucciso dalla malavita; no, ucciso
dallo Stato; no, ucciso da Pelosi (no, da Pelosi con altri; no, solo
da altri), ma eseguendo una volontà diretta di Pasolini, come
regista-mitologo dell’ultimo atto. Ma io mi chiedevo se l’arte
di Pasolini non fosse in rapporto con questa morte; se essere poeta
– in determinate forme, linguaggi, e anche nel “cinema di
poesia” – non fosse un’introduzione a questa –
e non un’altra – forma di morte; e se le parole non fossero
anche un unico antivedere di questa realizzazione.
Mi chiedevo: per il poeta la parola è più di una nomenclatura
o di uno strumento? Sì, pensavo: per il poeta la parola è
la realtà. E ciò che viene sancito in forma di parole,
e con l’apparenza pubblica della poesia, è più che
vero: è reale. Quindi: se Pasolini elabora ossessivamente, per
trent’anni, testi sulla propria morte (come e dove avverrà,
con quali mezzi, con quali conseguenze infamanti e liberatorie), la
sua morte è parte della poesia (e il fatto del 2 novembre 1975
è l’ultima poesia, non scritta e non ripetibile): anzi
la morte è l’argomento principale della poesia, insieme
alla solitudine e all’“amore materno, straziante”
(chi ha una madre infelice non potrà essere felice, finché
l’amore per la madre sarà possibile; perciò resterà
solo, come il sovrano che non vuole, o non può, avere compagni:
“Tu sai che mia madre ha ottant’anni; fra un po’ sarò
solo al mondo. […] voi siete giovani e innamorati, e io vecchio,
solo, e senza più niente nella vita”).
Quindi: è possibile, ma forse non dimostrabile, che Pasolini
abbia organizzato razionalmente la propria morte; ma è più
corretto – perché è la poesia – dire che si
è dedicato ad uno strazio di superlavoro ed eros moltiplicati
al massimo, nella speranza di un’uscita di scena memorabile e
feconda, per i sensibili, e devastante per altri. Cioè la poesia
scritta anticipa i fatti della “poesia vissuta”, e i fatti
sono la garanzia della poesia scritta: non c’è, in senso
stretto, nessuna invenzione, se non nell’uso delle tecniche e
nelle forme di montaggio.
Chi crede, anche per un delirio, di essere seme, agirà da seme:
“Ciò che l’uomo, scoprendo l’agricoltura, ha
veduto nei cereali, ciò che ha imparato da questo rapporto,
ciò che ha inteso dall’esempio dei semi che perdono la
loro forma sotto terra per poi rinascere, tutto questo ha rappresentato
la lezione definitiva. La resurrezione, mio caro” (Medea).
Nello stesso tempo, il seme non è invisibile: al punto che –
come per una maledizione – nessun poeta italiano ha più
avuto un’ombra della presenza, carismatica e scandalistica, di
Pasolini (che passava serenamente dal “Processo alla Tappa”
al “Corriere della Sera”, dal festival di Berlino a “Novella
2000”); la cui morte segue solo di due settimane l’annuncio
del premio Nobel a Montale. Così Sanguineti, già enfant
terrible, invecchia felice, come aveva scritto già nel 1975
(si chiude “il dialogo con tutto quello che non siamo stati, e
non abbiamo voluto essere. E saremo un po’ tutti costretti a invecchiare
più in fretta”). Come se il 2 novembre 1975 la stessa idea
della Gioventù fosse morta, in un colpo solo e tutta; e come
se la genealogia ufficiale della poesia italiana fosse stata pietrificata
e svergognata, una volta per sempre. Sanguineti vivo invecchia nella
vita e Montale morto rimane grandissimo, ma fuori del Mito: morto Pasolini
(Manzoni: “l’edificare il mito […] per poi farne altare,
legno, chiodi o corda”) il distacco del poeta dal pubblico non
specialistico è diventato terribile, e ci tocca ancora.
Allora mi è sembrato di imparare che la poesia del/sul corpo
non è solo un artificio tematico, ma un atto di Body Art, che
produrrà esaltazioni e degenerazioni su un corpo già mortale;
e che la poesia non è un gioco, ma una responsabilità
gigantesca, in primo luogo sulla propria pelle, letteralmente.
