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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 83
Novembre 2006

Editoriale: Questa sì è poesia domestica

Così afferma (ironicamente) Cristina Babino in una delle poesie che aprono questo numero. La letteratura deve aver a che fare con il quotidiano, ma per farlo lievitare a metafora, per trasfigurarlo ("una risata che passa / come uva nella stanza"). Anche Sinicco, recensito dalla Nostra, "è immerso nel presente e nella storia" e così la parola deve "passare" nei molteplici sensi di questo "infinito": transitare, percolare, tracciare, stendere, trascorrere, maturare… senza questa immersione risulterebbe soffio inerte. La plaquette inedita di Alessandro Moscè ci lascia allora sfogliare l'album dell'infanzia: "Il banco di scuola è circondato di buio, / la suora è andata via…". I versi in siciliano di Marco Scalabrino e quelli in santarcangiolese di Annalisa Teodorani si segnalano per la loro capacità di lasciare anche tracce visive nella nostra memoria; mentre quelli di Giuseppe Callegari, Luca Ariano, Daniele Borghi e Carmine De Falco ci calano, con provocante understatement o ex abrupto, nelle contraddizioni del nostro mondo. Abbiamo poi le recensioni di Emilia Dente a Vincenzo D'Alessio e di Maria Rosa Panté a Juan Gelman. Conclude la rivista un articolo programmatico e intenso di Bernardo M. Gianni su "Monachesimo e liturgia". Buona lettura.

 

"Questa sì è poesia domestica" e recensione a Christian Sinicco

di Cristina Babino

La sera m'impone compagnia.

Nel bicchiere
il discreto naufragio
del silenzio che non dico.
Addomestico l’umore
e le labbra
a una spuma
che sa di capodanno.
Una risata passa
come uva nella stanza.

***

Ci teneva stretti il vicolo
nell’incastro imbalsamato
dei mattoni
la notte che i gatti
ci sorpresero a pisciare
sui portoni delle case
imprevisti come una visitazione
e contro le ringhiere
in equilibrio
sopra i neon della città
vecchia di ciottoli e viali.

(i due testi qui sopra sono tratti da L’opera continua, a cura di Giampaolo Vincenzi, Giulio Perrone Editore, Roma, 2005)

***

provincia

ruralità sommersa
di bastioni industriali
asfalti opachi
lavori in corso
e case popolari
sto attenta al cane
e al padrone
come vuole la scritta
sul cancello dei vicini.

***

Il riposo

Ai padri una domenica
da autolavaggio

Ai figli il funerale
di una lucertola

che non vuole fiori
né opere di bene
ma urla feroci
di ragazzini rincorse
sudate di pallone
nei cortili acciottolati
e sfranti tra i palazzi.

***

Domus Aurea

Il mattino ha un’ascia in bocca

il latte scaldato nel tegame
la moca sibila distratta.

La lista della spesa manca
sempre qualche cosa.

Questa sì è poesia domestica

casalinga giostra che non sale

e rotola ipnotico
l’oblò di lavatrice
come ruota di criceti
insaponati.

Novanta gradi non fanno
mica angolo retto
semmai col prelavaggio
la biancheria settimanale.

***

Senza dramma

Il fianco regge ancora ma per quanto
lo scuote il dito lento che ripassi
in nero di seppia e china tatuata

esplori l’algebra modesta
di segni e smagliature che porto
mio malgrado in geografia

e in dote insieme agli anni
trascorsi in fila indiana
senza fretta e senza dramma.

S’è perso il tempo
il filo il conto
e l’occasione.

***

Su Passando per New York di Christian Sinicco (Lietocolle, 2005)

