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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 81
Settembre 2006

Editoriale: Lessico o sintassi?

Stanno finendo le vacanze e questo nuovo Faranews è ricco di materiali da assaporare come frutti che hanno incamerato il sole e i temporali di agosto. Iniziamo con un saggio di Roberta Bertozzi sulla funzione paralizzante di certe frasi (ovvero sulla forza della sintassi), continuiamo con La versione a Nordest di Simone Lago, le versioni da Orazio e Hubbard di Marco Scalabrino; proseguiamo con Solo il tempo di guardare di Luca Ariano, il toccante ricordo di Maria Luisa Ripa di Emilia Dente, I di Fabrizio Centofanti, Quando finiamo di porci domande di Carolina Lio, Una stoccata in pieno petto di Armando Conti; ci attendono poi la recensione felina di Maria Rosa Pantè, il richiamo a fare deserto di Ivan Nicoletto, Piccola storia di ombre di Vittoria Bartolucci, Dopo PPP di Massimo Sannelli, Il pane non si fa con un chicco di Bernardo Francesco M. Gianni, una nota critica di Luigi Metropoli. Se scrivete racconti o poesie, vi ricordo il nostro concorso Pubblica con noi. Buona continuazione!

 

I prefer not to, o il senso invertebrato

di Roberta Bertozzi

Da Bartleby o la formula, di Gilles Deleuze (in Gilles Deleuze, Giorgio Agamben, Bartleby la formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1988). Nell’omonimo racconto di Melville, Bartleby, impiegato come copista presso un avvocato, improvvisamente cessa di scrivere e in seguito di svolgere qualsiasi altra mansione, opponendo alle richieste del suo principale una risposta tanto disarmante quanto enigmatica, "preferirei di no". Questa espressione, ossessivamente ripetuta, impedisce all’avvocato e ai suoi subalterni di prendere posizione di fronte al reticente neoassunto – li rende disabili. Frase paralizzante perché contrasta quella naturale, propria di ogni relazione, cattura del significato che possa giustificare una replica, nel bene o nel male. La formula "germina e prolifera. A ogni occorrenza cresce lo stupore intorno a Bartleby, come a udire l’Indicibile e l’Inevitabile".
Lo scrivano si pone letteralmente oltre il discorso, negando ogni obiezione, scardinando il codice comunicativo e infrangendo la presunta normalità di un paradigma linguistico condiviso. Scrive Deleuze: "La formula I PREFER NOT TO esclude ogni alternativa e inghiotte quel che pretende di conservare non meno di quanto non scarti ogni altra cosa; essa implica che Bartleby cessi di copiare, cioè di riprodurre parole; fa crescere una zona di indeterminazione tale che le parole non si distinguono più, crea il vuoto nel linguaggio. Ma disattiva anche gli atti linguistici con i quali un padrone può comandare, un amico benevolo porre delle domande, una persona fidata promettere."
Proprio in questa disattivazione degli atti linguistici sta la disarticolazione del rapporto di potere che lega l’avvocato, o chi detta, allo scrivano, o a chi copia: disarticolazione e non inversione, ossia non si crea nessuna struttura di potere inversa ma il vuoto del potere, l’annientamento del gioco delle forze: "Se Bartleby rifiutasse, potrebbe essere riconosciuto come ribelle o rivoltoso e avere ancora a questo titolo un ruolo sociale. Ma la formula disattiva ogni atto linguistico nello stesso tempo in cui fa di Bartleby un puro escluso al quale nessuna posizione sociale può più essere attribuita."
Bartleby è un rom del linguaggio, colui che adottando la logica della preferenza recide i presupposti comunicativi in cui si trova e così facendo diventa originale, refrattario all’individuazione. Esule, non comparabile e dunque non assimilabile – nuovo barbaro.

Da La fisica del senso, Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, di Andrea Cortellessa (Fazi Editore, Roma 2006), citazione da Stefano Agosti: "Per cui a un’epoca, per così dire, di langagiers (joyciani, gaddiani, poundiani, lautréamontiani) potrebbe ora sostituirsi un’epoca di syntaxiers."

Bartleby scardina la sintassi. Scardina i flussi di potere, la reciprocità a ogni costo in un orizzonte di ruoli, di a-domanda-risposta normalizzato. Cambia sintassi e dunque cambia logica, disposizione, immagine del mondo. È un syntaxier, il rappresentante di un nuovo codice, di un sistema di senso altro. Così i poeti – adottano una sintassi, si scelgono un corpo in anomalia, uno stare di sbieco, una prassi divergente. Creano zone di deficit linguistico che corrispondono a zone depressionate di realtà. Una nuova formula per una nuova barbarie: barbari che non pronunciano male le parole ma il loro nesso, che forzano lo slogamento, la scomposizione, la frattura della lingua. Che forzano il capirsi. Che trasferiscono la variante dalla parola al modo di porla (di inserirla in un contesto significante) e che di conseguenza forzano lo scrigno, la concrezione, la routine della parola – tutta quella mitologia che guarda a essa come tabernacolo, parola-evento, come ente e non come funzione, tutta quella mitologia incapace di scindere il pensiero dal linguaggio – dalla cattività del linguaggio. Ci sono zone del pensiero non verbali, non tematizzate che si traducono in posture, in stile, in resistenze alla interpretazione (alla terapia) ad ogni costo. Attivare queste zone di pensiero inverbalizzato, invertebrato, vuol dire fare un po’ di futuro. Dubito di sì.

Roberta Bertozzi è nata a Cesena, città dove vive e lavora. Laureata in filosofia con una tesi in storia della critica, collabora con il mensile «Poesia» e con diverse riviste letterarie. Ha pubblicato la raccolta di poesie Il rituale della neve, Raffaelli Editore, Rimini, 2003 e sempre per lo stesso editore nel 2004 la plaquette levatrice. È presente nell’antologia La coda della galassia, con la plaquette Orfeo, tutta la calce. Ha collaborato con Veronica Melis e i Bevano Est scrivendo il testo teatrale per El. Primo studio. Ha pubblicato due libri d’artista: Matrjoske con Amanda Chiarucci e Nostos Algos con Giampiero Guerri, stampati dall’atelier di F.&G. Guerri, Cesena. Nel 2000 ha fondato l'Associazione culturale Calligraphie. www.interno38.it

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La versione a Nordest: 3 poesie

di Simone Lago

Giardinaggio moderno

Il mio giardino ha una connessione cablata col mondo:
ne conosce gli spasmi le trasduzioni interne, s'interessa
delle falde e di questioni alluvionali, pure arcaiche
quando sfoglia le lamelle degli scisti.
Ma sa farsi calpestare e sostiene minime insolenze, tipo
una pioggia più scarsa un clima più arso, un filo
di cromo esavalente dai modi compiacenti.

Il mio giardino sta sommerso per metà
nell'asfalto ed è lambito lungo un lato dall'orlo
di uno scavo industriale. Però non si lamenta,
e sotto sotto se la ride perché ha radici
ad alta velocità e dai modi neuronali
a diffusione capillare.

Non so però se la sua rete buchi pure il pavimento
dell'amministrazione comunale, se sappia
- attraverso sensori di sbraitamento -
i nuovi intenti in fatto di permessi e concessioni,
di interventi trasformisti.

***

Mentre gli do da bere gli faccio capire che
dovrà smetterla coi pansé e prepararsi ai travi
e ai clisteri d'acque nere e acque bianche.
Gli ho consigliato pure l'alternativa wireless
per tenere i contatti con le zolle dei vicini.

 

Il Nordest è una bomboniera

(I sorpassi si susseguono in questa stanza:
cimeli della comunione e della cresima
deragliano su mensole più in alto, in seconda fila,
mentre in basso succedono avvenimenti,
quelli più nefasti)

“Che roba xea co' chea piva” fa mia madre
di fronte a un narghilé da Djerba nuovo:
“lascia stare - no - non puoi capire” e pure io
penso, dato che non ci ho mai pipato dentro
che non so come si faccia coi tocchi di carbone
e il tabacco al miele che non prende.
E un po' sorrido quando fa “mòeghea
co' chel tamburo che te sveji la nona”
ed è un bongo senegalese firmato Niass.

Ogni tanto però lo sguardo di mio padre
se avesse studiato direbbe che
quest' invasione di souvenir non fa
il nostro gioco.

Che di multiculturale c'è solo
lo sbraitare del mercante, come a Istanbul
così a Mestre,
che insomma tutti ci fanno il pane
con le cose che danno a intendere.

Ma tutto questo lo traduce in una smorfia
obliqua della bocca con un lento
dondolìo del capo;
e io lo capisco, e gli voglio bene
ma non darei due soldi alla mia versione.

Pure inutile sarebbe dire che si cresce
che c'è voglia di piantare la stalla
che nei '70 s'è fatta impresa plastica
durata finché è durato questo distretto
marshalliano;
'spiace dirlo ma i miracoli
non sono eterni e soprattutto
qui al nordest dove - insomma - si fa il pane
con le cose che si danno a intendere.

Perciò le mensole si vestono di feticci
di smanie etniche e culturali,
degli occhi svelati di una mediorientale
che prende il çay in una laterale di Haliç street.

E il sorpasso fosse allora un'inversione
di tendenza, il dire finalmente che ci siamo
rotti le palle di questi schei.
Che coi schei
abbiamo comprato le bomboniere, pagato
il vescovo e il prete quel giorno e dentro
non m'è rimasto niente, madre, che anni fa
come hai visto ti ho risposto male e maledetto,
e hai temuto facessi come Pietro Maso.

