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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero
56
Agosto 2004
Editoriale:
Una estate vaga di senso
In questi giorni tradizionalmente dedicati alle fughe
vacanziere abbiamo forse anche il tempo di riflettere maggiormente su
noi stessi e quanto ci circonda, sulle zone in ombra della nostra persona
e su quelle della società in cui ci troviamo a tessere le nostre
relazioni. Questo Faranews contiene contributi che possono dare qualche
stimolo per affrontare questioni un po' pesanti con una certa - magari
divertita - ironia, ma senza eluderle: iniziamo con un racconto noir
di Fabio Marangoni, continuiamo con i salaci versi
romaneschi di Antonio Valeriano Pulimanti gentilmente
inviatici dal figlio Mario, le considerazioni di Vincenzo
Andraous, "Nessuna riflessione sul ritorno" di Anita
Fumagalli, "La confessione di un guerriero ignoto" di
Drazan Gunjaca, e gli splendidi versi tratti da Spine
nere di Gezim Hajdari. Vi ricordiamo il concorso
per racconti e poesie Pubblica
con noi. Buon Ferragosto e a settembre!
Il
fratello di Caino
di Fabio
Marangoni
Meno quattro giù in strada.
Sotto i balconi c'erano già mucchi di cartacce e grani di sale
avanzati dalla nevicata della notte prima. Il vento non mandava a dire
niente di buono per stanotte.
Il ghiaccio s'era cristallizzato sui vetri della 2CV “Charleston”
e Arturo schiacciò il naso rosso contro il finestrino per guardare
in strada.
Un bastardo nero con la bava e un linguone a tappeto srotolato, tirava
per il guinzaglio una signora grassa con un vestito giallo dall'altra
parte del marciapiedi tra le panchine verdi e le cacche sotto la sabbia
come mine.
Aspettava lì da quattro ore ormai, sotto un tiglio di Corso Sempione,
l'oblò sinistro aperto, senza radio e senza un amico, il bavero
della giacca su fino al mento e la testa piegata di sbieco con gli occhi
fissi sulla porta a vetri smerigliati di un locale alla moda del centro.
Sarebbe uscito di lì, lo sapeva. Alle sette e trenta aveva cenato
da Gianni&Luciano, caviale, tortellini alla panna fresca e una fica
stretta di faccia; seguì una capatina al distributore di profilattici
e il ritrovo con la compagnia al pub.
Si chiamava Guido Pagni, bello giovane e ricco. “Quaranta e non
li dimostro” diceva gonfiando i pettorali e stirando gli zigomi
nuovi e le labbra al silicone. Una fede cieca nel conto in banca e scarpe
da trecento euro.
Parcheggiò la Smart davanti al distributore e scese tirandosi
dietro la cameriera in mini del Gianni&C.
Uscì a mezzanotte e un quarto, ridendo e agitando una mano verso
l’interno del locale.
Arturo lo riconobbe subito, tirò fuori il Machete dal sacchetto
marrone del pane sotto il sedile e uscì dalla 2CV.
Lui invece non l’aveva visto.
C’era da aspettarselo d’altronde, è uno di quelli
che ragiona come un kleenex: quando non gli servi più ti getta
nel cesso. Saluti e tante grazie. Del tipo: “Nulla di personale,
ci mancherebbe” e ti ritrovi con una coltellata nello stomaco.
Si avvicinò alle strisce pedonali.
Una vecchia con l’aria di chi si porta sempre dietro l’ombrello
quando esce perché non si sa mai, gli lanciò un’occhiata
da insetto mentre aspettava di poter attraversare la strada. L’altro
sembrava invece non aver fretta: accese una sigaretta, fece un giro
intorno alla macchina e poi si mise in posa plastica atteggiandosi da
playboy al passaggio delle trentenni sole o delle coppiette di teen-ager
allegre e in cerca d’avventure.
Bisogna fare in fretta pensò Arturo o il nostro ci prova di nuovo.
Era fin troppo facile d’altronde: un sorriso che più bianco
non si può, una strizzata d’occhio e il prestigiatore si
portava la colombella sul terrazzo con vista Pirellone e tramonto di
stelle esclusivo come la bottiglia di champagne da cinquecento euro
già in freezer.
Ma stavolta no.
