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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 47
Novembre 2003
Editoriale: Lettere vive
Nei giorni della commemorazione di chi ci ha lasciato
ritorna forse più intensa la capacità della letteratura
di ricordare chi l'ha creata: ogni scritto rivive attraverso il lettore,
ma porta anche traccia di chi l'ha composto. Così anche in questo
Faranews vi proponiamo degli autori che sanno scrivere in maniera non
effimera, autori che ci sembrano particolarmente efficaci perché
creatori di belle lettere, cioè di parole comunicative, forti
e vere. Adeodato Piazza Nicolai ci offre Minime assenze
e L'infanzia, Anthilia Vajont, Luigina Bigon I
fiori degli orti (pensando al Vajont), Daniele Bottura un miniracconto
Sulla scrittura. Segnaliamo infine alcuni siti
interessanti.
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Minime
assenze e L'infanzia
(con postilla)
di Adeodato Piazza Nicolai
Minime assenze
Anticipavi la notte con piccoli gesti:
pupille accese, la fronte schiarita
poi lentamente spostavi la frangia
ribelle calata sull'occhio. Piegavi
la nuca sulla mia spalla, invito
muto al nostro rito. L'estate
sfiorita fa spazio all'autunno
e la stufa che avvisa l'inverno.
La luce più obliqua
frastaglia l'abete,
la nostra betulla già nuda.
I movimenti dosati celano
qualche segreto.
Sosti più a lungo nel bagno
finché mi addormento.
Il nostro intrecciarsi
sembra più raro,
silenzi rattoppano il letto.
Non sono segreti
le minime assenze,
è l'ora del grande disgelo.
(Padova, 27 ottobre 2003 / ore 10:30)
L'infanzia
Infiliamo i nostri piedi
nelle medesime impronte
per arrivare in luoghi
diversi; lo sai perché?
Il livello del mare mi copre
la testa, mangio tranquillo
dalla sua cesta; non so perché
non mi manca il respiro.
La luna mi succhia le arterie
incrostate da troppe miserie
ma il cuore si ostina a ballare.
Di cosa mi vuole parlare?
Mia madre riaffiora dal tempo
come la fiamma di un lampo,
le dita mi sfiorano il viso
bagnato da un breve sorriso
poi striscia la notte sui tetti
per scivolare nei letti
ghiacciati dai venti d'inverno
ma levigati da mano paterna.
Ricordi d'infanzia, come la neve,
coprono piaghe, pianti e geloni,
nascondono i buchi nei pantaloni:
il riscatto mi sembra più lieve.
Postilla a L'infanzia
I vari motivi che spinsero Umberto Saba a una (s)passionata
analisi delle sue poesie in Storia e cronistoria del Canzoniere
sono ormai stati ampiamente sviscerati. Fin dall'inizio l'autore si
autogiustifica citando questi versi: "S'io non lo so, non lo saprebbe
alcuno / oggi nel mondo dire." (La casa della mia nutrice).
Ovvio tuttavia che "saperlo dire" non sempre corrisponde,
per l'autore, a ciò che "intende dire" – specialmente
al livello inconscio. Da un altro lato, l'autore è spinto dal
dubbio che nessun altro critico, oltre che se stresso, riesca veramente
a capire, a decodificare ciò che l'artista crea. E cito dalla
Prefazione (Mondadori, Saba Tutte le prose, p. 109-110): "Tuttavia
Saba avrebbe preferito di non dover scrivere, personalmente, la critica,
o la storia, della sua poesia. […] Così stando le cose,
egli avrebbe lasciato volentieri a Tullio Mogno la cura di illuminare
gli italiani sulle ragioni e i torti della sua straordinaria poesia,
e su quelle, più straordinarie ancora, della scarsa comprensione
che essa incontrò negli uomini della generazione funesta, alla
quale, per sua ventura, egli pure appartenne."