Dalla copertina ti fissa con un’aria tra il malinconico e l’assorto. Come se si fosse appena ora sollevato dalle sue carte (carte che non si vedono, però), interrotto da un ipotetico avventore.
È un uomo. No. È una donna. No. È tutti e due. Ed è umano. No. È un’animale. No. È una chimera.*
Ha testa umana e torso pettuto e zampe di grifone. Brandisce una stilografica come un’alabarda, come un vessillo, come un gallone. Ma non c’è intenzione bellicosa nel suo sguardo. O meglio, se pur c’è intenzione violenta, è di quella “violenza intellettuale” di cui, sola, si sentiva capace Pasolini. Allora è un poeta. Oppure un novello Tiresia, l’indovino cieco uomo e donna che non vede il presente e già sa il futuro. Ma qualche gioco di dèi deve avergli restituito la vista, perché i suoi occhi sono bene aperti e vivi. E vedono. Gli uomini e la storia.
Christian Sinicco è immerso nel presente e nella storia. La vive, la medita, a suo modo la com-prende e la de-scrive. È immerso nel presente e nella storia suo malgrado, come ogni essere umano, e del tutto consapevolmente e volutamente, come ogni intellettuale che non si limiti a “contemplarsi l’ombelico” – per dirla con Ferlinghetti – ma che intenda uscire dal guscio rassicurante dello scaffale e del circolo poetico per sporcarsi le scarpe calpestando la piazza, per camminare tra la folla e con la folla, per levare alta una voce che sia l’eco poetica di un dissenso che non è soltanto critica ai sistemi e alle politiche, ma è prima di tutto vocazione.
I testi raccolti nell’opera prima di Sinicco sono passaggi, come l’autore stesso li titola.
Un passaggio è un viaggio. Breve o lungo che sia, il viaggio è fatto di transito e sosta, e necessita di un bagaglio. Sinicco transita, letteralmente passa per i luoghi del mondo più fatalmente simbolici dello scorcio storico contemporaneo. New York prima tra tutte, per la sua ovvia eccezionalità, per l’attuazione drammatizzata e spettacolizzata di un conflitto reale e profondo che solo dopo l’11 settembre si è manifestato in tutto il suo disgraziato gigantismo. E poi Belfast, la striscia di Gaza, l’Argentina, con un occhio ancora memore e accorto sul passato (“l’ingiusta giovinezza mia / addiziona le Madrid / Rome coi tricolori / Berlin bombardate / Hiroshima vuote / Paris occupate dai palazzi / ciudad lacerate…”), forte di una visione stereoscopica e inclusiva del sé nella concatenazione degli eventi: “Guardami storia / mentre scelgo di piangere stamattina / la polvere sui libri chiusi / come una scintilla morente;…” . In questo sta la sosta: nella meditazione sugli eventi, vissuta come necessità e in qualche modo missione, nell’autoinclusione del poeta nello scenario farraginoso del mondo, nell’individuale rielaborazione del suo pensiero in una forma poetica di cui si avvertono lancinanti il desiderio di comunione con le folle, l’esercizio di onestà umana e intellettuale, lo sforzo di comprensione del senso e di restituzione critica fedele di un realtà storica in continuo, dialettico divenire, e che i soliti potentati vorrebbero invece sempre semplificata, banalizzata, edulcorata a loro beneficio, ad uso e consumo delle masse.
Sinicco non compie il suo viaggio da solo: con lui ha un bagaglio che a un tempo è preziosa zavorra e sublime elevazione. Nei suoi passaggi lo accompagnano infatti numi tutelari, straordinarie guide poetiche, di cui Sinicco (nato nel 1975 a Trieste, città dove tutto è incrocio e confine, territorio letterario ingombrante e gravido di un passato che tuttora si allunga sul presente) non teme di sfidare la “sacralità” accostandoli l’uno all’altro in un nuovo disparato Parnaso, riassemblandoli in soluzioni insolite e spesso coraggiose, riesumandoli dalla loro storicità poetica per immergerli in contesti tormentati, vivissimi, attuali. Hirschman, Ginsberg, Thomas, Pound, Whitman, Yeats, Rimbaud, Alberti, Montale, Leopardi e la Dickinson, ma anche l’amico Matteo Danieli, sono alcuni dei nomi che a un tempo ispirano, guidano, accompagnano la ricerca di un senso, di un vero che si sganci dall’esercizio poetico d’accademia per aderire il più possibile alla stagione “presente e viva”, alla concretezza bruciante del dato storico, agli inesorabili passaggi evolutivi – e a volte involutivi – della civiltà.
Sinicco non passa solo per luoghi di conflitto: nella raccolta passa anche per luoghi interiori, personali, che sembrano intermezzi concessi al sé, di estrema delicatezza e quasi timidi, ritrose incursioni nel privato di un’opera, di un’ispirazione altrimenti del tutto estrovertita, in cui prevale la tendenza discorsiva, l’affabulazione dialettica del verso.
Chiude Passando per New York una lunga appendice in cui Sinicco aggiunge ulteriori strumenti di gnosi alla propria raccolta. Non proprio un autocommento e non ancora un’aperta dichiarazione di “poetica”. Piuttosto, come recita il titolo dell’apparato, una bibliografia postulata dall’autore, un memorandum dove Sinicco ripercorre le fasi creative e la genesi dei testi, a volte con singolare precisione cronologica (come nella postilla a Primo passaggio su New York in risposta ad un Arcano di Jack Hirschman), a volte esprimendo una precisa posizione, etica prima che politica (rispetto agli esiti più contemporanei della storia mondiale e ai guasti causati dalle eterne prevaricazioni dei poteri forti), altre volte ancora ricorrendo a ricordi personali e a tratti quasi commossi, come nella nota alle Melodie finali di Edgar Allan Poe per Annabel.
Appunti in calce che non aggiungono senso o forza ai testi, in se stessi del tutto compiuti e indipendenti e, per questo, capaci di una vita autonoma, ma che semmai propongono una prospettiva in più, suggeriscono elementi ulteriori di riflessione, di dibattito anche, nella convinzione profonda di una poesia che sia, nella ricerca espressiva, esercizio personale di coscienza e di incitamento alla consapevolezza altrui, che sia impegno ogni giorno rinnovato e ri-creato.