La cimice con la cuffietta di lana celeste si mosse allo scattare del
verde più veloce del previsto, mentre lui con rapide falcate
superò lo spartitraffico e finì per sistemarsi sotto un
altro albero, ma più alto e senza una foglia, a cento metri da
lui.
Puzzava d’alcol. Lo sentiva da quella distanza e le cose
si mettevano male: così conciato c’era il rischio che qualcuno
lo notasse o che chiamassero il 118.
Brutta roba. L’avrebbe fatta franca un’altra volta e solo
al pensiero gli sembrò di sentire Elisa gridare.
Bisognava fare in fretta altrimenti non c’è l’avrebbe
mai fatta ad arrivare in tempo alla fermata del 16 ed essere in tempo
alla festa.
Erano già le venti all’una quando si incamminò nella
sua direzione.
Il viale era poco trafficato e l’aria, quella solita del dopolavoro,
un mix di mille fumi di scarico vaporizzato all’aroma nebbiolina
fine della sera che non tarda però a macchiarti il soprabito
della festa mentre scendi a portare il sacco della spazzatura cogli
avanzi della cena.
“Sono ingrassato” pensò Arturo oppure era proprio
quel cappotto che gli aveva regalato sua moglie a Natale a stargli male,
fatto è che non si poteva chiederne al commesso uno con la tasca
foderata portamachete o quella per le bombe a mano, e così aveva
aperto la cucitura di una tasca e l’aveva infilato per lungo tenendolo
per il manico mentre con l’altra mano si grattava distratto la
nuca.
Ora lo vedeva bene.
Eccome.
Ci stava provando con una ragazzina mezza nuda che rideva come una scema
a ogni parola e lui non finiva di guardarle le tette, poi sembrò
indicarle la macchina e lei annuì sporgendosi in avanti ancora
di più finché non fece il giro della Smart e venne spinta
dentro con una manata sul culo.
Chissà se aveva fatto così anche con Elisa. Se le aveva
messo le mani addosso prima ancora di essere saliti in casa con il riscaldamento
acceso e i vetri appannati sotto un lampione mentre lei cercava di scappare.
Il solo pensiero gli fece accelerare i passi e balzare il cuore in gola
a un passo dall’espellerlo lì sul marciapiedi.
Lasciò perdere tutto e corse. Via.
Senza pensare a niente.
– Sì?
Quando si voltò ci fu una reazione inaspettata.
Lo riconobbe e invece di scappare gli sferrò un debole gancio
destro che andò a vuoto mentre Arturo ormai stringeva già
nel pugno il machete.
L’uomo non si accorse nemmeno di avere un braccio pendolante e
la scapola rotta che un secondo colpo gli arrivò alle spalle
spezzandogli qualche vertebra e allora la sua bocca divenne una piccola
“o” silenziosa nella posizione di urla e muto dolore che
soltanto i suoi occhietti azzurri rigati come vetri testimoniavano perfettamente.
Barcollò abbracciando la micro vettura come fosse stata un trans
con le chiappe all’aria.
Guido Pagni rovinò a terra piantando il grugno liscio come il
culetto di un bambino tra una cicca di nazionali e un cellophane male
avvolto. Fece uno strano rumore con la bocca prima di cadere, simile
allo sfrigolio prodotto da quegli accendini elettrici per il gas della
cucina o allo scoppiettio delle cervella quando friggono nell’olio
bollente. E come le faceva sua madre nessuno le sapeva fare, pensò.
Dietro si lasciò una bavetta d’un bel rosso rubino che
partiva dal finestrino e scendeva lungo la lamiera bagnata.
La ragazza non si mosse dal suo sedile.
Sembrava non aver notato niente o forse, più semplicemente, non
voleva vedere proprio niente.
Ad Arturo venne in mente l’Uomo Nero.
A scuola gli raccontavano sempre che girava di notte e passava nelle
case a prendere i bambini cattivi. Forse era successo così anche
al bellone stanotte e l’Uomo Nero l’aveva incrociato su
quella strada che conosceva tanto bene.
Ci stava ancora pensando quando decise di andare.
Girò al primo angolo e prese a camminare speditamente tra i palazzoni
grigi del centro scansando i pochi passanti ed evitando gli sguardi
come un ladro, con un occhio alle spalle e l’altro alla ricerca
della fermata dell’autobus.