Ogni parola scritta mi si ritorcerà contro, chiedendomi ragione:
una volta detta, è cosa. Ma anche la lama e il martello sono
cose. E noi siamo o troppo parola o troppo corpo o troppo mente, e non
l’insieme inscindibile di mente, corpo e parola; e guadagniamo
una sopravvivenza, sia pure precaria, a patto di non scivolare nel rischio
etico e fisico di diventare corpi d’amore e di poesia. E non condividiamo
la maestà, la potenza, l’inusualità e il furore
che Rosselli rivendicava a se stessa, senza uscire dal contenutismo
che la rendeva simile, contro ogni apparenza, a Pasolini. Né
possiamo dire “nel mio mestiere sono re”, come Pavese. E
sembra strano che le Maestà siano tali quando stanno per morire
tragicamente, perse nella disperazione (“il mondo non mi vuole
più e non lo sa”), nella “storia di una malattia”
o nel cupio dissolvi. Non è assurdo, se questa regalità
si misura proprio sul distacco (veramente Gelassenheit) da
qualsiasi cosa non sia amore e/o poesia.
Il cristiano si chiede: queste tendenze, che finiscono per distruggere
la vita, onorano Dio? Ma riguardano certamente la grande poesia. E allora
siamo costretti a chiederci se la grande poesia, a queste condizioni,
onori Dio. Eppure l’istinto – che è fedele d’amore
ma non teologo – non riesce a cogliere nessuna vera bestemmia
in questi autori. Se la bestemmia c’è, rimane inedita e
intima: nel rapporto privato tra Pier Paolo, persona, e la persona di
Dio.
* Ho provato a scrivere di questo e di altro in un libro, Philologia
Pauli, che è anche una specie di oggetto di ringraziamento.
In primo luogo al lavoro di Pasolini. E poi a Gian Ruggero Manzoni,
che ha onorato il libro con una prefazione più bella del libro;
ad Alessandro Ramberti, che se ne è fatto editore, per Fara,
con una cura impensabile; a Federico Federici, che per pura amicizia
ne aveva realizzato una prima edizione informatica. Infine a Giuseppe
Zigaina, il cui pensiero, per quanto non sempre condivisibile, resta
un grandissimo stimolo.
(Genova, 4 agosto 2006, pomeriggio)
Massimo Sannelli
(qui sopra con Chiara Daino) vive e lavora a Genova. È Scrittore,
traduttore e critico. I suoi siti personali sono www.microcritica.splinder.com
e www.sequenze.splinder.com
Il pane
non si fa con un chicco (omelia per il Corpus Domini)
di Bernardo Francesco
M. Gianni
Carissime amiche e amici,
domenica scorsa abbiamo cercato di intravedere assieme qualcosa della
luce misteriosa della santissima trinità, una luce velata e rivelata
da una geometria divina francamente inafferrabile per il nostro piccolo
sguardo, oggi ci aspetteremmo che quell’insondabile mistero si
rivelasse al nostro cuore e alla nostra intelligenza come formula arcana,
una cifra remota, un rotolo misterioso contenente antichissime verità
e misteriose formule di salvezza.
E invece oggi – concludendo questo piccolo grande viaggio fra
i misteri più grandi della nostra fede, un viaggio iniziato la
notte di Pasqua, e prima ancora nella settimana santa – oggi restiamo
meravigliati nell’essere invitati a contemplare un pezzo di pane
e un calice di vino.
E non solo a contemplare, ma addirittura a divorare, a mangiare, a far
nostro qualcosa di quel pane e di quel vino.
Nella massima semplicità di un gesto naturalissimo, una naturalità
disarmante che accomuna ogni creatura vivente su questa terra, il mangiare,
nella massima semplicità di un cibo mirabilmente elementare presente
sulle mense di tutto il nostro mondo, il pane, nella massima semplicità
di una bevanda che mescola con l’acqua il frutto più dolce
della terra e del sole, l’uva,
noi contempliamo, mangiamo, scopriamo e adoriamo il Signore Gesù.
Il Signore ha sempre mostrato il suo amore per gli ultimi e i peccatori
mangiando con loro: non ha altro gesto più bello e semplice per
dire loro il suo amore che sedersi a tavola con loro, da loro essere
invitato, con loro spezzare il pane di una ritrovata comunione che subordina
la differenza e il peccato alla riconciliazione e al perdono.