* L’immagine di copertina è opera dell’artista e poeta triestino Ugo Pierri.

Cristina Babino è nata ad Ancona il 24 luglio 1976. Ha pubblicato la raccolta di poesie L’abitudine del cielo (Blu di Prussia, Piacenza, 2003 - prefazione di Alessandro Seri) e suoi testi sono inclusi in varie antologie, tra cui L’opera continua (a cura di Giampaolo Vincenzi, Giulio Perrone Editore, Roma, 2005). Si è laureata in Letteratura Italiana presso la sezione Arte del DAMS di Bologna con una tesi dal titolo Montale critico d’arte, discussa con Gian Mario Anselmi e Alberto Bertoni. Affianca alla produzione poetica l’attività critica e giornalistica, ed è stata redattrice del mensile di cultura «Buon Gusto Marche». Suoi testi poetici tradotti in inglese sono recentemente apparsi su diverse riviste di poesia contemporanea britanniche, tra cui «Aesthetica» e «Coffee House Poetry». Ha vinto diversi premi letterari, tra cui il Premio Rabelais (edizioni 2004 e 2005) ed è membro della giuria del Premio “Poesia di Strada” di Macerata. Attualmente vive e lavora a Bristol. Il suo sito lacuginaargia.splinder.com

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Malinconia immobile

di Alessandro Moscè

Malinconia immbile è una plaquette di sedici testi poetici imperniati intorno ad un'età, quella dell'infanzia, e alla carissima figura dei nonni. Un'atmosfera di gradazioni, nei toni e nei colori, riporta il ricordo capillare di episodi, per lo più casalinghi. Si cerca di sfuggire al tempo per trattenere il tempo. Al centro del mondo infantile le presenze di chi non c'è più sembrano ancora vive, perfino tattili.

1.
Appartamenti che ridanno
la luce fioca del corridoio,
i respiri sudati in casa,
le magliette e una palla da tennis
nella vacanza perfetta.
La dolcezza di un abbraccio,
il silenzio e le risate
dell’unica infanzia
afferrano le cose
in una docilità sciupata.
Eravamo da nonno Ernesto
per i gesti d’affetto
che si affacciano a Natale
nell’avventura casalinga
tra le mani e la voce
dei grandi.
L’album dell’infanzia scorre,
di mobili, di tavole,
di tagliatelle e mercanti in fiera,
di fine settimana.