Quella era pressoché deserta. Una trasposizione del deserto dei
tartari nel pieno centro di Milano alle due di notte.
Non tardò nemmeno il 16, vuoto com’era, e quando salì
vi trovò il solito caldo soffocante del riscaldamento e una luce
blu soffusa lungo il corridoio tra le due file di sedili verdini.
L’autista non lo degnò di uno sguardo, chiuse le porte
e ripartì a strattoni isolandosi dal mondo esterno nella sua
gabbia di plexiglas.
Dentro, oltre a lui, c’era una coppietta che limonava tranquillamente
nei posti in fondo, due extracomunitari che non avevano smesso un attimo
di parlare e un tizio elegante con una ventiquattrore sulle ginocchia.
Se non avesse trovato traffico sarebbe arrivato in tempo.
Cercò di concentrarsi sulla luce azzurrina del neon o sulle scarpe
da ginnastica contraffatte indossate dall’africano per non pensare
a niente, ma non ci riuscì; tutto tornava a galla come se a un
tratto il blocco di cemento che li aveva legati finora in fondo allo
stagno della sua coscienza si fosse sciolto come zucchero liberando
i ricordi ora più vivi che mai.
La casa di Carlo non era distante: alla fine del corso e attraversata
piazza Magenta si trovava quasi a ridosso di un parco scheletrito che
separava la via principale tra due filari di condomini dei primi Settanta,
e lui stava all’ottavo piano senza ascensore.
Il pullman lo lasciò proprio lì vicino.
Scese fuori come da una scatola pressurizzata e l’aria fredda
della notte gli pizzicò subito il viso.
Gli altri invitati lo stavano già aspettando.
Meglio darsi una mossa.
Non c’era nemmeno da preoccuparsi del portiere, a quell’ora
stava di sicuro al bar all’angolo o nel letto con la signora del
terzo piano, comunque non l’avrebbe fermato per controllare i
documenti o farsi citofonare da qualcuno.
Così arrivò in cima alle scale col fiatone e un Machete
sottobraccio.
– Arturo! Ti stavamo aspettando!
Un’Ape Maia chic in calzamaglia gli aprì la porta allargando
le braccia e schioccandogli subito dopo un bacio sulla guancia. Lucia
era uguale a sua figlia, anche Elisa aveva il vizio di saltargli al
collo appena entrava in casa. Qualcuno aveva messo dei festoni sotto
le porte e dei palloncini colorati svolazzavano dappertutto tra i bizzarri
frequentatori di quell’appartamento in centro.
Il generale Custer si fermò di colpo incrociando il suo sguardo
spaesato, seguito a ruota da David Crockett obeso che prese a squadrarlo
dalla testa ai piedi. Strano costume quello di Arturo deve aver pensato.
Quando sua moglie si scansò dalla porta e lo lasciò finalmente
entrare si accorse realmente del suo aspetto.
Al banchetto in salotto si affaccendavano come cavallette un finto gangster
in gessato blu a righe e un rapper “nero” col cerone sciolto
per il gran caldo che faceva lì dentro, mentre altri ballavano
scatenati al ritmo frenetico di samba e salsa dell’ultima ora.
A Elisa sarebbe piaciuta quella festa ne era sicuro.
Le feste in maschera erano la sua passione da quando aveva cinque anni
e lo pregava di portarla a tutte le sfilate di carri della città.
Lei con il suo costumino da fata turchina e lo spolverino sulle spalle
per paura che prendesse troppo freddo finiva sempre per portarla in
braccio lui quand’era troppo stanca di camminare a forza di grida
e salti.
Poi s’era fatta grande e aveva iniziato ad andarci con lo zio.
Gli venne il vomito.
– Ma da cosa ti sei vestito?
Domandò il Pancho Villa rappresentante della new economy milanese
probabilmente, che lo guardava col suo bel faccione rosa e gli occhietti
neri intelligenti traditi soltanto da naso e baffi sospettosamente imbiancati.
Solo allora Arturo si accorse di un particolare «fuori posto».
Lo specchio dell’entrata confermò. Dalla tasca del giaccone
spuntava ancora il manico del Machete insanguinato e aveva un baffo
rosso disegnato su metà viso oltre a numerosi schizzi dal gusto
vagamente floreale sparsi sulla camicia e sul cappotto beige.