Non ci faremo il pane con la voglia d'evadere
né il montenegro in piazza Castelfranco;
probabile sì, finiremo a fare a botte in sagrato
cogli albanesi e i magrebini, a dividerci lo spazio
sopra gli eternit per guardare un po' più lontano.

 

Phlebas il facchino

Ho tante possibilità davanti tante
quante le celle vuote della tombola, o tante
quanti i cent rimasti in pila per il bingo.

Penso - dio mio - che il brivido di vincere potrebbe
smaltire la foia di sviare verso Phuket
il mio estro catechista indottrinando
le piccole lolite del posto per osmosi
alla saggezza della vecchia Europa.

***

E davvero non so cosa darei a trent'anni
per tirare dritto dritto alla pensione,
saltando liste di collocamento, sportelli dell'Umana,
e ritrovarmi al banco del Bar Stadio con la cricca
della briscola, 4 sputi agli anacardi, farsi
bastare la figa di queste parti, urlando
"Sonja! Le carte!" ridendo al doppiosenso
osceno, col marito alla spina che pensa
che è proprio tarata per il lavoro. Lei,
che arrotonda l'incasso con un giro di lingua
con un'inclinazione singolare del carattere.

***

Ma la sconfitta e l'esilio mi obbligano
al rito missionario
(d'adescamenti, regalini e modi ambigui)
che mi porta col ricordo alla mia terra
fra le altalene del costume e della bocca:
il decoro degli abiti, lo sfarzo dei lustrini
le scatologie della parola come
dire puttana a quella nella ridda che si mostra
manco per un giro in giostra.
(E sono il nonno,
sono il nonno dalla faccia buona e dalle fauci
che ti tolgono la notte il sonno. Oltre a tutto
il tuo più intonso conno)

Ma colma d'acido la sconfitta, nasce largo il bisogno
di sperdere il seme per le rive di Phuket
deflorate dai fremiti venuti di lontano, dai tremiti
per terra sottomarina o per corpi
in voli 2nd class.

Perciò dopo il drink della sera, la vista del disastro,
l'umana percezione della morte rende necessario
che la foia si estingua per terra.

***

Così, nella disfatta al gioco con la vita
c'è l'incapace che fotte la miseria della gente
lasciando la zavorra all'occidente e la sua lustra norma
concedendosi una rosa d'oriente
di una madonna lolita.

***

Mio Dio se fossi Eliot ti direi di dannarmi come Phlebas
il 26 dicembre 2004 nel più profondo degli abissi.

Simone Lago è nato a Cittadella (PD) il 24/12/1983. Vive in un
piccolo paese della provincia padovana, in una delle zone d'Italia col
più alto tasso di aziende e col più basso tasso di quotidiani letti. Studia lettere moderne e spera di laurearsi entro dieci anni; per precedenti studi di matrice scientifica non ha mai incontrato i classici, e prova una considerevole invidia per i privilegiati che possono citare i latini con cognizione di causa. Ama la novella di Chichibio ma odia il proemio del Decameron. Ama la straordinaria inventiva di un popolo quando si esprime nel proprio dialetto; odia i tormentoni e le frasi fatte, le serigrafie sulle magliette, le separazioni morfologiche tese a sottolineare la formazione etimologica di un termine. Ama i docenti che si siedono sulla cattedra o passeggiano gesticolando. Non ha pubblicato ancora nulla. Le parole dovrebbero sempre essere pubbliche.

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Quinto Orazio Flacco in siciliano e poesia di Tom Hubbard

di Marco Scalabrino

(I, 7.)

Cantassiru napocu la bedda Rodi o Mitilene
o Efeso o li mura di Corinto vagnata di dui mari
o Tebe ancora e Delfi divoti a Baccu e Apollu
o pansina la valli di Tempe; e autri,

cu puemi distinati a l’eternità
e ramiceddi d’olivu ‘n-frunti,
Atene, la città cara a la vergini Pallade;
e nun su’ picca chiddi chi, a onuri di Giunoni,

celebranu li cavaddi di Argo e la ricca Miceni.
A mia nun m’attalenta né la gnirriusa Sparta
né la flòria campagna di Larissa
ma la grutta risunanti di Albunea,

l’Anieni chi s’allavanca, lu voscu sacru di Tiburnu
e l’arvuli di frutta tutt’attàgghiu a li ciumi.
Lu biancu Sciroccu assicuta li nuvuli niuri di lu celu
ma nun sempri porta l’acqua

e tu, Planco, fatti spertu,
e arrassa la picònia e li camurrìi di la vita
cu lu vinu bonu, quannu si’ in battagghia
e macari quannu si’ a l’ùmmira di la to amata Tivoli.

Teucro, scappatu di Salamina e di so patri,
si cunta chi si misi nna li sònnura umiti
na cruna di chiùppuru e accussì parrau a l’amici:
" Unniegghiè ni porta la sorti,
di sicuru chiù benigna di me patri,
d’ora ‘n-avanti jemu, cumpagni,
cu Teucro a lu timuni e senza scantu
chì Apollu chi sulu dici la virità
ni prumisi a qualchi banna nautra nova Salamina.
Lu peggiu passau, picciotti:
a st’ura vivèmuni lu vinu e sbiugnamu li nguttumi
e dumani … via, arrè mari mari."


IX

Lu vidi quantu è biancu e autu di nivi
lu Soratti chi nun ni tennu chiù lu pisu
l’arvuli e lu ghiacciu
citrignu attassa li ciumi?
Arrassa lu friddu, Taliarcu,
mittennu ligna e ligna supra lu focu
e abbunnanti sdivaca lu vinu
di quattru anni di lu bùmmalu sabinu.
Lu restu làssalu a li dei
chi ammànzanu li venti furiusi e li mari
e li vecchi chiuppi
e li fràssini ponnu, ora sì, scialari.
Di lu futuru nun ti dumannari
e li jorna chi la sorti t’accorda
aggarratilli, comu puru li ducizzi di l’amuri
e li jochi, sennu chi si’ picciottu
e la vicchianìa smanciusa ancora addimura.
Chistu è lu tempu di li chiazzi e di l’ariu,
lu tempu di li ciuciulìi ntra la notti,
lu tempu di la carusa e di li risati,
tradituri mentri idda s’agnunìa
darrè la cantunera e tu ci ascippi
di li vrazza un pignu d’amuri,
e di li jìdita soi chi fannu finta di anniccari.

Bandusia

Fonti Bandusia splinnenti chiù di lu cristallu
cu vinu duci e ghirlanni di ciuri
dumani t’aju a offriri un ciaraveddu
cu li corna giustu giustu spuntati
ma già allungati ammeri li battagghi di l’amuri.
Ammàtula però: chì, vastaseddu figghiu
di na mànnara, lu russu di lu so sangu
avi a ‘llurdari l’acqui toi gnilati.
Tu chi lu chiù tintu càudu
nun ti tinci, tu chi arricrìi
li tori stanchi di lu vòmmiru
e li pecuri quannu si sbànnanu,
tu macari arresti pi sempri
sennu ca ju cantu l’ìlici ‘n-capu dda rocca
d’unni l’acqui toi,
carcariànnusi, scìddicanu.

***

THE NIPMUCK TRAIL
(di Tom Hubbard )

He who guides others better than himself
Finds in his wanderings a sore enjoyment.
It seems he parts from those who respect him and even love him,
As from those who despise him; where is the difference?
He is the silent scout, his gestures seen from afar
Through the barring branches of the forest of centuries.
And could it be, even now,
He is visible still, at the rise and turn of the path,
At the service of his sometime followers?

I praise those, of whatever nation,
Who have joined the dance of the sun as it patches itself down into
the stream,
Who have shed the worn unnecessary letter upon the sedge:
– Even such was she, master of all the arts
Learned in the open, a woman calling and loving:
Oh pearl, oh grace, what man could hold you and then retreat?*

We always fail them. They barely show the hurt.
But I have tasted the sweet scented tears seeping from that rock,
And its unhealing fissure that was perhaps worshipped here;
By the rude bridge that links two ends of this unending path,
I have looked tenderly at the solitary poppy among the reeds
As at my small inscrutable son at the other side of the ocean.

This, the trail of the Nipmuck tribe,
Is their ancient ground of my New World.
My nation scouted out theirs,
Scouted and scalped.
And have I not also heard
How a hundred years ago, far south and west,
Captive Geronimo learned our counter arts,
Sold photographs of himself for cents to tourists;
Today he’d run a casino, donate to charity,
Field accusations of unfair competition
From the everly-blonded New York millionaires.

Yet here, I have joined a sadly welcoming dance of ghosts,
Winding through the elements. There is a brief bitter love between us,
That disperses in dust and smoke even as I wander on.
So must I strip down at the bankside as to a mingling death and birth:
Oh lovely Indian water, we flow nakedly together.

* See Nathaniel Hawthorne, The Scarlet Letter.

LA PISTA DEI NIPMUCK

(di Tom Hubbard: versione in Italiano di Marco Scalabrino)

Chi guida gli altri meglio di come guida se stesso
trova nel suo peregrinare un dolente godimento.
Egli sembra separarsi da coloro che lo rispettano e lo amano
così come da coloro che lo disprezzano; dov’è la differenza?
È l’esploratore taciturno, i suoi gesti
filtrano attraverso i fitti rami della foresta dei secoli.
E potrebbe essere
che egli sia tuttora visibile, ad ogni piè sospinto del sentiero,
al servizio dei suoi seguaci di un tempo?