2.
Sono solo, nonno,
senza le carte dell’infanzia
nella notte ottobrina
e nell’ignoto che segue.
Ti spiavo il pomeriggio
mentre dormivi qui da noi
e russavi con la luce accesa
sul sofà arancione.
Oggi come l’ultimo ieri
nella tenera famiglia
dei tanti ieri
che non si stancano di tremare.
Ti tiravo i baffi,
contavamo le figurine dei calciatori,
ascoltavamo le partite alla radio.
Il rito del dolce passare
dietro la tua porta
non si è ancora concluso.

3.
Il caffè e la sigaretta,
il dopobarba verde.
Sulla mensola non ci sono più
da vent’anni
gli oggetti della consolazione.
Si è tranciato il tempo trasparente
senza una cifra sul diario
delle elementari.
Dove sarai nonno,
in una città lontana
dove non ci si riconosce,
ancora con il soprabito e la cravatta chiara,
tra la folla veloce
nella memoria intatta,
nel mio giro d’ansia.
Il panettone con i canditi,
il torrone morbido,
il distacco terribile del tempo
sulla tavola spoglia:
la corrente autunnale
riporta tutto
senza più materia,
senza più possesso.

4.
Il banco di scuola
è circondato di buio,
la suora è andata via
con l’odore del refettorio.
È un sogno soppresso
la luce tradita di malinconia
se il tempo non è fermo
nella felicità del ’77.
Le partite alla radio
vibrano di voci lontanissime,
del salotto con i piatti sporchi,
delle arance cadute sul pavimento.
Un giorno ascolterò
la mia storia di Natale,
un giorno che mi visiterò
con i luoghi chiusi,
dentro le case,
sull’Ancona del porto,
dei viali freddi
scoperti sottobraccio.

5.
Vado di nascosto
nella casa dei nonni
con la stufa in corridoio,
nella fragilità dell’insonnia
che accende luci
e illumina specchi
di sbiadite forme.
Busso alla porta
e non risponde nonno Alvaro,
ma San Ciriaco alita di mare
con le navi che gravano,
che fuggono gli anni
portandoli ad oriente.
Le case non sono più le stesse,
come i vestiti che cambiano
di misura e di colore.
Tradiscono i nomi e i muri,
i viaggi senza amnesia.

6.
Quando il mare si quieta
le mura ascoltano
i fruscii che salgono,
l’amore che ritorna
dalla notte di pece
di via Pizzecolli.
La morte si fa vedere
in un’Ancona attonita
che avvolge i contorni,
che spia la memoria.
Troppi anni
sono usciti dalla ragione,
troppe cose sono scomparse.
La vestaglia di nonno Alvaro,
la camicia da notte di nonna Irma,
il vaso sotto il letto.
E quel quadro alla parete
che rivede solo la mente?
Poche lune
traducono il pianto
delle ombre commosse.

7.
La penombra galleggia
nei mobili scuri
e inventa la sala da pranzo
dove nonno Ernesto
fumava la sua Muratti
e bruciava la formica di cenere.
Scopro la tovaglia a quadretti
e il segno è netto
dopo trent’anni.
Ci vuole solo la notte
per scoprirlo ancora,
un tuffo al cuore
mentre cammino
a piedi scalzi
incollandomi le orme.
La nebbia mi aiuta
a non sopprimere
il viaggio di sola andata
che nasce dentro casa.

8.
Sono in un’altra città,
in un’altra età,
quando alle cinque mi sveglio
dall’infanzia che nutre
un altro affetto.
È tutto da un’altra parte
il vento che trancia
il presente,
che diventa la mia scorta.
I nonni, i cugini,
la morte anticipata.
Le case si svuotano
per una vacanza
che non tornerà
nel silenzio di pioggia.
Basterebbe la voce
della mia infanzia,
il passo all’incontrario
per ripassare la parte
che implora la solitudine
di certi pomeriggi.

9.
I ciottoli sono gli stessi
in via Pizzecolli,
cambiano le insegne degli alberghi,
i negozi e i bar
nel tempo che soffia
dal pianoterra.
Anche il cielo
è lo stesso di allora,
oscuro e poi velato
tra novembre e dicembre.
Ma il campanello alla porta
ha un altro cognome,
la scalinata nasconde
le pieghe e gli snodi
del tempo infantile.
Non si concede più
l’anima nello sguardo
che rimane bambino,
prima della vita.