Arturo ci pensò su un po’, poi sicuro:
– Da assassino.
Suo cognato Guido avrebbe detto la stessa cosa.
Fabio Marangoni è
nato a Torino nel '79, città dove tuttora vive e lavora. Affascinato
dai simbolisti francesi, inizia a comporre poesie che vengono riunite
successivamente nella raccolta "Il sogno della crisalide",
ancora inedita. Dal '98 scrive storie, soprattutto racconti brevi, incentrati
sul mistero e sul fantastico e ispirati dagli autori americani dell'Ottocento,
Poe in primis, ma anche dal movimento milanese della Scapigliatura.
Ha pubblicato il racconto "Le ceneri" nel volume Visioni
Infernali, Edizioni G.Ho.S.T. Nel 2003 pubblica il suo primo
libro, Neroanimale per le Edizioni Il Foglio di Piombino.
Nel 2004 il racconto "Centauri come back!" entra in Carne
Morta, G.Ho.S.T. Collabora con il sito La
Tela Nera di Alec Valschi, in veste di giurato del concorso per
racconti noir-horror-mistery NeroPremio e cura la rubrica delle recensioni
librarie e dove sono ospitate anche le sue pagine personali.
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L'omo
s'è fatto da sé
di Antonio
Valeriano Pulimanti
L’omo, co’ tutto er resto der Creato,
me diceva iersera un conoscente,
libero pensatore e miscredente,
tutto da sé s’è fatto: s’è inventato!
Sì, feci? … L’omo… er monno… e tutto
quanto?
Ma perché tu allora parli de creato?
Me pare ammè che er termine è sbajato!
Te lo ridico – lui rispose – e te lo canto
la materia sola conta e quella resta;
come er progresso e l’anzia d’annà avanti…
nun famo li sofisti tutti quanti…
… Ma senti te se nun è bella questa! …
Secondo te, quanno nun esistevo e nun ce stavo,
da solo me sò scolpito, de dietro e davanti,
va bè che me chiamo Valeriano Pulimanti…
Ma chi lo sapeva desse così bravo!
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No
droga no party
di Vincenzo
Andraous
Le file di sedie sono tutte occupate, la classe è
schierata nel grande salone, ragazzi e insegnanti riprendono fiato.
Si è conclusa da poco la visita guidata nei laboratori della
Comunità Casa del Giovane di Pavia.
Il dibattito prende il via dopo la visione di un video, in cui Don Enzo
Boschetti fondatore della comunità, pochi mesi prima di morire,
con la parola piegata dalla sua malattia, disegnava il dolore incontrato
nei tanti giovani raccolti ai margini della strada, le tante vite bruciate
nella frazione di uno sparo, e la fatica sopportata per i tanti giovani
liberati dalla droga, dalla necessità muta di sopravvivere in
ginocchio.
Nel salone è scomparso il brusio disturbante, ora c’è
tensione dell’ascolto, c’è voglia di capire, di confrontarsi,
di accorciare una distanza, e c’è pure chi ha voglia di
fare il maledetto per forza:
– Mi scusi Vincenzo, non sono d’accordo con lei, io fumo
qualche canna, ma non sono certamente un tossicodipendente, credo che
l’hascish non faccia male.
– In questa comunità ci sono duecento ospiti, tra giovani,
adulti, donne: provate a chiedere ad ognuno di essi, come hanno cominciato
a fare uso di sostanze. La maggioranza di loro vi risponderà:
con uno spinello, sì, proprio con una canna, e tu ci stai dicendo
che non fa male.
Droghe leggere, droghe pesanti, quali allora le differenze, se a perdere
sono sempre i più giovani, quelli che in leggerezza hanno iniziato
e con pesantezza si sono perduti.
I tempi mutano, noi cambiamo, e le droghe si misurano con le nostre
debolezze, si ammodernano sulle nostre fragilità, cambiano abito
mentale nelle nostre rese.
Così è stato venti anni fa per l’eroina-droga-protestataria,
così è ai giorni nostri per la droga in pillole, quella
che non consegna più gli uomini ai pugni dritti nello stomaco,
ma rende i più giovani attori formidabili di storie inventate
da scrittori invisibili.