Io elogio quelli, di qualsiasi nazione,
che hanno raggiunto la danza del sole mentre esso infrange la sua luce nel sottobosco,
che hanno sparso l’esausta, superflua parola sul falasco:
– Proprio come era lei, padrona di tutte le arti
imparate all’aperto, una donna che ama e declama:
Oh perla, oh grazia, quale uomo potrebbe possederti e dopo abbandonarti?*

Noi li tradiamo ognora. Loro mostrano con riserbo la ferita.
Ma io ho assaggiato le dolci inebrianti lacrime che sgorgano da quella roccia,
la fenditura giammai sanata che forse lì fu venerata;
presso il rudimentale ponte che collega i due estremi di questo passo senza fine,
io ho guardato teneramente al papavero solitario tra le canne
come fosse il mio piccolo inscrutabile figlio all’altro lato dell’oceano.

Questa, la pista della tribù dei Nipmuck,
è il loro antico suolo del mio Nuovo Mondo.
La mia nazione s’è fatta beffe della loro,
l’ha imbrogliata e derubata.
Sappiamo tutti
di come cento anni fa, nel lontano Sud Ovest,
il prigioniero Geronimo, fatte sue le nostre controverse arti,
fu ridotto a vendere foto di se stesso ai turisti per quattro soldi.
Oggidì egli dirigerebbe un casinò e farebbe beneficenza:
confuterebbe le accuse di impari competizione
alle bellone bionde che si strusciano ai milionari di New York.

Ma qui, io mi sono unito a una triste danza di benvenuto di fantasmi
che fischiano tra gli elementi. C’è un breve amaro amore tra noi,
che si disperde nella polvere e nel fumo persino mentre continuo a vagabondare.
Così mi spoglio, giù all’angolo della banca, in una mistura di morte e di vita:
oh fresca acqua indiana, noi fluiamo puri insieme.

* Vedasi Nathaniel Hawthorne, La Lettera Scarlatta .

Marco Scalabrino è nato a Trapani nel 1952. Poeta (Palori, 1977; Tempu , palori aschi e maravigghi, 2002), saggista, traduttore ha pubblicato anche commedie in siciliano. Per una più esaustiva presentazione si rimanda al sito www.vaidiqua.it/scalabrino

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Solo il tempo di guardare

di Luca Ariano

Solo il tempo di guardare
le lancette di quel vecchio orologio
per accorgerti che i figli crescono,
se ne vanno.
L’hai visto lì in quella strada
che si inerpica sopra i laghi
dove il cielo si copre in un soffio
e le persiane sbattono d’improvviso.
Non riempirai il letto in una notte
e quella riga sulla pelle non la sutureranno
i profumi e i colori d’una fattoria
perché poi sempre tra case e palazzi
dovrai tornare.
Si scuote la tenda ed è l’ora di compilare
quel quadernetto di carta profumata.

Luca Ariano è nato nel 1979 a Mortara (PV), vive tra Vigevano e Parma. Ha pubblicato nel 1999 la raccolta di poesie Bagliori crepuscolari nel buio presso Cardano di Pavia. Numerose sue poesie sono apparse su riviste e siti letterari tra cui Frontiere, Faranews e FuoriCasa.Poesia e su antologie tra cui Oltre il tempo/Undici poeti per una Metavanguardia, curata da Gian Ruggero Manzoni per le Edizioni Diabasis (2004) e La coda della galassia, a cura di Alessandro Ramberti, FaraEditore (2005). Collabora con il sito internet Pagina Zero, Il Foglio Clandestino e La Clessidra ed è tra i redattori della rivista Ciminiera. Nel 2005 è uscita la sua seconda raccolta di poesie Bitume, con la prefazione di Gian Ruggero Manzoni, per le Edizioni del Bradipo di Lugo di Romagna.

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Nelle stanze scure del dolore, una luce
Ricordando Maria Luisa Ripa

di Emilia Dente

Nel percorso esistenziale di molti esseri umani ci sono spazi e tempi in cui il malessere si annida e striscia insinuoso nel corpo, silenzioso radica nella mente e nell’anima. Ci sono attimi eterni in cui l’inquietudine soffoca i pensieri nei cunicoli dell’incertezza ed incrina lo specchio lucente dei giorni. Ci sono momenti come lame sottili che incidono sulla pelle ferite profonde, scavano voragini e tracciano sentieri tortuosi forzando il passo dolente della vita. È l’esistenza umana… il cammino di ciottoli e luce, la via di ombre e passioni, la vita, la vita, con i suoi incubi e i suoi sogni, le sue angosce e le sue gioie. È la vita. Ogni individuo, unico protagonista di una storia infinita, solleva a suo modo gli stentati passi nei solchi della dolorosa via. Egli forse arranca inseguendo promesse e ricordi oppure si arena sulle righe di diagnosi infauste; egli forse trascina fardelli di speranze mettendosi in fila per un sorriso o, ribelle, inventa nuovi cieli aggrappandosi a timidi raggi di sole. È allora, negli spazi e nei tempi del malessere, che l’uomo si scopre solo e piccolo, è nella sofferenza la necessaria intuizione che la luce spesso bisogna scavarla dentro, nella roccia viva dell’anima, per illuminare il passo.
Io, una e tanti, in bilico sulla soglia dell’essere, ho cercato una strada, ho scelto la mia strada per attraversare le stanze scure del dolore. In un labirinto di tristi pensieri ho trovato il filo sottile che mi ha condotto alla luce: la parola, la scrittura, il dialogo con me stessa, con i figli, con gli affetti più cari, con la vita, con Dio.
Io, una e tanti, nei corridoi di un ospedale, sola, a dialogare con il dolore.
Catene di parole per liberare la mente e l’anima prima dell’implosione fatale.
Un foglio stropicciato allora diviene sindone candida a cui inchiodare urla soffocate e pianto e disperati silenzi. Pagine pallide stese al sole come lenzuola bianche su cui intrecciare passato e futuro ricamando l’eternità della vita. Fiumi di emozioni che scrosciano rapidi, impetuosi, rompendo i quieti argini della “normalità”.
Lungo la strada tante luci compagne, donne soprattutto, madri della vita artigliate ad aquiloni di parole. Una per tutti, viva, oltre la sofferenza, il vuoto e l’assenza: Maria Luisa Ripa, artista irpina, eclettica e completa, donna di luce e poesia. Il suo testo poetico, Parole dal silenzio, diario dei lunghi periodi di degenza in ospedale, è il faticoso cammino verso un’alba nuova. Nelle tenebre di un male che, impietoso, trasforma il corpo e lo consuma, la scrittura diviene luce, speranza e respiro. Le parole e i disegni dell’Autrice sono specchio dell’essere e cristallizzano le emozioni in un eterno canto di vita che neppure le morte osa sfiorare: "Le parole scorrono / nel silenzio / come scorre il sangue / nelle vene / danno vita a versi che si stemperano / in poesia /e la poesia, profondo moto dell’anima / diventa / la barca che ci porta su altre rive / e verso la speranza della vita."
Sulla barca delle parole, Maria Luisa resiste alle maree furiose della sera e veleggia verso luminosi orizzonti, orizzonti autentici, veri. L’essere nudo infrange le onde del male ed approda su spiagge di pace.Ella supera la fisicità di un corpo martoriato e, consapevole della sconfitta e della vittoria, naviga fiera oltre l’illusione della vita e verso la vita vera nel respiro eterno in cui la donna ha guarito l’anima, ha trovato la serenità e la forza per non lasciar morire i pensieri insieme al corpo e per essere ancora oggi, sempre, luce di vita.
Dono generoso ed importante questo foglio di viaggio lungo le tappe di una malattia che tante donne avvelena ed uccide. Messaggio di solidarietà e coraggio per quanti restano prigionieri alle radici del male. Dono di immenso amore che Maria Luisa offre alle tante “sorelle accucciate, raggomitolate” nei letti disfatti di un tormento.
Lo spasimo del corpo, l’Autrice lo sa bene, lo testimonia, lo documenta, con parole e disegni, le cicatrici, i tagli, gli sfregi aprono valichi impervi che conducono all’Essere, valichi che portano lontano. E da qui, dall’oltre, dal lontano bisogna ripartire per attraversare la soglia o per percorrere la lunga strada per tornare.
Io, una e tanti, sulla strada del ritorno, propongo una ultima riflessione a quanti sono in cammino e soprattutto a coloro che si adoperano per il loro benessere: il corpo ha il suo percorso, i suoi tempi e i suoi limiti, il corpo si può curare, può guarire, può sopravvivere ai giorni, ma ha sempre la sua gravità, il suo peso, la sua inevitabile precarietà, tracce pesanti che sono necessario contrappeso alla levità del soffio di eterno che ognuno di noi porta in sé.
A volte, molte, troppe volte, viene curato solo il corpo, vengono medicate solo le ferite della pelle, le cicatrici visibili e superficiali.Quelle cicatrici, quei “segmenti incisi sulla pelle (sono) burroni dentro il cuore” e restano il segno visibile di voragini paurose in cui sprofondano, oltre alle sensazioni fisiche dei travagli, pure tutte le parole dette e non dette, la solitudine, l’incomprensione, l’indifferenza, pure, purtroppo, a volte, l’arroganza e la superbia di chi quel dolore lo deve lenire e invece, per superficialità, o per cinica indifferenza, lo aggrava e lo pietrifica nelle grotte del cuore. E tutto, nei tempi lunghi della mente, poi torna alla luce e diviene tormento. Questi i fossi in cui si precipita, questi i temporali sulla strada del ritorno. Queste le ferite che lacerano l’anima, sprofondano tra le pieghe del tempo e sbiadiscono ed offuscano il sogno della vita che non si è capaci, da soli, di colorare più.