10.
Le foto in bianco e nero
chiuse in un cassetto,
di me con la bicicletta bianca,
o il giorno della prima comunione,
davanti alla siepe
con il grembiule senza fiocco.
Le stagioni si perdono
nel richiamo dei temperini,
nei fogli colorati con i pastelli.
Aule chiuse a chiave,
lavagne abbandonate,
quaderni ingialliti
degli anni ’70
che sono rimasti polvere
come il mistero dei morti
che mi insegue
in un cespuglio bagnato.

11.
Un istante che sia avvia
dalla mia mano
all’infanzia rimasta
nelle automobiline
che adesso tocca mio nipote.
Un gioco che torna
dopo tanta fermata
nella semplicità rumorosa
di piccole dita.
Il grande congedo
ha un timido allungo,
l’estremo tentativo
di capire la gioia
del non perdere il gesto.

12.
L’ombra di una tomba,
quella dei nonni
che guardo controluce.
Quanta pioggia al cimitero,
quanta immensità del niente
prepara l’altra vita,
chiama il ritrovo
nella strada dell’incontro.
Lumini e fiori secchi,
la prigionia della morte,
il commiato dalla lingua,
dalla voce e dall’abitudine.
Quanto marmo bianco
che aspetta di scaldarsi.
Io ci sono,
e frodo la solitudine dei morti
una sola volta
nell’aria indurita.

13.
Ha un tempo la morte,
un’aspettativa e un corpo,
un sogno e un’infanzia?
Ricomincia una perfezione
o si allontana la fuga immane?
Il presente dei morti
vive nei vivi
per un dopo inesausto.
Il resto del cammino, nonno,
dove sarà concesso
guardare la passione
del tramonto estivo
dietro la tendina,
riempie la camera da letto.
Il fremito di un’eco
è solo mio
quando si avvicina indisturbato
dallo scaffale dei libri.

14.
Il fango del giardino
risucchia le mie scarpe
e la destinazione della notte
attraverso occhi spalancati.
Mi fermo e mi dico
che non è vero niente,
che la morte non esiste,
che ci lega ad un ricordo,
al sogno del suo stesso trucco.
Potrei chiamare ad un telefono,
sentire la voce di mio nonno
che non si è persa
nel fondo della strada
o impigliata nell’ippocastano.
Corre via la morte,
randagia più di me.

15.
Il malumore d’eterno,
diceva un poeta,
è l’universo di ogni vita,
qualcosa che aduna la notte,
che disseppellisce le assenze.
Il giardino si appoggia
ad un silenzio irreale,
ed io con la sigaretta in mano
cammino verso il mio fiato,
verso un altro ricordo
che si vede nitido
nell’immobilità autunnale
fatta solo di anima,
di prati avviliti,
di cieli tumefatti.

16.
La partenza per il viaggio
è senza valigia
per l’improvvisa morte
che non ha transito
nelle nostre stanze.
Si è avviato
con la solita discrezione
nonno Ernesto,
ha sorriso appena
quando mia madre
gli ha chiesto sottovoce
se avesse sete.
Era già in alto,
vedeva la sua gioventù
correre sui campi sterrati,
il suo bicchiere vuoto
al centro del comodino
farsi più piccolo.

Alessandro Moscè (Ancona, 1969) scrive su «Nuova Antologia», «Il Corriere Adriatico» e su altre riviste specializzate dove si occupa di critica letteraria e filologia. Ha compiuto studi su Giorgio Saviane e sulla letteratura marchigiana del '900. Ha pubblicato l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici e visionari nel 2003 (il lavoro editoriale). Nel 2004 è uscita la raccolta di saggi dal titolo Luoghi del Novecento (Marsilio). Ha curato un’antologia americana di prossima uscita, sui poeti italiani del Novecento. Ha dato alle stampe la raccolta poetica L’odore dei vicoli.

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Aschi e maravigghi (Frammenti e meraviglie) di Sicilia (una suite)

di Marco Scalabrino

Pi nascita
dirittu
cardacìa

di li ràdichi a la storia

st’ammàttitu
m’apparteni.

Sulu tri pilastri
ncucciati cu puzzulana d’amuri
e tennu ’n-pedi
un munnu.