Giovani rubati in corse folli contro il tempo che non basta mai, per
poi rimanere inchiodati ai bordi di qualche rettilineo, o per buona
sorte su qualche sedia a rotelle, fino a diventare vecchi per i rimorsi.
Il fumo delle sigarette brucia i polmoni fino a morire di cancro.
Il vino ubriaca fino a morire alcolisti.
Qualche spinello non brucia i polmoni, non rende alcolisti né
drogati, ma in quel volo che fa ridere intontiti c’è la
sonnolenza della ragione, c’è il via libera della stanchezza
che non placca alla discesa, ma avventura senza attenzione, alla disavventura
già prossima.
Quel ragazzo non ha ancora compreso la differenza tra una vocazione
di bullo per forza, e il coraggio di scendere dal palcoscenico, dove
i riflettori non colpiscono gli occhi, accecandoli.
Serve fare un passo indietro e comprendere che responsabilità
e credibilità, provengono dal vissuto conquistato, sperimentato,
dalla conoscenza delle lacerazioni e dagli ideali, non certamente da
uno spinello, dalla droga.
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Nessuna
riflessione sul ritorno
di Anita
Fumagalli
Ritorna il tema del viaggio. Ma qui non c’è
spostamento. Quanto fa 153 km meno 153 km? Mi sembra che faccia zero.
Allora non mi sono mossa. Anzi no: il movimento c’è stato,
ma poi ha annullato se stesso. Spostamento nullo. La mia posizione è
la stessa di due giorni fa. Seduta ad una scrivania, a casa mia, noia
e monotonia. Ho mosso le mie gambe, ma progressione non c’è
stata. Ho viaggiato, ma non c’ho guadagnato in formazione.
Trepidazione. Domani parto. (Nessuna riflessione sul ritorno.)
Ieri, quando ancora il momento di andare era lontano, ero impaziente.
Mancano solo poche ore, dovrei avere l’impulso di gettarmi in
strada per arrivare alla meta nel minor tempo possibile. Ogni mio gesto
dovrebbe essere modellato su di una corsa interiore. Indugio. Sono calma
o forse ricerco la calma. Ma non mi occorre un grande sforzo per ottenerla.
Non ho bisogno di un peso che mi ancori al letto in cui sosto, ancora.
Sarebbe disonesto imputare la mia stasi alla stanchezza. Ieri, pensando
al treno e poi finalmente alla stazione di arrivo, non trovavo la quiete.
Mi rigiravo nel letto. Adesso mi incatena la paura. Mi fa rischiare
di tirarmi indietro. Per poco non abbandono il gioco. Rimarrei nel mio
brodo per evitare il confronto con un contesto diverso dal mio abituale.
Il timore mi fa desiderare che dietro le mie azioni non cambi lo scenario.
Decido: non vale la pena di stare qui a vegetare. (Nessuna riflessione
sul ritorno).
Che sfortuna essere arrivata in anticipo al treno. Alle due ore del
viaggio si sommano così venti minuti di attesa. Non ho pazienza.
Tiro fuori dallo zaino il quaderno degli appunti. Scarno, ma averne
presi di più in ogni caso non mi sarebbe servito. Ora certamente
non mi tornerebbe utile. Come a quattro giorni dalla partenza, infatti,
non ho concentrazione. (Nessuna riflessione sul ritorno.)
Mi muovo da un’ora. Mi muovo solamente da un’ora. Ancora
un’altra mi sembra insostenibile. La frenesia mi spinge a credere
che, se mi slanciassi fuori dal finestrino, con una corsa, potrei superare
la vettura, precederla al traguardo. Mi drogo con le aspettative come
fossero calmanti. Per poi ridarmi la carica, penso all’inaspettato,
sconosciuto nel particolare, ma ovviamente meraviglioso. Mi sembra di
aver preso un’eccitante. Ritorno a trepidare. (Non c’è
testa per riflettere.)
Stop. Soltanto per il treno. Io intanto balzo giù dal predellino.
Atterro sulla banchina. Ho un incedere marziale. Non mi perdo in corsette
inutili, che solo occorrerebbero a mozzarmi il fiato. Procedo con passo
determinato. Saldo come la mia mente. I piedi avvertono il potere e
la fermezza. L’obiettivo dista poco. Su nient’altro mi concentro.