Giugno 2006

Emilia Dente

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I

di Fabrizio Centofanti

I
la paura sottostante, la pineta, e l'ombra
onnipresente della madre, nelle grida violente,
l'impressione di scavare in una pietra,
l'ultima versione: il rumore e il clangore,
nonostante. la domanda, perché, perché tre volte
– come se ci fosse una ragione – l'onta, il bisogno di lavare,
di distruggere il muro della pelle. di tutto,
rimane quel recinto, e il pino,
l'insensato silenzio delle stelle, come in sogno.

Fabrizio Centofanti è laureato in Lettere moderne con una tesi su Italo Calvino. Sacerdote diocesano a Roma dal 1996, opera soprattutto nel campo della spiritualità e dell'approfondimento della Sacra Scrittura. Ha pubblicato due volumi su Calvino e Rebora, oltre a numerosi saggi e articoli di natura letteraria. Nel 2005 è uscito il volumetto Le parole della felicità (Laurus Robuffo).

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Quando finiamo di porci domande

di Carolina Lio

1. La torta dell'imperfezione

Lui non veste bene, non parla di arte e cultura,
non ha una casa ordinata e pulita, una tv tutta sua,
non ha una famiglia inquadrata, non ha un fisico asciutto,
cammina pendendo da un lato, ha il petto ricoperto di peli,
gli cresce troppo in fretta la barba,
mette sempre le stesse solite scarpe,
inciampa nelle parole, cade dal letto la notte,
arriva agli appuntamenti troppo in ritardo,
non salda i suoi debiti e mangia sempre biscotti.
Poi mi poggia la testa sul petto, mi chiede cosa è giusto e sbagliato,
e sento il suo amore nel corpo, e sento il suo naso sul collo,
la sua fronte soffice, le spalle larghe e pesanti,
le labbra grandi, la lingua lunga e le mani fredde,
e nessun altro uomo cammina più per la strada,
nessun altro uomo ha più un filo di voce.


2. La storia tra Giorgio e una come me

La cattiveria di mia madre nello schiaffeggiarmi col la verità
è insostenibile questa volta che non le ho chiesto nulla,
non le ho detto niente, e ha capito ad ogni modo tutto su Giorgio.
- Cosa ti importa di Giorgio, mamma? Non hai niente altro a cui pensare?
Ma lei ha capito in quelle due volte che hanno parlato
e tra le poesie che ha trovate sparse sul pavimento del bagno,
che Giorgio è uno che si illude su di me e che mi cerca perchè non ha di meglio.
Mi ha detto in faccia che se davvero ha avuto una donna bellissima
allora non potrà mai affezionarsi a una come me.
mi ha sempre detto, insomma, come stanno le cose, mia madre,
fregandosene di tutte le crisi che mi ha provocato e delle mie paure.
Ho iniziato a gridare di smetterla: io e Giorgio siamo scrittori: è l'unico legame.
E lei non distraeva il suo sguardo di pietà sul mio corpo in piedi davanti la credenza.
Mi ha ancora detto, quando mi sono seduta per terra, vicino a lei:
- Credi che ti voglia bene, ma non è così. Forse ne è convinto,
ma niente altro per una come te; gli uomini sono fatti così.
Una come me, non so bene cosa voglia dire, ma sono anni che mi sento chiamare così,
e forse è il mio vero problema, forse è tutto in quelle tre parole.

Carolina Lio, nata nel 1984 a Cosenza, vive tra Treviso e Bologna, dove si sta laureando in Scienze della Comunicazione. Lavora come critico e curatore d'arte contemporanea per testate specializzate e gallerie private. Si interessa soprattutto sull'interazione tra fotografia, arte digitale e video. Ha pubblicato racconti e poesie su riviste e raccolte, lavorato in pubblicità come copy writer e come sceneggiatore per teatro e radio. Si occupa occasionalmente di critica letteraria e cinematografica.

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Una stoccata in pieno petto

di Armando Conti

– Scusa!
Io, accovacciato in un angolo nell’attesa dell’incontro, mi riscossi. Nel vocìo del palasport, sollevai lo sguardo verso una ragazzotta infagottata in una tenuta da gara troppo larga. Abbracciava un borsone più grande di lei che le cascava da tutte le parti e mi guardava imbronciata.
– Mi puoi aiutare? – chiese, scaricando il suo borsone accanto al mio. Si girò, mostrandomi il groviglio di filo elettrico che le pendeva dal giubbotto e il rullo che si trascinava dietro. Di lì a poco sarebbe iniziato il torneo femminile e chissà come era riuscita a combinarsi in quel modo. L’aiutai a sgarbugliarsi e, infastidito com’ero, non feci caso a quel che l’altoparlante stava gracchiando.
– Oh, mi chiamano! – si meravigliò. Sorrise, poi fece una bracciata di tutta la roba che aveva sparso attorno e scappò. Poco dopo vennero a dirmi che avevano chiamato anche me. Corsi alla pedana, dove il mio avversario era già pronto. Mormorai una scusa e, mentre l’arbitro aspettava impaziente, posai il borsone e aprii la cerniera. Lì per lì ci rimasi di sasso, ma mi ripresi immediatamente e cominciai a frugare nel viluppo di biancheria che ne debordava. La prima cosa che mi capitò tra le dita fu un reggiseno, che subito rificcai dentro. Tastando nel mucchio, finalmente sentii la spada; con un sospiro di sollievo la tirai a me, ma la lama s’impigliò e un pacchetto cadde sul pavimento: erano assorbenti. Tra la gente che si era radunata intorno corse qualche ghigno. Rosso in volto, salii in pedana senza guardare in faccia nessuno.
Si può immaginare con che spirito affrontai l’assalto e come andò a finire. Subito dopo, andai a cercare quella pazza ma, nella confusione, non riuscii a trovarla. Così, quel giorno, ci guadagnai un’eliminazione precoce, una borsata di biancheria femminile e, al posto delle mie due splendide lame francesi, una sola spada malfunzionante.

– Il mese scorso hai rubato tutta la mia roba…
Mi voltai e tra il via vai della palestra riconobbi il mio borsone. Lei, che me lo stava porgendo, invece, non l’avrei mai riconosciuta. Non solo era più grande di quanto mi fosse sembrata, ma, mio malgrado, dovetti constatare che era anche carina. Mi guardò compunta, poi s’allargò in un sorriso:
– Spero almeno che la mia ti abbia portato fortuna. La tua, a me, un po’ ne ha portata. Guarda!
Lasciò cadere il mio borsone, aprì la cerniera, frugò nel disordine e mi mostrò un foglio stropicciato.
– Guarda la classifica! – e indicò un nome nelle ultime posizioni – Prima ero sempre ultima!
Senza dire altro rovesciò tutto per terra e, prima che potessi fermarla, fece altrettanto con quello che avevo portato io; rovistò nel mucchio, raccattò alla rinfusa la sua roba e filò via.
Questa, lo sentivo, era la volta buona. Quattordici pari: una stoccata e sarei entrato in semifinale e poi via, verso la finale. In quel momento lei passò alle spalle del mio avversario. Si era già cambiata e camminava mogia verso l’uscita. Appena mi vide s’illuminò in viso e s’accoccolò per terra. L’arbitro disse “a voi!”. Lei sorrise e mi salutò con le dita della mano. Notai come socchiudeva gli occhi e non mi accorsi della stoccata che mi arrivò in pieno petto, dalla parte del cuore.

Non la incontrai per diverse gare e anche quel giorno, prima di entrare nel palasport, mi guardai bene in giro. Non la vidi e tirai un sospiro di sollievo. Passai brillantemente i gironi di qualificazione, la prima, la seconda diretta. Mi accingevo a salire sulla pedana per la terza, quando arrivò lei tutta affannata.
– Ti prego... devo entrare nelle semifinali e ho bisogno del portafortuna! – implorò, e io subito non capii. Quando finalmente compresi, stava già scappando con la mia spada.
– Grazie! – mi urlò.
Lei entrò in semifinale e fu il miglior risultato della sua carriera; io no. Ero furibondo. Lei invece arrivò raggiante e si alzò in punta di piedi per darmi un bacio. Si accorse che ero scuro in volto.
– Stavolta ti meriti un premio... – mi disse, e quella notte nessuno di noi due tornò a casa.

Forse, in fondo, avrei preferito vincere la coppa, e forse fu per questo che non la cercai, né mi feci trovare. Eppure, il mese dopo, quando la rividi a un torneo, ne fui contento. La osservai mentre mi veniva incontro e la trovai bella. Era in tailleur e aveva con sé solo la borsetta.
– Non tiri, oggi? – le chiesi, dopo un rapido bacio.
– Sono incinta.
Cappotto. Come se un arbitro mi avesse decretato la sconfitta per 15 a 0.

Che dire? Se c’è una cosa che lo sport mi ha insegnato è non fuggire davanti alle responsabilità, e le cose sono andate come dovevano andare.
Con i gemelli non c’è stato più tempo da dedicare alla scherma. Crescono bene e, a parte il disordine per casa, tutto sommato siamo una bella coppia. Lei è radiosa e parla ancora con tutti dell’amore nato per caso sulle pedane di gara. Poi si gira verso di me e sorride:
– Siamo felici, vero?
– Sì, cara – le rispondo. Ma, per un attimo, un’ombra mi sfiora la fronte. Maledetta, se non era per te, a quest’ora sarei alle Olimpiadi.