Quante volte il Signore è invitato a cena e a pranzo da chi resta
stupito, perplesso, ammirato dalla sua parola, dai suoi gesti e dai
suoi silenzi!
Il vangelo di Marco, come gli altri evangelisti ci raccontano oggi però
un pasto in cui è in realtà il Signore ad invitare noi,
stavolta è lui che ha organizzato –nella sala superiore
adornata di tappeti- una mensa di definitiva condivisione, di intensissima
comunione, di fragrante ristoro, un ristoro tuttavia che è tanto
più capace di sfamare la fame dei discepoli e la nostra fame,
quanto più reso saporito e lievitato dall’amore di Gesù,
il suo amore di donazione, quella donazione con cui –come il frammento
di pane spezzato- anche le sue stesse ossa, il suo corpo, il suo cuore
si lasceranno spezzare sulla croce perché inondino di sangue,
di vita , di cibo nuovo di amore e perdono la storia affamata di amore
dell’umanità, di ciascuno di noi.
Il Dio di Gesù, il Dio da Gesù tantissime volte pregato
nelle sinagoghe, coi salmi, nel tempio a Gerusalemme, è il Dio
che aveva già scelto di spendersi per la sua creazione. Lo aveva
fatto offrendo al popolo di Israele, l’ultimo fra i popoli dell’antichità,
il più insignificante e per questo il prediletto, la libertà
e la consapevolezza di essere amato –consapevolezza mai scontata
nel nostro cuore- essere amato da Dio, chiamato a responsabilità:
ecco il dono della legge sulla Sinai, ecco che su quella parola di libertà
e fedeltà che sono le tavole dell’alleanza è sparso
il sangue, il sangue di capri e giovenchi: il sangue è la vita
ed è la morte e ci dice che quella parola , quella alleanza che
il Signore donava al Suo popolo è dono gratuiti di vita, per
camminare nella vita nonostante la morte, nonostante le fatiche dell’esodo,
ogni nostro esodo. E è bellissimo notare come metà sangue
sia versato sull’altare da Mosè e l’altra metà
sul popolo: non c’è sproporzione: il Dio di Gesù
vuole una vera comunione , un incontro a metà strada: quella
parola , quel sangue è davvero a metà strada fra vita
e morte, fra Dio e l’uomo, fra possibilità di salvezza
attraverso l’ascolto di quanto il Signore ci dice con il Suo misterioso
e talvolta muto amore e possibilità di oblio, di disobbedienza,
di chiusura al primato dell’amore esigente e liberante racchiuso
nell’alleanza.
Inizia così una mirabile storia di fedeltà e tradimento
fra Israele e il suo Dio, un popolo che trasforma spesso quella parola
fatta vita col sangue in una parola fatta morta e capace di morte con
altrettanto sangue, il sangue dell’ingiustizia, della dimenticanza,
della disattenzione, della sacralità, della divisione…
Ecco perché oggi , al posto di quelle tavole di pietra del sinai,
bagnate di sangue, di sangue pur preziosissimo di alleanza, oggi troviamo
qualcosa di ancor più intimo ed essenziale e verace per la nostra
vita: non un rotolo, non una cifra arcana, non formule aride e incomprensibili
di sapienze estranee alla nostra fame.
Troviamo invece una bianca mollica e un calice di vino che sono l’impronta
vivente nella nostra storia della presenza reale di Dio , del Suo divinissimo
Figlio nella nostra storia, di più nella nostra carne, nel nostro
cuore.
Non una tavola di pietra bagnata di sangue, ma sangue reso sangue di
Dio dalla Parola di amore di Gesù e più ancora dalla sua
effettiva donazione di sé sulla croce.
Capite il mirabile rovesciamento?