Mi trovo a ripetere una simile esperienza che, in questo nuovo millennio,
appare ugualmente kafkiana e sabiana. Niente di nuovo. Quanti artisti
hanno operato nei cunicoli senza alcun riconoscimento. Qualcuno viene
scoperto post mortem. La stragrande maggioranza forma una stratificazione
comune e ignorata che poi, per puro caso, verrà setacciata da
qualche fortunato archeologo per essere ri-sepolta in un museo.
Memorie d'infanzia vengono in modo particolare e complesso camuffate,
depistate, distorte dal tempo. Pure i "fatti oggettivi" registrati
attraverso colonne ottico-sonore o meramente fotografiche assumono una
"patina" iper-reale: sfumature romantiche, distorsioni semantiche
alterate sia dal trasmittente sia dal ricevente (secondo le teorie di
semiologia). La stanza iniziale di questo voyage à rebours,
"L'infanzia", vuole frugare nel cuore del paradosso karmico.
Come e perché, passando e ripassando nelle "medesime impronte"
(il karma), si riesce ad "arrivare in luoghi diversi"? Dal
principio alla fine di questa poesia una terribile tensione si stabilisce
fra Yin e Yang, esterno e interno, vita e morte, presente e passato,
amore e dolore; e ogni viaggio karmico è nelle mani degli dei.
"Contrariamente all'illusione moderna, le forze psichiche sono
frammenti degli dei, non già gli dei frammenti delle forze psichiche.
E, quando a queste soltanto essi vengono ricondotti, poiché non
hanno più un'esistenza riconosciuta nei simulacri di una comunità
o almeno in un canone di immagini, l'urto può essere violento,
intrattabile…" Forze daimoniche, di creazione/distruzione,
segnano ogni principio e ogni fine: si nasce dall'ignoto cosmico al
quale poi si ritorna, in un processo perpetuo. "Il livello del
mare [ci] copre / la testa" e noi mangiamo tranquilli "dalla
sua cesta…" L'utero materno/marino ci nutre. E, nella stanza
che segue, la luna "succhia" eppure "mi vuole parlare".
Vuole forse avvisarmi della momentanea apparizione materna?
Mia madre riaffiora dal tempo
come la fiamma di un lampo,
Il poeta, come ogni lettore-critico, sa e non sa ciò che la sua
poesia intende dire, non vuole dire e non riesce a dire. Questo dilemma,
una volta affidato alla metafisica, ora sembra essere velato/svelato
attraverso la figura dell'ossimoro - l'unione paradossale degli opposti
- "il viso | bagnato da un breve sorriso…" Tuttavia
il mistero rimane nascosto fra le sinapsi dei versi. Qualsiasi decodificazione
è imperfetta. Perciò il poeta, già sconfitto dall'impossibilità
di creare una poesia perfetta, vive una ulteriore sconfitta quando cerca
di interpretarla. Forse l'unica sfida che conta è logorarsi amorevolmente
finché dura il viaggio, rimanendo fedeli alla propria visione
del mondo. Forse così "il riscatto" apparirà
"più lieve."
(Padova, 14-16 ottobre 2003)
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Vajont
di Anthilia
Ho insistito tanto, e non avrei potuto insistere più
di così. Del resto tocca a lei: sarà il suo compleanno,
domani.
Domani dieci ottobre.
Compie trentatré anni, dato che è nata nel trenta come
me.
Me lo ricordo bene.
Io mi ricordo molto bene, di lei. Di Francesca: mia moglie. Moglie persa
e rimpianta…
Ma non è detto.
Nulla è detto. Davvero nulla è scritto, nella vita: si
può sempre cambiare.
O almeno io lo spero.
Sperandoci, ho mosso mari e monti per rivederla e per averla qui. Per
partire stasera, in modo che domani si sia insieme.
Ora, un quarto alle sei, ci ritroviamo in macchina: come ai bei tempi.
La guardo, e mi sembra la stessa. Anche se sono passati sette anni.