Armando Conti
, nato nel 1959, vive nella provincia di Parma, dove svolge l’attività di geologo. Ha pubblicato articoli scientifici e lavori sulle tradizioni e la cultura locale. Con noi ha pubblicato Stati di nebbia e altri racconti.

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Su Vita del gatto Romeo detto anche Meo di Angelo Mundula
Ed. Spirali, 2005

di Maria Rosa Pantè

L’ultimo libro del poeta sassarese Angelo Mundula, edito da Spirali, è, come recita il sottotitolo, un libro di “versi per un gatto speciale che meritava miglior padrone”.
Il libro, dunque, è dedicato a un gatto, Romeo, detto Meo: la sua fotografia campeggia all’inizio del libro; è un bel soriano dal cipiglio ardimentoso. I versi sono impreziositi dalle illustrazioni coloratissime di Saverio Ungheri e da altre riproduzioni di quadri il cui soggetto unico è sempre il gatto.
Questo felino è spesso e da sempre ispiratore di versi poetici (Tasso, Baudelaire, Eliot tanto per citare esempi illustri), giacché questo animale ha molto della poesia: il mistero, l’essenzialità, il selvatico amore, l’indomabilità e anche la giocosa inafferrabilità. Romeo, che comunque ha avuto nel poeta più che un padrone un compagno di vita, riassume in sé tutte queste caratteristiche. Del gatto ha insomma vizi e virtù.
L’autore, attraverso il ritratto di Meo, che ogni gattofilo apprezzerà per il realismo, l’acutezza e l’accuratezza delle osservazioni, o addirittura grazie alla presenza del felino, ci parla anche d’altro: del mistero della vita, della morte e della sopravvivenza dopo di essa. Scrivere di Romeo è infatti farlo sopravvivere oltre la sua scomparsa: la poesia qui si fa memoria, uno dei suoi “compiti” essenziali.
Il poeta dunque, scrivendo del suo amico gatto, ci parla dell’inutile affaccendarsi umano, in contrasto con l’apparenza distratta e assente del gatto che “fabbrica nella sua mente/ infinite gattolerie” e dice: “Io soltanto vedo scorrere la vita mentre scorre/ ne conosco il segreto ma non lo dico” (p. 58). Parla del relativismo d’ogni nostra velleità umana: “Siamo nati per l’eterno e per grandi imprese / ma basta un niente appena il fiato d’un animale / a mutare per noi il senso dell’universo” (p. 13).
Non basta, il poeta arriva a dire la sua (o del gatto?) anche sulla poesia, sulla parola poetica quasi un miao che si afferma in un mare di parole superflue: “quel/ suo miao interrompe da sempre / il nostro parlar quotidiano / nessun vocalizzo al mondo è più ricco di senso / e più raro” (p. 21).
Romeo è, però, pur sempre un gatto (e il ricordarlo è un merito di Mundula poeta, ma anche gattofilo): suscita le ire del padrone, che subito si pente delle sue reprimende e sente il ridicolo della sua agitazione. Anche questo insegna il gatto: a vedere cosa è davvero l’essenziale, a guardare oltre le apparenze. “Tu / sei quello che hai voluto essere/ senza guardare né in alto né in basso / ma dentro cercando (anche tu!)/ te stesso, chissà perché” (p. 31).
Leggere le gesta di Meo mette allegria, perché il poeta ha il merito di toccare temi fondamentali con lieve ironia e uno sguardo sempre pieno d’affetto. Anche il canzoniere di Meo (mi si passi l’accostamento ad un altro Canzoniere) ha una parte in morte e una in vita. Così nelle ultime liriche il tono si fa via via più sommesso, nostalgico, si assiste al declino non solo d’un gatto, ma d’un misterioso e affettuoso compagno. Nella bella lirica “Romeo è invecchiato” gli accenti sono leopardiani per la coscienza della natura che tutti accoglie in un destino comune; ma il poeta torna subito alla visuale del gatto, a toni più realistici, all’occuparsi del pasto e “del piccolo lago della pipì” (p. 64).
Alla fine Romeo muore. La sua morte è descritta con una sobrietà, un silenzio che rende il dolore straziante: “No, nessun commento / né pianto, nulla di più / dell’avvenimento. Romeo / è morto nient’altro” (p. 66). La morte è una, come il dolore, e per tutti, è un evento troppo serio per inquinarlo coi miao o le parole.
Ma è morto davvero? Sembra che il primo a dubitarne sia il poeta stesso. Forse Meo è un gatto universale, il tono si fa biblico: “Se un gatto ha sette vite Meo, gatto speciale, / ne ha avute (ne avrà?) sette volte sette” (p. 73).
Se invece è davvero morto ci sarà, questo è l’ultimo auspicio del poeta, senz’altro un “piccolo spazio” un aldilà del gatto, di questo Romeo che ha finito per divenire tanto simile al suo padrone (o viceversa?).
Infatti nelle liriche in morte dell’amato Meo si assiste a quella sovrapposizione, alla identificazione tra uomo e gatto adombrata lungo tutto il libro. Nella breve poesia Ritratto, il ritratto è appunto di Meo, ma dietro lui, attraverso lui, del poeta. (p. 68)
Benché sempre Mundula abbia evidenziato la differenza tra uomo e gatto, alla fine l’affetto, come sempre accade, fa superare quella che in fondo è una barriera molto labile: “Abbiamo respirato la stessa aria!”
Le liriche hanno tutte un ritmo vivace, segnato dalle frequenti rime interne che sottolineano momenti ilari e malinconici, sentimenti dell’uomo e del gatto. Concorrono al risultato poetico molto originale e di grande fascino, le ripetizioni, le anafore, le rime forti con la parola gatto, le allusive allitterazioni. Quando ci descrive le fusa di Meo, Mundula non esita a creare un verso gradevolmente onomatopeico: “fa le fusa. Le fa…” (p.48). Non esita nemmeno a scomodare il padre Dante quando nella poesia Bentornato, Meo cita: “Bentornato Meo, dalla bianca città / delle tue scatole: questo è il massimo / viaggio che fai per l’altrui scale” (p. 51).
Ne Il cavaliere antico il ritmo fortemente spezzato, i frequenti enjambement rendono bene l’agile cavalcata del gatto in corsa.
Arricchiscono la scrittura poetica di Mundula le metafore ardite e spesso suggerite dalla natura metafisica del gatto: “o gatto che ogni volta scruto come fosse la / prima volta o gatto direttissima mia piccola / parola accesa nella notte nel dormiveglia” (p. 46).
La chiave del libro, del rapporto tra uomo e altro da sé, il gatto, sta nello sguardo dell’animale, ben lo sanno coloro che sono legati a qualche micio: “Chi non conosce lo / sguardo di un gatto non potrà mai capirmi / fino in fondo, perché un gatto non guarda / mai soltanto per vedere guarda per / interrogare per chiedere per avere una risposta / per darla come chi sappia tutte le leggi / del mondo e dell’uomo e se ne senta / al di sopra con tutta l’ironia della sua / specie col suo insuperabile understatement” (p. 26).

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Camaldoli 23.7.06. 16a domenica/b
Ger 23,1-6, Ef 2,13-18, Mc 6,30-34,

di Ivan Nicoletto (monaco camaldolese)