(Troppo sicura per riflettere.)
Suono il citofono. Non ho bisogno di chiarire la mia identità.
Dico “ciao”.
- Ciao.
Sento lo scatto. Spingo in avanti il portone. Sono dentro. Attendo che
arrivi l’ascensore. Con l’adrenalina che ho in corpo, non
esiterei a divorare cinque piani di scale. Non posso. Non devo presentarmi
affannata al giudizio. Sono ferma dunque e questa volta veramente ricerco
la calma.
All’interno della cabina, mentre salgo, respiro a fondo, rilasso
i lineamenti, rilascio le mani lungo i fianchi. La porta è aperta,
entro e la richiudo alle mie spalle.
Sono felice perché il mattino ancora buio mi culla, mi dona tranquillità,
mi permette di appoggiare lo zaino a terra senza fretta. Sorrido perché
tutto sta andando come l’avevo dipinto: la porta accostata e chi
mi aspetta che continua ad aspettarmi, senza venirmi incontro.
La camera è immersa nell’ombra e il letto sulla parete
di fondo sembra che ondeggi in un’atmosfera di ovatta. Mi siedo
affianco al mio ospite sdraiato, sfilo le scarpe per poterlo raggiungere
e abbracciare. (Nessuna riflessione sul ritorno: il tempo è cancellato.)
Mentre l’ospite mi stringe, piango. Non emetto alcun suono però,
continuo a lacrimare in silenzio. Chi mi ricopre in un primo momento
neppure lo nota. Neanche io in realtà ho coscienza di quello
che mi sta accadendo. Avverto le lacrime che dagli occhi mi scivolano
sulle tempie fino a sfociare nei capelli, ma non fanno rumore, non danno
fastidio a nessuno, non mi impediscono di fissare il mio ospite e ricercarne
lo sguardo.
Il riflesso ai lati degli occhi fa la spia ed io così mi lascio
scoprire.
– Ma stai piangendo?
– Sì – lo dico con calma, senza darvi peso.
Chi mi ha scoperta però deve attribuirgli qualche importanza,
perché immediatamente vuole saperne la ragione. Io invece non
avrei voglia di parlare, vorrei che fossimo tutti silenziosi: io, l’ospite
e le mie lacrime.
– Perché?
Mi tocca rispondere, ma onestamente neppure io mi spiego a cosa sia
dovuto questo mio sfogo. Non so cosa dire e allora lo dico: –
Non lo so.
Fatica a credermi: – Adesso voglio che tu me lo dica – insiste.
Rifletto un po’. Mi indago fra i pensieri, ma sembra non ve ne
siano. Mi riconosco malinconica, tutto qui. Addirittura mi piaccio,
ritengo di non avere bisogno di giustificarmi, mi sembra che la mia
bellezza attuale debba parlare per me. Mi sento così bella per
cui tutto debba essermi concesso: anche piangere.
Dovrebbe essere soddisfatto dal mio volto, ma ancora chiede. Allora
invento. Adesso sì che devo incolpare la stanchezza.
- Probabilmente è perché sono stanca, non ho quasi dormito
sta notte (nella mia sola testa: per venire qui). Non ti capita mai
di piangere per la stanchezza?
So perfettamente ch’ella è innocente, come del resto lo
era stanotte. La colpevole è un’altra. Quella che nella
notte mi faceva indugiare: ho paura.
So di aver mentito, ma all’ospite la risposta è bastata.
Ha smesso di insistere e ripreso a ondeggiare.
Sono a posto, giustificata, ma continuo a interrogarmi. Giro la testa
per un attimo verso la finestra. Capisco: il buio ha smesso di cullarmi
ed il letto non è più sospeso in un’atmosfera ovattata.
Il sole è sorto. La Terra si è mossa, quindi significa
che anche il tempo è passato. (Riflessione: il tempo non è
cancellato.)
Stiamo pranzando. L’ospite mi mostra delle fotografie: il suo
passato. L’avevo sempre ignorato. Chi mi mostra le sue foto per
me vive in questo istante.
Sta sfogliando gli album al contrario dal più recente al più
remoto. Ma i minuti corrono in senso opposto. Troppe foto. Certo per
loro non è un problema: tornano indietro. Per me questo non vale
e loro mi mangiano il tempo che già da solo si affretta. Il mio
piatto intanto è ancora pieno. (Si avvicina il ritorno.)