(Per nascita / diritto / batticuore // dalle radici alla storia // questa combinazione / mi appartiene. // Solo tre pilastri / saldati con pozzolana d’amore / e reggono / il mondo.)

***

Un jornu
russu sulu nna lu me calannariu

un ancilu
paratu ad arti a l’amu di li stiddi

m’addiccò
fu na vota e pi sempri, a li soi ali.

Successi.

E siddu nun fu spassu

preju
ogni novu mercuri
pi ssu miraculu

e aspettu.

Zoccu autru pozzu fari ?

(Un giorno / festivo solo nel mio calendario // un angelo / spedito in avamposto dal cielo // mi avvinghiò / anima e corpo, alle sue ali. // È accaduto. // E se non è stata burla // prego / ogni nuovo mercoledì / ché questo miracolo si ripeta // e aspetto. // Cosa altro potrei fare?)

***

Ammuttanu li staciuni
cu soli di coriu
sempri novu

e allonganu
a botta a botta
la prucissioni
di judici
manetti
tabbuti.

(Si susseguono le stagioni / con suole di cuoio / sempre nuovo // e allungano / una botta dopo l’altra / la processione / di giudici / manette / casse da morto.)

***

Ju zeru
ju lapardèu
ju senza travagghiu

ju bucatu
ju sucasimula
ju l’Aids a tagghiu

ju mafiusu
ju cascittuni
ju nuddu spiragghiu

ju...
nun lentu mai di bistimiari.

(Io nullità / io parassita / io disoccupato // io a rischio Aids / io cicisbeo / io drogato // io mafioso / io delatore / io disperato // io... /
non smetto mai di bestemmiare.)

***

Autri a spassu.

Stu jornu macari.

Ssa frevi ammàrtuca li mei carni

e mancu un ponti

luci

pi sbraccari.

(Anche oggi // qualcuno perderà il lavoro. // Questa febbre fiacca le mie membra // e non un solo ponte // s’intravede // per superarla.)

***

Mastru Lunniri
scattusu
addimura

e attocca a mia
nun pozzu fujiri.

(Mastro Lunedì / dispettoso / s’attarda // e spetta a me / non ho scampo.)

***

Matri

sapi d’addauru
zorba
marvasia
lu ciuri spajulatu a la to sciara
e lu ciauru

di li naschi
lu sangu
lu senziu

nun si lava chiù.

(Madre // sa di alloro / sorba / malvasia / il fiore scaturito dal tuo rovo / e il suo profumo // nelle narici / nel sangue / nei sensi // persisterà in eterno.)

Marco Scalabrino è nato a Trapani nel 1952. Poeta (Palori, 1977; Tempu, palori aschi e maravigghi, 2002), saggista, traduttore ha pubblicato anche commedie in siciliano. Per una più esaustiva presentazione si rimanda al sito www.vaidiqua.it/scalabrino

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Lei che con semplice candore (da Anno II, raccolta in fieri)

di Luca Ariano (v. anche la poesia e lo spirito)

Lei con semplice candore
ti dice che non ha tempo per fermarsi
a pensare perché deve lavorare
e i tuoi pensieri stanno lì ad ascoltarsi.
L’odore d’aglio e cipolla fritta
ti ritorna bambino davanti alle vetrine
nel luccichio anni Ottanta
quando muto ascoltavi le storie;
come quella che t’hanno raccontato ieri
e ti sei bevuto nella calura
d’un passatempo estivo.
Prenderà un treno per Roma nell’illusione
d’un lampo di labbra per poi tornare
dalla Tiburtina senza un po’ di riso.
Il transito nella galleria ha lasciato
solo un vento ad accapigliare i giornali
del giorno prima e il pietrisco del fogliame.