Anche se non la vedo più da due. Anche se ho cercato di cacciarla
dalla mia mente una volta per sempre …
- Giulio! - mi dice - Sei sempre uguale!
Ma non c'è tenerezza né sorpresa.
Dice tanto per dire?
Spero di no. E per allontanare lo spettro della paura, le chiedo un'altra
volta:
- Sei sicura?
Lei dice sì, ed io capisco che è inutile provare.
Restiamo imbarazzati l'uno dall'altro.
Come è possibile?
Ci siamo amati in modo incontenibile e ci siamo sposati. Sette anni
fa…
- Non stare lì come fossi uno scemo - mi dice lei. - Se c'è
da andare, andiamo. Io sono imbarazzata come te, e mi sembra incredibile.
- Sembra incredibile anche a me -le dico io. - Non avrei mai pensato
di convincerti.
- Ma non mi hai convinto! - esclama lei in modo troppo duro e troppo
svelto. - Ho soltanto accettato una gita con te. Questo soltanto. E
devo dire che me ne sto pentendo.
Un brutto inizio, penso.
Avvio il motore, e neanche il rombo dell'Alfa mi rinfranca.
Andiamo, come eravamo andati mille volte, lungo il nastro d'asfalto
del Ponte della Libertà.
- Bella macchina - dice Francesca così, tanto per dire. E infatti
non ne capisce nulla di motori.
- Ti piace? - faccio io. - L'ho comprata perché assomiglia a
te: sportiva, ma elegante. Svelta. Una a cui piace correre…
- Non cominciare!
- Perché? Non vai sempre di fretta, nella vita?
- Ti sembra.
- No. Vai di fretta: è così. Ti prego, credimi…
- Giulio - mi dice lei - sei tu che vivi come una tartaruga: dentro
il tuo guscio, pieno di paure, convinto che gli anni siano secoli…
Non costringermi a dirti quelle cose che ti ho già detto tanto
tempo fa, e che ti sei sempre rifiutato di ascoltare.
Brutto inizio. Bruttissimo!
- Non ti costringo - mormoro contrito. - Non ti ho costretto mai, se
ti ricordi. Però forse hai ragione: sono un pavido.
- Vedi? - sussurra lei. - Ora lo ammetti. Adesso finalmente te ne accorgi.
Adesso, alla buon'ora, lo capisci anche tu. Sei un pavido, o un timido.
Accenna ad un sorriso, ma fa fatica.
Guido in silenzio.
Sono partito male, ma abbiamo tempo. L'importante è che io sia
prudente: non cercare contrasti, lasciarla dire…
Avessi fatto così, non l'avrei persa.
Avessi fatto così, la mia vita non si sarebbe trasformata in
un abisso: un buco nero che ha inghiottito due anni.
Quando ci siamo sposati, sette anni fa, sembrava tutto bellissimo. Ma
è cominciata presto una frantumazione. Si può dire così?
Uno sgretolamento.
Colpa dell'acqua.
Colpa dell'acqua, sì!
Chi non ha mai vissuto qui a Venezia, dove l'acqua si infiltra dappertutto,
e ti circonda, e ti ammala, e ti addormenta… non sa. Non può
sapere.
Non può sapere cosa vuole dire vivere sospesi sopra l'acqua,
e subirne la forza… oppure solamente la magia.
Io ci sono cresciuto, in mezzo all'acqua. Direi così: l'ho assunta
da bambino nelle mie carni, nel mio temperamento, nel più profondo
dell'anima.
L'acqua mi ha nutrito di visioni, di immagini, di sogni e forse di illusioni…
Io mi illudevo che Francesca mi amasse e preferisse me alla sua vita
ingorda. E invece…
- Io ti ho amato -le dico.
Mi sono lasciato sfuggire una frase terribile, pericolosa… e come
sempre è stata colpa dell'acqua! L'acqua fa scorrere tutto, assieme
a sé: dunque anche i pensieri e le parole che li configurano.