Riversi sul letto, di nuovo.
– A che ora ce l’hai il treno?
Ho il treno da prendere è vero, anche l’ospite ne ha presa
coscienza.
– Uno ogni ora – rispondo; e intanto penso: "Chiedimi
di restare".
Nella mia testa già scarto la prima opzione della lista: non
me ne andrò alle 17.40, prenderò il seguente. Così
continuo a rimandare ed altro non faccio che consumare i miei nervi
adattandoli al passare d’ogni ora. Arrivo ad escludere anche il
treno delle 19.40, ma lo stesso non riesco ad agire. So di dover partire.
Nella sveglia vedo i minuti incalzanti. L’ansia devia la mia vista
da chi, prima del viaggio, con la mente potevo guardare. (Riflessioni
opprimenti, invadenti.)
Entriamo nella stazione. L’ospite mi ha accompagnata. Questo non
l’avrei voluto, non l’avevo disegnato. Guarda gli orari
nel display: 20.50.
– Fortuna – penso – ancora qualche minuto per non
perdere il treno e per osservare il suo volto.
Per un secondo temo di aver perso il biglietto. Trovato. Sono tranquilla
o forse rassegnata: inutile, ormai niente mi trattiene. Convalido. Ci
fermiamo e salutiamo prima dei binari.
Al momento del saluto non mi bacia mai, questa volta non glielo permetto.
– Non posso accompagnarti oltre. Devo andare.
– Ok, però voglio un bacio…
Fa una faccia dubbiosa.
– … piccolo.
Sorride. Mi accontenta.
– Ci sentiamo – aggiunge.
– Certo.
– Buon viaggio.
Ringrazio, perché mi veda serena: già da adesso prevedo
che a nulla varrà l’augurio.
Mi spingo avanti lungo il binario. Salgo su uno dei vagoni più
vicini alla locomotiva: sento in anticipo che non sarà molta
l’energia per camminare dopo due ore di viaggio.
Mi siedo vicino al finestrino con il volto diretto alla meta. Alterno
sonno, sogni ed incoscienza a brevi momenti di veglia. L’impressione
però è una sola: essere ancora dentro al passato e, come
le foto, andare a ritroso. Col corpo sono proiettata in avanti, ma rivivo
in fotogrammi immutati la giornata trascorsa. (Nessuna riflessione sul
ritorno.)
Anita Fumagalli è
nata a Milano il 5 maggio 1984. Frequenta la facoltà di Lettere
presso l’Università Statale. Partecipa a concorsi letterari
ed ha pubblicato poesie e racconti su Internet.
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La
confessione di un guerriero ignoto
di Drazan
Guniaca
Maledetti sogni. Quando tutti ti lasciano in pace, ossia
quando con la forza di volontà ti convinci dopo tutto di valere
di più dei ricordi, questi ti raggiungono, di solito tra le 2
e le 3 del mattino e allora, completamente inebetito e completamente
perso, giri e rigiri madido di sudore nel letto che sembra più
uno stivale spagnolo dell’epoca dell’inquisizione che un
posto dove riposarsi dalla realtà… Ti dimeni nelle giungle
del passato tentando di uscire alla promettente luce del giorno…
che però non sorge. E così la vita rotola giù per
le scogliere taglienti e appuntite che non sai se appartengono al sogno
o alla realtà. Oppure né all’uno né all’altra,
così diventi uno di quei cosiddetti casi limite, né in
cielo né in terra, dimenticato e disprezzato da tutti. Nessuno
ti vuole nel suo mondo. Né i santi né i peccatori. Mentre
i confini tra i loro mondi, anche se esistono, continuano a spostarsi
su e giù, sempre nella direzione opposta a quella in cui tenti
di trovarli. Chissà se mi lascerebbero passare quel confine nel
caso riuscissi a trovarlo.
Non si è mai guerreggiato di più, né è mai
stato più difficile essere un guerriero. Tempi strani. Quando
parti ti salutano con fiori e lacrime e poi ti accolgono con bestemmie
e maledizioni. Le stesse persone. Quelle che ti hanno mandato in guerra.