Un amico mi ha raccontato di aver fatto una visita a Monza, lo scorso maggio, al museo del postumano. In genere un museo raccoglie reperti archeologici del passato o immagini delle epoche trascorse o al massimo di artisti contemporanei, mentre in questo spazio un gruppo di artisti hanno inscenato il futuro della nostra civiltà. Hanno immaginato di vedere, con gli occhi dei nostri discendenti, i resti della nostra umanità e del pianeta terra dopo che si è autodistrutto a causa di processi irreversibili che la stirpe umana stessa ha innescato. Di qui il nome del museo, postumano, per indicare ciò che viene dopo la scomparsa della specie umana. Attraverso video, sculture, dipinti, fotografie, musiche, questi artisti hanno cercato di far luce sulle cause che hanno portato all’estrema catastrofe della civiltà: l’inarrestabile e onnivoro sviluppo economico, l’abbruttimento del cuore umano, la devastazione indiscriminata dell’ambiente, guerre disastrose di predominio per l’accaparramento delle risorse…
I nostri amici visionari compiono un’operazione in puro stile profetico! I profeti si fanno spesso portavoce di catastrofi imminenti come un antidoto preventivo prima che gli eventi precipitino, prima che sia troppo tardi…
"Venite in disparte – ci invita oggi il vangelo – in un luogo solitario, e riposatevi un po’."
Mi sembra una terapia dell’anima appropriata per cambiare corso al processo di distruzione che abbiamo avviato sulla terra e tra gli umani. Riposatevi un po' in mezzo alle accelerazioni della vita, alle frenesie del produrre, del competere, del difendersi, del contrastarsi, dello sfruttamento illimitato… ritmi che sembrano condurci sull’orlo di un abisso, in un vicolo cieco e spesso disperato, pieno di infelicità: Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde l’anima?
Quando le sorgenti della speranza e della fiducia si sono essiccate di che cosa ci disseteremo? Quando il sale perde il sapore, come troveremo gusto? Quando non si ha più nessun pastore che ci fa intravedere prati di senso, orizzonti di felicità, momenti di quiete, che cosa ci resta da fare?
Reggeremo al vuoto che abbiamo creato intorno a noi e dentro di noi?
Da quando il progresso e il giusto profitto mettono a disposizione di ogni essere umano, a cifre ragionevoli, congegni di sterminio personale e di massa, il suicidio è diventato una tendenza principale del nostro tempo. Uccidersi e uccidere, smembrare, bombardare, massacrare, fare strage, abbattere, disgregare sembra l’energia che nel mondo evoluto ed efficiente in cui viviamo viene fornita a domicilio come l’acqua, il gas e la televisione… E non è un fenomeno che riguarda solo gli zelanti fondamentalisti islamici che si fanno esplodere, ma attrae frotte di giovani liceali foruncolosi, gente comune delle periferie cittadine, mamme o papà di provincia o di paese.
È odio aggressivo quello lanciato da capi di governo, da industriali, da generali, da capi religiosi, dai protettori dell’integrità…
"Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’."
Il vangelo ci invita a fermarsi, a fare dei respiri profondi, ad allentare la pressione del fare e del produrre, a disinnescare le cariche di risentimento, a deporre per un istante il peso delle preoccupazioni e delle ansie, a scoprire laghi di inoperosità, a regalarci prati di silenzio, brezze di ascolto, rugiade di amicizia, aurore di affidamento…
Soprattutto, Gesù ci invita a rivolgerci alla Sorgente che anima tutte le forme viventi, sorgente che è Padre, Madre, amico, amante… come canta un’antifona del salterio:
“Venite alla sorgente, voi che avete sete, cercate il Signore, ora si fa trovare” (557).
"Ora si fa trovare". Non dobbiamo fare nessun lungo viaggio, né acquistare nessun biglietto o incolonnarci in nessun casello autostradale…
"Venite in disparte", venite al cuore del vostro cuore, alla Voce che parla dal cuore e rivela a ciascuno di noi di essere amato e amabile prima di ogni nostro fare, meritare, dire o produrre.
Voce amorosa che scioglie le mura difensive e minacciose della paura, ci disarma, ci immerge in un silenzio che diventa spazio accogliente…
C’è un’altra bellissima immagine evangelica che oggi ci rinfresca e ci disseta, quella degli uccelli del cielo che non mietono e dei gigli del campo che non tessono.
Per il pastore luterano Søren Kierkegaard, essi sono i nostri maestri nell’arte del silenzio e dell’ascolto.
L’uccello del cielo e il giglio del campo tacciono e attendono.
Non chiedono: "Quando verrà la pioggia? Quando avremo il sole? Come sarà l’estate? Ma tacendo vogliono farci percepire che siamo davanti a Dio, che dovremmo diventare silenziosi davanti a Dio, cosa che in genere dimentichiamo del tutto quando ci affanniamo e discutiamo."
E Kierkegaard, concludendo, si rivolge a ognuno di noi:
"Che tu, nel silenzio, possa dimenticare il tuo nome per poter pregare Dio in silenzio: Sia santificato il tuo nome!
Che tu, in silenzio, possa dimenticare te stesso e i tuoi piani grandiosi, per pregare Dio in silenzio: Venga il tuo Regno!
Che tu, nel silenzio, possa dimenticare la tua volontà per poter pregare nel silenzio: Sia fatta la tua volontà!
Cerca prima il Regno di Dio, cioè diventa come il giglio e l’uccello
cioè diventa silenzioso davanti a Dio, così ti sarà dato tutto in sovrappiù."

Ivan Nicoletto (Vò Euganeo - Padova, 1958), monaco all'Eremo di Camaldoli, si è laureato in filosofia all'Università di Padova e si è licenziato in teologia alla Pontificia università gregoriana di Roma. Accanto ai servizi che svolge nella propria comunità, si interessa principalmente dell'intreccio tra fede, pensiero ed espressione artistica.

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Piccola storia di ombre*

di Vittoria Bartolucci

L'OMBRA

Accanto a me
la mia ombra
nel sole cammina
sull'asfalto azzurrina
coi piedi fissati
alle mie stesse scarpe
36-37
E potrebbe volendo
essere l'ombra di un'altra
con lo stesso mantello gli occhiali i capelli
l'andatura un po' incerta la borsa la spesa…
se non fosse
(le coincidenze sarebbero troppe)
per quell'irrequieto (quasi un tormento)
fumetto-pensieri (un po' folli un po' dolce amari)
che le vedo io sola (ora a sinistra ora a destra)
attaccato alla testa


QUASI PENOMBRA

E ora è già qualche giorno
mi sembra a volte mentre cammino
un po' sbiadita sfuggente quasi penombra
o se la guardo stando seduta
come un piccolo cane accucciato
che ne ha incontrato per strada
un altro
molto molto più grande
E spero che non stia meditando
di rendersi
all'improvviso una mattina di queste
chissà latitante


LATITANZA

Dove va un'ombra quand'è latitante?
In spazi sembra a noi sconosciuti
in cui stranamente si dice un'ombra
che altro non è che un'assenza
può imporre la propria presenza
Quanto a chi resta senza di lei
sappiamo
che a disagio procede
chiedendosi a tratti
se è dovuta la sua sparizione
al sole che in verticale con la sua testa
sembra latitante a sua volta
oppure al poco peso (l'inconsistenza)
della propria esistenza
E pagherebbe (se l'avesse)
sino a un milione per vederne
dalle sue scarpe
sull'asfalto spuntare (come i suoi spettinati)
anche soltanto i capelli


RITORNO

L'altra sera poi è tornata
e per sorprendermi forse
mica ha aspettato
un giorno di sole:
all'improvviso è spuntata
mentre tornavo dal centro
procedendo un po' spaventata
per strade stradine scalette in discesa
e sentendo inquiete alle spalle presenze
affrettavo i miei passi
È tornata sotto un lampione che anzi
essendo dotato di più di una lampada sola
a un tratto
ne ha proiettate sopra l'asfalto tre copie
o forse anche quattro
che come bambine un po' saltellanti
di fianco di dietro davanti
mi si aggrappavano addosso
Quasi quasi le ho detto
mi hai fatto paura Non c'è bisogno
che per farmi sapere
che sei ritornata
ti faccia in quattro per me!
Ed è così
che col fumetto-pensieri
attaccato alla testa
di nuovo da allora
accanto a me nel sole
la mia ombra cammina
anche se sarà un'impressione mi sembra
che più di prima il suo procedere sia
un po' titubante

* È in realtà la storia, scritta in momenti successivi, di periodiche frequentazioni, di forzati abbandoni e ritorni della Poesia (o di qualcosa che un po' le somiglia).

 

Vittoria Bartolucci è nata ad Asmara e dopo aver vissuto in varie città d'Italia, abita a Perugia dal '71. È laureata in matematica e si dedica sia al disegno(in particolare all'illustrazione di libri e all'umorismo grafico) sia alla scrittura. Ha pubblicato: "Agrodolcemente"(poesie e racconti,Premio S.Penna '88),"Connotazioni corrispondenze universi"(Premio S.Penna '98),"Due rami per un'altalena","Pezzetti di carta".E' presente in varie antologie(alcune delle quali da lei stessa curate) e riviste.

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Dopo PPP*
questo saggio può essere commentato nel blog Poesia e spirito

Non si tratta di identificare il cadavere di Pasolini con quello del Cristo morto – anche se ogni ucciso innocente è quasi Cristo. Perciò non si deve santificare Pasolini; ma nemmeno ridurlo ad una misura troppo criminologica, politica e laica. E invece: l’uomo privo di azioni non intellettuali deve essere guardato secondo l’uso di una carità intellettuale. La mitezza merita mitezza.
Pasolini muore, e questo è l’unico fatto certo. Ma l’interpretazione è convulsa: ucciso per caso, in una “squallida cornice di cronaca nera” (G. Accame); no, ucciso dalla malavita; no, ucciso dallo Stato; no, ucciso da Pelosi (no, da Pelosi con altri; no, solo da altri), ma eseguendo una volontà diretta di Pasolini, come regista-mitologo dell’ultimo atto. Ma io mi chiedevo se l’arte di Pasolini non fosse in rapporto con questa morte; se essere poeta – in determinate forme, linguaggi, e anche nel “cinema di poesia” – non fosse un’introduzione a questa – e non un’altra – forma di morte; e se le parole non fossero anche un unico antivedere di questa realizzazione.