- Lo so - dice Francesca. - Ma hai amato te stesso più di me.
Te e il tuo mondo, che non era il mio.
Sta seguendo gli stessi miei pensieri.
Strano, nevvero? Ci è bastato trovarci e restare in silenzio
per riprendere la nostra comunione. Per ritrovare il filo della spola
che ha intessuto l'un l'altra le nostre vite: per ritrovare, pronti,
trama ed ordito dei nostri due destini… forse da intessere.
- Ma tu mi hai incontrato nel mio mondo e hai deciso di entrarvi - mi
arrabatto a spiegare. - Capivi bene che cosa comportava la tua scelta,
e quali erano i limiti che avevo.
- La tua città! - fa lei. - La tua amata città. O forse
odiata: amata-odiata, contemporaneamente. Possibile che ancora non comprendi?
- Lo comprendo benissimo.
- Ed allora?
Allora aveva ragione. Avrei dovuto andarmene, accettare proposte di
lavoro che mi portassero altrove, via da qui. Avrei dovuto tentare di
creare qualche cosa di mio, qualche cosa di nuovo che crescesse lontano
da questo mondo umido, pervaso d'acqua e di sogni, di nostalgia, di
tensione all'antico…
Prendiamo la direzione di Treviso. Platani secolari lasciano nevicare
le prime foglie. L'autunno ha già compenetrato l'atmosfera di
greve malinconia, e la notte incipiente sembra più oscura…
- Sei sicura? - le chiedo nuovamente.
Lei mi dice di sì.
So che sarà terribile.
Non so perché, ma so che sarà terribile.
Lei parla come se seguisse il filo di pensieri pensati così tanto
da avere assunto contorni materiali:
- Tu e la tua città! Possibile che ancora non capisci? Io la
trovo terribile: così chiusa, isolata… Sospesa sulle acque,
dici tu. Io dico: prigioniera. Prigioniera dell'acqua. E prigionieri
dell'acqua gli abitanti. Racchiusi in una bolla di sapone. Isolati dall'isola.
- Ma nulla è un isola! Le isole siamo noi…
- Oh, questa sciocca storia! Ancora questa. Sempre questa. Non l'ho
dimenticata, sai! E non mi è mai sembrata tanto falsa. Il mondo
è grande, caro mio! Il mondo è terra verdeggiante, e aria
luminosa, luce fulgente! Il mondo non è quel mondo d'acqua dove
sei nato tu. Svegliati!
Svegliati.
Svegliati, Giulio. Quante volte l'ha detto? Quante volte me l'ha buttato
in faccia, prima di lasciarmi?
Ma non mi sono svegliato: sogno ancora.
Sogno. Mi illudo che questi brevi giorni, che passeremo assieme, possano
ricucire lo strappo tra di noi, possano riportarmela, possano fare breccia
nel suo cuore…
- Mi sono meravigliata che mi hai chiamato - dice lei come se mi leggesse
nel pensiero. - E mi ha meravigliato ancor di più quello che
mi hai proposto. Una gita! Una gita per il mio compleanno! Mi sono detta:
adesso si è svegliato! Mi sono detta: io credo proprio che si
sia svegliato perché non è da lui fare queste proposte!
E invece…
- Invece dormo ancora, Francesca. Sogno te. Ti sogno continuamente…
Frasi pericolose. Oserei dire temerarie…
Lei non risponde.
Passo Treviso. Prendo per Conegliano. Ormai è buio, e tutto lo
splendore della Marca ammantata dell'oro dell'autunno non si vede. Si
può solo sognare: ma il sogno danza incerto nella mente, come
si specchiasse sull'acqua…
- Tu sogni, infatti - dice Francesca con una voce dura. - Hai sognato
che fossimo felici, ma non hai fatto nulla perché accadesse.