Gesù sa la nostra fragilità, sa quanto il cuore nostro
si lento a capire, sa quanto i nostri orecchi abbiano per filtro il
catrame della nostra durezza e autosufficienza, sa quanto sia arduo
custodire nella memoria la forza della Sua parola di perdono: è
una profonda verità dell’uomo: le mamme sanno che per farsi
capire dai bambini oltre alle parole occorre il gesto, il gesto esemplare
e concretissimo di amore e attenzione, se necessario il gesto ripetuto
ogni giorno: solo attraverso la grammatica dei gesti educhiamo pian
piano il nostro cuore ad avere fiducia nell’amore:
ecco perché la parola di Gesù, parola fatta perpetua alleanza
sulla croce, è anche gesto e quella parole lievita
in pane, quel pane che noi oggi celebriamo e che ogni
domenica mangiamo: tante volte nelle chiese si insiste tantissimo sulla
sottolineatura teologica della presenza reale di Gesù nell’eucaristia:
verità ardua di fede, indubbiamente, ma oggi vorrei prima di
tutto riscoprire con voi la meraviglia per cui Gesù annuncia
la sua morte con un gesto elementare, mangiare insieme, annuncia il
suo amore con il gesto inaudito di un Dio che si fa dono, si fa corpo
e sangue da mangiare, annuncia il Suo la sua risurrezione e il suo ritorno
alla fine dei tempi con l’impensabile promessa, promessa tuttavia
certissima e affidabilissima, che un giorno, nel Regno di Dio, lui busserà
alla nostra porta e cenerà di nuovo con noi, e noi con lui, questo
stesso pane, questo stesso vino…capite la meraviglia?
Dice la Filocalia: il cuore assorbe il Signore e il Signore assorbe
il cuore e da due cose essi diventano una cosa sola
Questa è la comunione, vivere insieme in un reciproco assorbimento
d’amore, di più è vivere nel cuore della Trinità,
tante volte senza capire un bel niente della nostra vita e dei nostri
eventi perché non necessariamente essere nel cuore del cuore
significa sempre vedere e capire, ma senz’altro vivere nella trinità
alimentati dal corpo di Gesù significa camminare sicuri in forza
di un amore che giorno dopo giorno non ci stordisce soltanto con le
parole, ma ci educa e ristora con la cattedra del gesto, con il magistero
silenzioso e nutriente dell’umile concretezza del pane e di quel
poco di vino che è ebbrezza santa di speranza, entusiasmo, di
abbandono fiduciale a Lui, a noi stessi, agli altri…
Sì, anche agli altri, perché se ci limitassimo ad adorare
il Corpo del Signore senza scoprirci unico corpo, radicalmente unico
corpo in lui, tradiremmo la donazione e l’amore di Gesù
Agostino ha un’immagine bellissima: il pane non si fa con un chicco
solo di grani, ma con con molti: siate quello che vedete e ricevete
ciò che siete… e la stessa cosa del vino: molti gli acini
che pendono dal grappolo, ma il succo degli acini confluisce in unità….
Solo così la moltitudine dei fedeli diventa davvero una cosa
sola , un corpo solo del Signore, siamo noi quel pane, pane di unità,
pane di amore, pane di riconciliazione, pane di pace, pane che attraverso
le mani di Gesù nello Spirito Santo torna al Padre in un meraviglioso
movimento di amore e donazione…. Ecco perché anche l’Eucaristia
ha in sé, come ogni farmaco, qualcosa che procura la morte,,,perché
per amare, per donarci, la croce ce lo insegna, molte parti di noi noi
devono morire…
Carissime e carissimi, saliamo all’altare oggi a contemplare più
ancora a “triturare” come dice san Giovanni la carne e il
sangue di Signore perché lui dimori in noi…è
Lui infatti , perla verità, a mangiare noi, e ciò è
consolante, un Dio di amore che attraverso la grammatica elementare
ma verace del corpo, della fame e della sete ci dice tutto l’amore
che ha per noi, un amore tanto grande da essere indicibile : solo gesto,
puro gesto di amore
Signore
Lasciami vivere nella tua vita
Lascia che una mano celeste sprema i nostri cuori
Per un unico vino di vita
Signore
Lasciami vivere nella tua vita
Lascia che una mano celesta impasti i nostri corpi
Come mollica di vita
Resa eterna e unita
Da sale sofferto e da lievito perenne
Ti adoro Signore
Amen
Bernardo Francesco
M. Gianni è nato a firenze il 28-xi-68. Laureato in Lettere
antiche su un testo umanistico di Coluccio Salutati, entra in monastero
nel 1996, a San Miniato al Monte. È monaco benedettino olivetano,
professo perpetuo dal 2001, "prete" dal 2006. Per contatti:
Abbazia di San Miniato al Monte
Le Porte Sante, 34 – 50125 Firenze
tel. 055.234.27.31 - fax 055.234.53.54 - mail: sanminiato@tin.it
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Nota su In
cerca di Alessandro Ramberti
di Luigi Metropoli
Caro Alex,
mia sorella scartabellando tra i miei libri sulla scrivania, tra quelli
appena letti e quelli che ancora attendono di esserlo, ha notato il
tuo titolo e, incuriosita, ha cominciato a leggere In
cerca.