Ma cosa si aspettavano da noi mandati al fronte? A volte penso che le
guerre siano diventate un cappriccio, una moda passeggera fomentata
da sedicenti stilisti che non hanno il minimo senso per le sfumature
del modello che creano. Un modello informe, creato in fretta e furia,
stufa presto tutti quanti, va fuori moda e tutti distolgono gli sguardi
da noi che eravamo solo modelli, e camminavamo per la spaventosa passerella
finché è durato il prêt-à-porter di guerra.
Ma qualcosa si sono persi lo stesso questi sapienti e onnipotenti signori
a tempo determinato. Il modello, una volta creato, vive di vita propria,
indipendente dalla volontà dei propri creatori, che infallibili
per definizione, stanno facendo la parte dell’elefante ubriaco
nella vetreria.
Proteste contro la guerra. Ieri sono stato coinvolto per caso in una.
Quando sei un invalido non fai in tempo a spostarti, nemmeno davanti
ai pacifisti, immaginiamoci a quegli altri… Prima della guerra
non li capivo, ed ora non li sopporto. Perché? Perché
tutti loro messi insieme non odiano la guerra quanto me. Perché
non sono venuti al fronte a protestare? E poi, prima della guerra, metà
di loro erano per la guerra, ed ora, che è fuori moda, sono contro.
Onore alle eccezioni. Perse nel tempo e nello spazio come me. Ognuno
a modo suo e per le proprie ragioni.
Quando capirà la gente che le guerre non possono essere delle
mode?
Perché odio tanto la guerra? Perché in essa non c’è
più neanche un filo di cavalleria. Perché la si fa tutti
contro tutti. Perché il mio amico è stato ucciso da una
nonnina che tentava di salvare dalla sua casa in fiamme… Non poteva
reggersi in piedi per la vecchiaia, ma poteva ancora tenere un fucile
tra le mani. L’età non conta per poter tenere un fucile
nelle mani. Né conta il sesso, la religione, il colore della
pelle… niente. Solo delle mani e un fucile. Nei miei sogni lacerati
non sono perseguitato da quel fucile ma da quelle mani vecchie e tremolanti…
L’ha ucciso per paura. Avrebbe ucciso chiunque si fosse affacciato
in quel momento sulla porta della sua casa in fiamme. La paura non ha
limiti. È la guerra. È quello che i suddetti "stilisti"
non riescono a capire. Non hanno mai visto quella nonnina. Con il fucile
nelle mani. Non l’hanno vista neanche quelli che, a loro tempo,
ci salutavano con la mano quando partivamo. È molto difficile
capirlo finché non vedi. E quando lo vedi è troppo tardi.
È molto meglio non capirla, la guerra. Non vederla riderti in
faccia e mostrarti cosa, e con che facilità, è capace
di fare di ognuno di noi. E poi quel maledetto momento più lungo
dell’eternità: vendicare l’amico oppure no? Il momento
che ritorna ogni notte…
È mattina presto. Alle 6 non ci sono bar aperti dove poter bere
un caffè, eccetto in una stazione di servizio… Lì,
appoggiati al piccolo bancone, un paio di ubriaconi che cercano di bere
l’ultimo bicchiere, alcuni giovani drogati che urlano Dio solo
sa cosa e la cameriera stanca che guarda la scena assente e disinteressata…
Appena mi vede si mette a preparare un caffè doppio… Ospite
abituale a quest’ora. Negli occhi le vedo riflesso il desiderio
di andare a dormire… È sorto un’altra giorno da ieri.
Già vissuto. Già passato. Indifferente: tutto è
meglio della notte. Tra le 2 e le 3…
Drazan Gunjaca (1958, Croazia)
è autore di numerose opere contro la guerra, di cui le più
conosciute sono il romanzo Congedi
Balcanici ed il dramma Roulette
balcanica, tradotti in molte lingue e vincitori di numerosi premi
letterari.
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Non
dobbiamo intristirci
di Gezim
Hajdari
Non dobbiamo intristirci per ciò che è fuggito
(il bello della vita non è viverla ma attraversarla)
le radici del biancospino
con le quali abbiamo comprato pane e libri per studiare
hanno ricoperto le frane della Mandra
sulle spalle del Tempo sono cadute le nostre Parole,
pesantemente.
(da Spine nere -
Gjemba të zinj, Besa, Nardò)
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