Mi chiedevo: per il poeta la parola è più di una nomenclatura o di uno strumento? Sì, pensavo: per il poeta la parola è la realtà. E ciò che viene sancito in forma di parole, e con l’apparenza pubblica della poesia, è più che vero: è reale. Quindi: se Pasolini elabora ossessivamente, per trent’anni, testi sulla propria morte (come e dove avverrà, con quali mezzi, con quali conseguenze infamanti e liberatorie), la sua morte è parte della poesia (e il fatto del 2 novembre 1975 è l’ultima poesia, non scritta e non ripetibile): anzi la morte è l’argomento principale della poesia, insieme alla solitudine e all’“amore materno, straziante” (chi ha una madre infelice non potrà essere felice, finché l’amore per la madre sarà possibile; perciò resterà solo, come il sovrano che non vuole, o non può, avere compagni: “Tu sai che mia madre ha ottant’anni; fra un po’ sarò solo al mondo. […] voi siete giovani e innamorati, e io vecchio, solo, e senza più niente nella vita”).
Quindi: è possibile, ma forse non dimostrabile, che Pasolini abbia organizzato razionalmente la propria morte; ma è più corretto – perché è la poesia – dire che si è dedicato ad uno strazio di superlavoro ed eros moltiplicati al massimo, nella speranza di un’uscita di scena memorabile e feconda, per i sensibili, e devastante per altri. Cioè la poesia scritta anticipa i fatti della “poesia vissuta”, e i fatti sono la garanzia della poesia scritta: non c’è, in senso stretto, nessuna invenzione, se non nell’uso delle tecniche e nelle forme di montaggio.
Chi crede, anche per un delirio, di essere seme, agirà da seme: “Ciò che l’uomo, scoprendo l’agricoltura, ha veduto nei cereali, ciò che ha imparato da questo rapporto, ciò che ha inteso dall’esempio dei semi che perdono la loro forma sotto terra per poi rinascere, tutto questo ha rappresentato la lezione definitiva. La resurrezione, mio caro” (Medea). Nello stesso tempo, il seme non è invisibile: al punto che – come per una maledizione – nessun poeta italiano ha più avuto un’ombra della presenza, carismatica e scandalistica, di Pasolini (che passava serenamente dal “Processo alla Tappa” al “Corriere della Sera”, dal festival di Berlino a “Novella 2000”); la cui morte segue solo di due settimane l’annuncio del premio Nobel a Montale. Così Sanguineti, già enfant terrible, invecchia felice, come aveva scritto già nel 1975 (si chiude “il dialogo con tutto quello che non siamo stati, e non abbiamo voluto essere. E saremo un po’ tutti costretti a invecchiare più in fretta”). Come se il 2 novembre 1975 la stessa idea della Gioventù fosse morta, in un colpo solo e tutta; e come se la genealogia ufficiale della poesia italiana fosse stata pietrificata e svergognata, una volta per sempre. Sanguineti vivo invecchia nella vita e Montale morto rimane grandissimo, ma fuori del Mito: morto Pasolini (Manzoni: “l’edificare il mito […] per poi farne altare, legno, chiodi o corda”) il distacco del poeta dal pubblico non specialistico è diventato terribile, e ci tocca ancora.
Allora mi è sembrato di imparare che la poesia del/sul corpo non è solo un artificio tematico, ma un atto di Body Art, che produrrà esaltazioni e degenerazioni su un corpo già mortale; e che la poesia non è un gioco, ma una responsabilità gigantesca, in primo luogo sulla propria pelle, letteralmente. Ogni parola scritta mi si ritorcerà contro, chiedendomi ragione: una volta detta, è cosa. Ma anche la lama e il martello sono cose. E noi siamo o troppo parola o troppo corpo o troppo mente, e non l’insieme inscindibile di mente, corpo e parola; e guadagniamo una sopravvivenza, sia pure precaria, a patto di non scivolare nel rischio etico e fisico di diventare corpi d’amore e di poesia. E non condividiamo la maestà, la potenza, l’inusualità e il furore che Rosselli rivendicava a se stessa, senza uscire dal contenutismo che la rendeva simile, contro ogni apparenza, a Pasolini. Né possiamo dire “nel mio mestiere sono re”, come Pavese. E sembra strano che le Maestà siano tali quando stanno per morire tragicamente, perse nella disperazione (“il mondo non mi vuole più e non lo sa”), nella “storia di una malattia” o nel cupio dissolvi. Non è assurdo, se questa regalità si misura proprio sul distacco (veramente Gelassenheit) da qualsiasi cosa non sia amore e/o poesia.
Il cristiano si chiede: queste tendenze, che finiscono per distruggere la vita, onorano Dio? Ma riguardano certamente la grande poesia. E allora siamo costretti a chiederci se la grande poesia, a queste condizioni, onori Dio. Eppure l’istinto – che è fedele d’amore ma non teologo – non riesce a cogliere nessuna vera bestemmia in questi autori. Se la bestemmia c’è, rimane inedita e intima: nel rapporto privato tra Pier Paolo, persona, e la persona di Dio.

* Ho provato a scrivere di questo e di altro in un libro, Philologia Pauli, che è anche una specie di oggetto di ringraziamento. In primo luogo al lavoro di Pasolini. E poi a Gian Ruggero Manzoni, che ha onorato il libro con una prefazione più bella del libro; ad Alessandro Ramberti, che se ne è fatto editore, per Fara, con una cura impensabile; a Federico Federici, che per pura amicizia ne aveva realizzato una prima edizione informatica. Infine a Giuseppe Zigaina, il cui pensiero, per quanto non sempre condivisibile, resta un grandissimo stimolo.

(Genova, 4 agosto 2006, pomeriggio)

Massimo Sannelli (qui sopra con Chiara Daino) vive e lavora a Genova. È Scrittore, traduttore e critico. I suoi siti personali sono www.microcritica.splinder.com e www.sequenze.splinder.com

 

Il pane non si fa con un chicco (omelia per il Corpus Domini)

di Bernardo Francesco M. Gianni

Carissime amiche e amici,

domenica scorsa abbiamo cercato di intravedere assieme qualcosa della luce misteriosa della santissima trinità, una luce velata e rivelata da una geometria divina francamente inafferrabile per il nostro piccolo sguardo, oggi ci aspetteremmo che quell’insondabile mistero si rivelasse al nostro cuore e alla nostra intelligenza come formula arcana, una cifra remota, un rotolo misterioso contenente antichissime verità e misteriose formule di salvezza.
E invece oggi – concludendo questo piccolo grande viaggio fra i misteri più grandi della nostra fede, un viaggio iniziato la notte di Pasqua, e prima ancora nella settimana santa – oggi restiamo meravigliati nell’essere invitati a contemplare un pezzo di pane e un calice di vino.
E non solo a contemplare, ma addirittura a divorare, a mangiare, a far nostro qualcosa di quel pane e di quel vino.
Nella massima semplicità di un gesto naturalissimo, una naturalità disarmante che accomuna ogni creatura vivente su questa terra, il mangiare, nella massima semplicità di un cibo mirabilmente elementare presente sulle mense di tutto il nostro mondo, il pane, nella massima semplicità di una bevanda che mescola con l’acqua il frutto più dolce della terra e del sole, l’uva,
noi contempliamo, mangiamo, scopriamo e adoriamo il Signore Gesù.
Il Signore ha sempre mostrato il suo amore per gli ultimi e i peccatori mangiando con loro: non ha altro gesto più bello e semplice per dire loro il suo amore che sedersi a tavola con loro, da loro essere invitato, con loro spezzare il pane di una ritrovata comunione che subordina la differenza e il peccato alla riconciliazione e al perdono.
Quante volte il Signore è invitato a cena e a pranzo da chi resta stupito, perplesso, ammirato dalla sua parola, dai suoi gesti e dai suoi silenzi!
Il vangelo di Marco, come gli altri evangelisti ci raccontano oggi però un pasto in cui è in realtà il Signore ad invitare noi, stavolta è lui che ha organizzato –nella sala superiore adornata di tappeti- una mensa di definitiva condivisione, di intensissima comunione, di fragrante ristoro, un ristoro tuttavia che è tanto più capace di sfamare la fame dei discepoli e la nostra fame, quanto più reso saporito e lievitato dall’amore di Gesù, il suo amore di donazione, quella donazione con cui –come il frammento di pane spezzato- anche le sue stesse ossa, il suo corpo, il suo cuore si lasceranno spezzare sulla croce perché inondino di sangue, di vita , di cibo nuovo di amore e perdono la storia affamata di amore dell’umanità, di ciascuno di noi.
Il Dio di Gesù, il Dio da Gesù tantissime volte pregato nelle sinagoghe, coi salmi, nel tempio a Gerusalemme, è il Dio che aveva già scelto di spendersi per la sua creazione. Lo aveva fatto offrendo al popolo di Israele, l’ultimo fra i popoli dell’antichità, il più insignificante e per questo il prediletto, la libertà e la consapevolezza di essere amato –consapevolezza mai scontata nel nostro cuore- essere amato da Dio, chiamato a responsabilità: ecco il dono della legge sulla Sinai, ecco che su quella parola di libertà e fedeltà che sono le tavole dell’alleanza è sparso il sangue, il sangue di capri e giovenchi: il sangue è la vita ed è la morte e ci dice che quella parola , quella alleanza che il Signore donava al Suo popolo è dono gratuiti di vita, per camminare nella vita nonostante la morte, nonostante le fatiche dell’esodo, ogni nostro esodo. E è bellissimo notare come metà sangue sia versato sull’altare da Mosè e l’altra metà sul popolo: non c’è sproporzione: il Dio di Gesù vuole una vera comunione , un incontro a metà strada: quella parola , quel sangue è davvero a metà strada fra vita e morte, fra Dio e l’uomo, fra possibilità di salvezza attraverso l’ascolto di quanto il Signore ci dice con il Suo misterioso e talvolta muto amore e possibilità di oblio, di disobbedienza, di chiusura al primato dell’amore esigente e liberante racchiuso nell’alleanza.
Inizia così una mirabile storia di fedeltà e tradimento fra Israele e il suo Dio, un popolo che trasforma spesso quella parola fatta vita col sangue in una parola fatta morta e capace di morte con altrettanto sangue, il sangue dell’ingiustizia, della dimenticanza, della disattenzione, della sacralità, della divisione…
Ecco perché oggi , al posto di quelle tavole di pietra del sinai, bagnate di sangue, di sangue pur preziosissimo di alleanza, oggi troviamo qualcosa di ancor più intimo ed essenziale e verace per la nostra vita: non un rotolo, non una cifra arcana, non formule aride e incomprensibili di sapienze estranee alla nostra fame.
Troviamo invece una bianca mollica e un calice di vino che sono l’impronta vivente nella nostra storia della presenza reale di Dio , del Suo divinissimo Figlio nella nostra storia, di più nella nostra carne, nel nostro cuore.
Non una tavola di pietra bagnata di sangue, ma sangue reso sangue di Dio dalla Parola di amore di Gesù e più ancora dalla sua effettiva donazione di sé sulla croce.
Capite il mirabile rovesciamento?
Gesù sa la nostra fragilità, sa quanto il cuore nostro si lento a capire, sa quanto i nostri orecchi abbiano per filtro il catrame della nostra durezza e autosufficienza, sa quanto sia arduo custodire nella memoria la forza della Sua parola di perdono: è una profonda verità dell’uomo: le mamme sanno che per farsi capire dai bambini oltre alle parole occorre il gesto, il gesto esemplare e concretissimo di amore e attenzione, se necessario il gesto ripetuto ogni giorno: solo attraverso la grammatica dei gesti educhiamo pian piano il nostro cuore ad avere fiducia nell’amore:
ecco perché la parola di Gesù, parola fatta perpetua alleanza sulla croce, è anche gesto e quella parole lievita in pane, quel pane che noi oggi celebriamo e che ogni domenica mangiamo: tante volte nelle chiese si insiste tantissimo sulla sottolineatura teologica della presenza reale di Gesù nell’eucaristia: verità ardua di fede, indubbiamente, ma oggi vorrei prima di tutto riscoprire con voi la meraviglia per cui Gesù annuncia la sua morte con un gesto elementare, mangiare insieme, annuncia il suo amore con il gesto inaudito di un Dio che si fa dono, si fa corpo e sangue da mangiare, annuncia il Suo la sua risurrezione e il suo ritorno alla fine dei tempi con l’impensabile promessa, promessa tuttavia certissima e affidabilissima, che un giorno, nel Regno di Dio, lui busserà alla nostra porta e cenerà di nuovo con noi, e noi con lui, questo stesso pane, questo stesso vino…capite la meraviglia?
Dice la Filocalia: il cuore assorbe il Signore e il Signore assorbe il cuore e da due cose essi diventano una cosa sola
Questa è la comunione, vivere insieme in un reciproco assorbimento d’amore, di più è vivere nel cuore della Trinità, tante volte senza capire un bel niente della nostra vita e dei nostri eventi perché non necessariamente essere nel cuore del cuore significa sempre vedere e capire, ma senz’altro vivere nella trinità alimentati dal corpo di Gesù significa camminare sicuri in forza di un amore che giorno dopo giorno non ci stordisce soltanto con le parole, ma ci educa e ristora con la cattedra del gesto, con il magistero silenzioso e nutriente dell’umile concretezza del pane e di quel poco di vino che è ebbrezza santa di speranza, entusiasmo, di abbandono fiduciale a Lui, a noi stessi, agli altri…
Sì, anche agli altri, perché se ci limitassimo ad adorare il Corpo del Signore senza scoprirci unico corpo, radicalmente unico corpo in lui, tradiremmo la donazione e l’amore di Gesù
Agostino ha un’immagine bellissima: il pane non si fa con un chicco solo di grani, ma con con molti: siate quello che vedete e ricevete ciò che siete… e la stessa cosa del vino: molti gli acini che pendono dal grappolo, ma il succo degli acini confluisce in unità….
Solo così la moltitudine dei fedeli diventa davvero una cosa sola , un corpo solo del Signore, siamo noi quel pane, pane di unità, pane di amore, pane di riconciliazione, pane di pace, pane che attraverso le mani di Gesù nello Spirito Santo torna al Padre in un meraviglioso movimento di amore e donazione…. Ecco perché anche l’Eucaristia ha in sé, come ogni farmaco, qualcosa che procura la morte,,,perché per amare, per donarci, la croce ce lo insegna, molte parti di noi noi devono morire…
Carissime e carissimi, saliamo all’altare oggi a contemplare più ancora a “triturare” come dice san Giovanni la carne e il sangue di Signore perché lui dimori in noi…è
Lui infatti , perla verità, a mangiare noi, e ciò è consolante, un Dio di amore che attraverso la grammatica elementare ma verace del corpo, della fame e della sete ci dice tutto l’amore che ha per noi, un amore tanto grande da essere indicibile : solo gesto, puro gesto di amore