Non hai tentato di avverare questo tuo sogno! Sapevi che io non resto
ferma, che voglio il sole, la vita, la libertà…e mi hai
tenuto chiusa nella prigione di questa tua terribile città. Una
prigione d'acqua…
- Se tu mi avessi amato… - dico io, e poi mi fermo. Che cosa sto
dicendo?
Ma non mi resta il tempo di rispondermi.
- Io ti ho amato, Giulio. Io ti ho amato moltissimo, e anche tu hai
amato molto me. Ma certo, non mi hai amato abbastanza da abbandonare
questa tua città! Potevamo partire. Potevamo creare qualche cosa
di nuovo, di affascinante: qualcosa che fosse proiettato nel futuro,
e non legato a vincoli passati, a spazi troppo stretti, a nicchie soffocanti…
alla tua isola!
Fa male, e lei lo sa. Lei lo sa che fa male…
Farei qualsiasi cosa per sfuggire a questo intenso dolore. A questa
consapevolezza dei miei limiti. A questa vigliaccheria che impregna
la mia mente come un tossico. Alla pigrizia della normalità.
E invece…
- Non ne sono capace - dico forte, a voce troppo alta.
- Di cosa?
- Di lasciarla, questa città! Tu lo sai bene. Sai bene che cos'è
la nostalgia, il fascino, la magia, il mistero dell'acqua…
- No. Non lo so. Io dell'acqua ho paura.
Ed allora capisco perché non ha accettato la mia proposta per
la gita: Capri.
- È per questo? - le chiedo. - È per questo che non hai
voluto andare a Capri?
- Capri o Cortina fa lo stesso - esclama troppo in fretta. - Non è
il posto che conta! È quanto ci diciamo, quanto abbiamo capito
l'uno dell'altro… Ma non mi pare che sia cambiato molto.
Non è cambiato no, penso come un idiota. E subito capisco che
non c'è alcuna speranza di ricucire un sogno. Come si fa? Come
si può rammendare una sostanza lieve come la nebbia? Un velo
d'acqua, è il sogno: lo si può rappezzare? Non credo…
- Vorrei che ci pensassi - mormoro a mezza voce. - Potrei anche cambiare…
Lei ride.
Ride con una risata dura, spietatamente. Ride di me, e io capisco che
la cosa va male.
Non riesco ad uscirne. Devo cambiare, devo fare qualcosa…
"Non vuoi mangiare?" chiedo. E' presto, ma voglio disperatamente
prendere tempo.
Lei ride ancora.
Ci fermiamo.
Scelgo un posto qualsiasi, lungo la strada. Non ha importanza il posto…Non
ha detto così?
Ordiniamo, senza nessuna voglia, e mangiamo in silenzio.
Mi sembra tutto vano. Ma cosa posso fare più di così?
Posso tentare di cambiare? Posso cambiarmi?
- Un'isola - mi dice lei. - A volte sembri un'isola immersa nella nebbia.
E non ci sono ponti per giungere da te. Per entrarti nell'anima, e scaldarla.
Non vedi? Siamo in viaggio da nemmeno due ore, e tu non sei più
qui. Sei già partito: hai salpato le vele e sei tornato a navigare
nel tuo mare di illusioni e di sogni. Sei dentro al tuo elemento, dove
ogni cosa scorre senza rumore, dove stai immerso senza più sentire
gli altri suoni del mondo. Dove non puoi vedere il fulgore del sole
e l'aria che risplende, e i richiami di tutte le altre città:
i richiami del mondo.
Sorride, e io vedo amarezza nei suoi occhi. Vi vedo delusione, forse
rancore. Amore no.
Finiamo il pranzo pieni di tristezza, e risaliamo in macchina.
Lascio Vittorio Veneto dietro di me. Comincio a inerpicarmi.
Dall'alto, intravedo le luci della pianura che sembrano un tappeto.
In alto, le stelle brillano qua e là nei fori delle nubi.