Si avvicina e mi mostra qualche verso che l'ha colpita, nel quale si
è riconosciuta.
Personalmente trovo Pietrisco
più maturo e compatto. In
cerca si muove nell’accidentato terreno della poesia sapienziale
che necessita di una prossimità al pensiero prima ancora che
alla parola, insomma, una poesia che gioca di cesello con la mente prima
che con l’orecchio. Tuttavia la mia predilezione per il tuo libro
successivo non è dettato esclusivamente da questa peculiarità,
che per me non si pone, in assoluto, come tratto penalizzante. Piuttosto
è l'ordito a risultare meno omogeneo rispetto a Pietrisco,
che invece trovo ben disegnato. Martino Baldi sostiene, in una delle
tre note a chiusura del libro, "che se la tua poesia si distendesse
un po’ di più funzionerebbe molto meglio", invece
mi sembra proprio che quando espandi il dettato verso volute più
ampie si perde qualcosa in termini di omogeneità e brillantezza:
il verso perde forza e direzione (tuttavia gli esempi che Baldi ha citato
dal libro, a giustificazione della sua tesi, sono versi riusciti). Paradossalmente
i lampi (che non sono da poesia oracolare o da "parola illuminante",
come invece Baldi vuol sostenere, ma invece toccano la quintessenza
del dubbio nella fugacità di un bagliore) finiscono per essere
più convincenti.
Al limite Martino potrebbe aver ragione sul rischio di troppa didascalia
in ragione dei tuoi temi di natura meditativo-ragionativa in una declinazione
fortemente apodittica. Infatti, forse, un prosimetro sarebbe stato più
adatto.
Ecco, per dirla in breve, mi sembra un libro diseguale nella forza espressiva.
Il punto in favore è che risulta leggibile e alla fine della
lettura ci si sente appagati. Questo mi dà da pensare e talvolta
mi farebbe buttare all'aria tutte le categorie critiche. In effetti
elogi e stroncature sono il rovescio della stessa medaglia in un ambito
dicotomico e duale che tende sempre ad escludere terze vie.
Il bello è invece viaggiare nel testo. Questa è la via.
Lasciarsi trascinare, nell'azzeramento del ruolo di lettore re-censore,
come colui che compie gli stessi passi dell'autore e magari li completa.
Questo il senso e la direzione (si vedano le 11 note per una critica
futura di Biagio Cepollaro, sul suo blog).
Perciò, la stessa nota di Martino andrebbe ripensata e reindirizzata,
altrimenti rischia di cadere nel solito sistema censorio.
In ragione di quanto appena scritto, penso che nella sua disomogeneità
In cerca sia stato l'unico preludio possibile a Pietrisco. Lo si nota
in certi cortocircuiti tra l'analitica strutturalista e post-strutturalista
del linguista e la materia incandescente dello spirito, nella molto
poco esposta metaletterarietà, nonostante la tua cultura. Si
potrebbe parlare più di intertestualità, leggera, e non
scorbutica e invasiva (talvolta con tuoi testi precedenti: penso allo
pseudo-detto Maya de La
simmetria imperfetta, qui col titolo Movimento a pag. 51).
Insomma, hai affilato le armi per prepararti al pietrisco, per prendere
la scoria e renderla poesia. Questo è stato il preludio, un po'
più agglutinante ed inclusivo, per vedere cosa conservare e da
dove partire. Il sentiero da percorrere necessariamente.
Con stima e affetto
Luigi
Luigi Metropoli
è nato nel '79 in provincia di Salerno. È il più
tipico prodotto dell'italica
precarietà. Si autodefinisce agnostico, latouchiano, utopista
e cuoco. Ha solo tre attitudini: leggere poesie, vedere film il più
possibile introvabili e inguardabili e bere vino (con conseguenti elucubrazioni
sul prezioso nettare, noiose e sfiancanti per i poveri malcapitati che
ne subiscono l'ascolto). Gestisce il blog www.vocativo.splinder.com,
collabora con LiberInVersi,
scrive astrusi articoli enologici per l'e-zine Collettivo Soda.
La sua mail è fosfeni@hotmail.com
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