Signore
Lasciami vivere nella tua vita
Lascia che una mano celeste sprema i nostri cuori
Per un unico vino di vita

Signore
Lasciami vivere nella tua vita
Lascia che una mano celesta impasti i nostri corpi
Come mollica di vita
Resa eterna e unita
Da sale sofferto e da lievito perenne

Ti adoro Signore
Amen

Bernardo Francesco M. Gianni è nato a firenze il 28-xi-68. Laureato in Lettere antiche su un testo umanistico di Coluccio Salutati, entra in monastero nel 1996, a San Miniato al Monte. È monaco benedettino olivetano, professo perpetuo dal 2001, "prete" dal 2006. Per contatti:
Abbazia di San Miniato al Monte
Le Porte Sante, 34 – 50125 Firenze
tel. 055.234.27.31 - fax 055.234.53.54 - mail: sanminiato@tin.it

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Nota su In cerca di Alessandro Ramberti

di Luigi Metropoli

Caro Alex,
mia sorella scartabellando tra i miei libri sulla scrivania, tra quelli appena letti e quelli che ancora attendono di esserlo, ha notato il tuo titolo e, incuriosita, ha cominciato a leggere In cerca.
Si avvicina e mi mostra qualche verso che l'ha colpita, nel quale si è riconosciuta.
Personalmente trovo Pietrisco più maturo e compatto. In cerca si muove nell’accidentato terreno della poesia sapienziale che necessita di una prossimità al pensiero prima ancora che alla parola, insomma, una poesia che gioca di cesello con la mente prima che con l’orecchio. Tuttavia la mia predilezione per il tuo libro successivo non è dettato esclusivamente da questa peculiarità, che per me non si pone, in assoluto, come tratto penalizzante. Piuttosto è l'ordito a risultare meno omogeneo rispetto a Pietrisco, che invece trovo ben disegnato. Martino Baldi sostiene, in una delle tre note a chiusura del libro, "che se la tua poesia si distendesse un po’ di più funzionerebbe molto meglio", invece mi sembra proprio che quando espandi il dettato verso volute più ampie si perde qualcosa in termini di omogeneità e brillantezza: il verso perde forza e direzione (tuttavia gli esempi che Baldi ha citato dal libro, a giustificazione della sua tesi, sono versi riusciti). Paradossalmente i lampi (che non sono da poesia oracolare o da "parola illuminante", come invece Baldi vuol sostenere, ma invece toccano la quintessenza del dubbio nella fugacità di un bagliore) finiscono per essere più convincenti.
Al limite Martino potrebbe aver ragione sul rischio di troppa didascalia in ragione dei tuoi temi di natura meditativo-ragionativa in una declinazione fortemente apodittica. Infatti, forse, un prosimetro sarebbe stato più adatto.
Ecco, per dirla in breve, mi sembra un libro diseguale nella forza espressiva. Il punto in favore è che risulta leggibile e alla fine della lettura ci si sente appagati. Questo mi dà da pensare e talvolta mi farebbe buttare all'aria tutte le categorie critiche. In effetti elogi e stroncature sono il rovescio della stessa medaglia in un ambito dicotomico e duale che tende sempre ad escludere terze vie.
Il bello è invece viaggiare nel testo. Questa è la via. Lasciarsi trascinare, nell'azzeramento del ruolo di lettore re-censore, come colui che compie gli stessi passi dell'autore e magari li completa. Questo il senso e la direzione (si vedano le 11 note per una critica futura di Biagio Cepollaro, sul suo blog).
Perciò, la stessa nota di Martino andrebbe ripensata e reindirizzata, altrimenti rischia di cadere nel solito sistema censorio.
In ragione di quanto appena scritto, penso che nella sua disomogeneità In cerca sia stato l'unico preludio possibile a Pietrisco. Lo si nota in certi cortocircuiti tra l'analitica strutturalista e post-strutturalista del linguista e la materia incandescente dello spirito, nella molto poco esposta metaletterarietà, nonostante la tua cultura. Si potrebbe parlare più di intertestualità, leggera, e non scorbutica e invasiva (talvolta con tuoi testi precedenti: penso allo pseudo-detto Maya de La simmetria imperfetta, qui col titolo Movimento a pag. 51). Insomma, hai affilato le armi per prepararti al pietrisco, per prendere la scoria e renderla poesia. Questo è stato il preludio, un po' più agglutinante ed inclusivo, per vedere cosa conservare e da dove partire. Il sentiero da percorrere necessariamente.

Con stima e affetto

Luigi

Luigi Metropoli è nato nel '79 in provincia di Salerno. È il più tipico prodotto dell'italica precarietà. Si autodefinisce agnostico, latouchiano, utopista e cuoco. Ha solo tre attitudini: leggere poesie, vedere film il più possibile introvabili e inguardabili e bere vino (con conseguenti elucubrazioni sul prezioso nettare, noiose e sfiancanti per i poveri malcapitati che ne subiscono l'ascolto). Gestisce il blog www.vocativo.splinder.com, collabora con LiberInVersi, scrive astrusi articoli enologici per l'e-zine Collettivo Soda. La sua mail è fosfeni@hotmail.com

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