- Guarda! - mi dice lei. - Il mondo è grande. Sembra senza confini,
da quassù. Non dovresti temerlo: dovresti desiderarlo quanto
me. Allora forse…
Passiamo Santa Croce.
Lei intuisce la presenza del lago e ride ancora. Dopo, rivolta a me,
esclama: - Acqua!
Acqua.
Cosa mi lega così tanto all'acqua?
Purtroppo, devo dire: non lo so. Non conosco il destino, ma senza dubbio
c'è un legame fortissimo tra me e l'acqua, tra me e la mia città.
Mi manca già moltissimo, Venezia! Mi mancano il suo silenzio,
i suoi canali, le calli strette, i mattoni imbevuti di salso e umidità,
le sue nebbie… mi manca l'acqua!
- Vai più svelto! - dice Francesca come se avesse fretta. - Vai
più svelto.
- Perché?
- Perché è tardi.
- Non ci aspetta nessuno. Che fretta c'è?
Lei questa volta è dura: - Ma perché devi andare lentamente?
Mi sembra quasi tu non sappia guidare! Muoviti, Giulio! Muoviti. Almeno
tenta di adeguarti alla velocità del mondo!
Accelero.
Ma lei non si contenta: - Muoviti! - dice ancora.
Io cerco di reagire: - Che fretta c'è? Abbiamo tanto tempo…
Risponde: - No!
Ora ha una voce dura, determinata, cruda. Come chi ha già deciso…
Accelero.
Il motore dell'Alfa sembra ruggire, nel silenzio che cade tra di noi.
Brucio la strada, ma intanto mi domando: che fretta c'è?
Forse, mi dico, forse ho un appuntamento… che non ricordo, ma
che pure c'è.
E mi lascio stupire dal pensiero che non sia un caso che ora siamo qui,
uno vicino all'altro, contro ogni ragionevolezza, contro ogni pronostico,
contro ogni avverso programma del destino…
Siamo qui. Chi l'avrebbe mai detto? Certo non io.
E mentre penso, guido.
Supero Ponte nelle Alpi. Sono a Frontogna. Corro la stretta strada che
porta a Longarone, percorrendo nel buio il fondo della valle.
E sento solo il rombo del motore, nel silenzio che è caduto tra
noi due.
E anche le mie speranze sono cadute.
Che è cambiato? Chissà.
Non so che cosa sia cambiato: certo non io. Qualcosa nella vita, forse.
Qualcosa dentro a me. Come un fumo, un ricordo, una promessa…
Qualcosa che mi sfugge.
Cerco di ricordare. Ma ricordare cosa?
Improvvisamente lo so: ricordare il futuro.
Capisco che è il futuro, che mi sfugge.
E al rombo del motore, tutto a un tratto, si aggiunge un altro rombo
ben più profondo. Un rombo basso e cupo. Una voce… lontana…
e sempre più vicina… Un rumore di tuono…
- Giulio… cos'è?
Cos'è che empie di rumore la collina, che fa tremare l'aria,
che urla come un vento di uragano, come una belva, un demone…
Chissà!
- Giulio! Che c'è? - grida ora Francesca. Ma il buio ci impedisce
di vedere. Solo il tuono…
- Giulio… Giulio! Cos'è?
Ho solo il tempo di rispondere: - È acqua, amore mio…
Acqua!
(27 marzo 2003)
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I
fiori degli orti (pensando
al Vajont)
di Luigina Bigon
Un vento soffia sopra i morti
le croci bianche
un cumulo di detriti e un lumino
per ognuno. I fiori raccolti negli orti
tutti compresi nel misurarsi
sopra i tumuli allineati
interrompono un poco
quel lento camminare dei superstiti
tra le tombe. Anche loro
e tutti noi, muti, con le occhiaie
infossate e Dio che lacera
il tempio, frusta a destra
e a manca, – quante opinioni…
Ma le ombre ancora vagano
lungo il Piave, giù per Fortogna
verso Ponte nelle Alpi e più giù
fino infondo
dove la terra si fa piatta.
Ho raccolto molti sguardi e voci
in quel seminarmi dentro le loro
anime, per comprendere. Ma
anch'io ancora vago tra i larici
su per il monte, e non trovo risposte.
Ma fin da allora vedo processioni
di esseri luminosi passare sopra i tetti.
Mi sono nascosta dietro gli alberi
per non essere vista: c'è un'aria
primaverile intorno a loro
e angeli e patriarchi tutti insieme
andare oltre l'amaro confine,
sorridere.
(aprile 2003)
I sopravvissuti, dopo il disastro, nei loro orti piantarono molti fiori
per portarli, a fasci, nel Cimitero di Fortogna. Qui c'era chi
aveva anche venti venticinque croci bianche: camminavano lenti, si fermavano
ad ogni croce, sostavano per porre i fiori e per una preghiera, poi,
lentamente, si portavano ad altro tumulo, ed era una processione che
accompagnava le anime, ormai al di là di ogni rabbia. Così
le vedevo con gli occhi dello spirito.
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Sulla scrittura
di Daniele
Bottura
All’inizio ci si trovava di sera in un appartamentino in città.
Eravamo in tre. Raramente in quattro o cinque. Ricordo questi incontri
per lo più durante il periodo invernale. Ognuno di noi portava
dei racconti da leggere. La maggior parte erano di giovani scrittori
conosciuti a livello nazionale, ma ogni tanto saltavano fuori anche
libri di Cechov, Hornby, Bukowski. Sceglievamo racconti che ci facessero
ridere o pensare. Luca, il padrone di casa, preparava il the o versava
il vino, a seconda dei pensieri che avevamo. Accendeva un paio di piccole
candele e metteva un disco. Era sempre un disco giusto. Ognuno di noi
leggeva. Gli altri ascoltavano. Così fino a notte fonda, intervallando
ai racconti qualche sigaretta e qualche sorso di quello che c’era
nel bicchiere. Leggere quei racconti era un po’ come dire qualcosa
di sé agli altri. Ognuno aveva voglia di sentirsi raccontato.
Credevamo che nei racconti di altri ci fossero parole migliori delle
nostre. Affidavamo ad altri il compito di dire quello che avremmo voluto
raccontare noi.
Una sera qualcuno lesse una poesia senza citare l’autore. Chiesi
chi l’avesse scritta. Ricevetti come risposta: “Io”.
Guardai il mio amico. Il nostro amico ci guardò con la bocca
piena del sapore delle sue parole. Ci guardammo tutti e tre. Iniziammo
a ridere.
Quando ci siamo accorti che anche noi, con i nostri mosaici di parole
scritte, riuscivamo a raccontarci, a parlare di noi, a far prendere
forma ai nostri pensieri che finivano su un foglio che prima era bianco,
allora, quando ci siamo accorti che scrivere non vuol dire vendere migliaia
di libri, ma essere capaci di leggere la vita attraverso un personalissimo
modo di vedere e di dare un ordine alle cose, un ordine in continuo
movimento, quando ci siamo accorti di questo, abbiamo pensato di dirlo
a tutti quelli che non erano mai entrati in quell’appartamentino
in città in cui si leggeva, si beveva, si ascoltava musica e
si fumavano sigarette mai sprecate. Tutti gli altri.
Abbiamo pensato, allora, di dire a tutti che le parole non sono fuori
ma dentro.
(da Transatlantici
di carta, Fara, ottobre 2003)
Siti interessanti
Il dialogo www.ildialogo.org/cultura/index.htm
Encicliche
www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/encyclicals/
ScenaPrima www.scenaprima.com/index.htm
Villafranceschi www.villafranceschi.it/index.html
Daddo www.daddo.it/info.htm
Intervento di Drazan Gunjaca www.librinuovi.info/
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