***

È un’altra di quelle mattine albine
da pedalare in fretta di cappucci
per non sentire l’umido;
c’è chi si consola con un bianchino
per dimenticarsi di salire sui ponteggi.
Le strade s’abbrustoliscono di castagne
e quelle bocche non sono lo stesso sorriso:
euforica ti racconta che tra qualche mese
la raggiungerà suo fratello
- stavolta non passando da un barcone.
“Spero di rimanere incinta”
e intanto per il mutuo garantiranno i suoi,
un po’ ingrassata nello sguardo,
dimagrito nell’orgoglio a ridere cinque anni fa.
Bruciano come di stagione i fuochi nei campi
e li vedi quei trattori ammucchiare le stoppie,
lì in coda autostradale verso le solite destinazioni:
finestrini calati ripensando a quelle mani
mappa delle stagioni, sentiero da percorrere.

Luca Ariano è nato nel 1979 a Mortara (PV), vive tra Vigevano e Parma. Ha pubblicato nel 1999 la raccolta di poesie Bagliori crepuscolari nel buio presso Cardano di Pavia. Numerose sue poesie sono apparse su riviste e siti letterari tra cui Frontiere, Faranews e FuoriCasa.Poesia e su antologie tra cui Oltre il tempo/Undici poeti per una Metavanguardia, curata da Gian Ruggero Manzoni per le Edizioni Diabasis (2004) e La coda della galassia, a cura di Alessandro Ramberti, FaraEditore (2005). Collabora con il sito internet Pagina Zero, Il Foglio Clandestino e La Clessidra ed è tra i redattori della rivista Ciminiera. Nel 2005 è uscita la sua seconda raccolta di poesie Bitume, con la prefazione di Gian Ruggero Manzoni, per le Edizioni del Bradipo di Lugo di Romagna.

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Su Versi di lotta e di passione di Vincenzo D'Alessio

recensione di Emilia Dente

Versi di lotta e di passione: questo il vessillo programmatico con cui Vincenzo D’Alessio, poeta meridionale, presenta al lettore l’ultima silloge poetica, la dodicesima del lungo itinerario lirico cominciato nel 1975 con la pubblicazione del testo La valigia del meridionale. La plaquette giovanile viene in questa opera sinteticamente proposta in appendice a segno del coerente e tormentato cammino ideale che, dopo oltre un trentennio, porta l’Autore a sostenere, a tratti ad inasprire, sempre a testimoniare e ad incarnare un tradizionale conflitto dicotomico. Ancora, sempre D’Alessio si propone strenuo difensore delle idee sane, purtroppo svilite e mercanteggiate sui banchi del potere, sostenitore delle rette pratiche e dei buoni principi offesi, umiliati, azzannati impietosamente nelle terra dei lupi.
“Noi siamo l’evento /meridionale la forza / antica delle idee sane / saliti in altitalia con la fame /scesi a combattere gli infami!” – è questa l’amara riflessione del poeta insonne che, tormentato, assiste alle ingiustizie che feriscono padri, figli, un intero popolo caparbio e generoso. Egli si addolora allo sguardo di madri infreddolite nell’abbraccio vuoto del focolare, freme inquieto alle delusioni di giovani fiduciosi nella luce sincera del volo e costretti poi a planare nell’ombra dei compromessi e degli interessi economici. Lo sguardo attonito del letterato irpino si infuoca e si pietrifica nello spettacolo triste del declino della sua amata terra e a tratti si solleva ad abbracciare la realtà più vasta dell’intero pianeta dove gli stessi uomini “rimasti a Caino” non lasciano libertà ai sogni e continuano ad uccidere Cristo agli angoli delle strade, continuano a ricacciare nel buio quel “Dio percosso / ributtato sull’altare / impuro dell’ odio umano”. Vincenzo D’Alessio attraversa, sul sentiero sincero dei versi, i grandi drammi dell’umanità dolente. Emergono nella loro crudezza le piaghe profonde che inverminano l’anima del mondo. Sanguinano, e, come lance velenose, si conficcano nella pelle, le immagini delicate e forti della guerra, della miseria, della crudeltà, dell’ignoranza e della superbia che irretiscono il pianeta nelle trame del male. È una preghiera impastata di luce e di rabbia la poesia del nostro autore. È l’ardore la fiamma che eterna si consuma negli occhi cavi di Tiresia. È sussurro tuonante l’urlo del cuore che si ribella, che lacera gli ipocriti veli di questa inanime comunità per indicare la strada del ritorno, il sentiero che conduce nei giardini della luce, laddove nascono i poeti e dove, sullo sfondo grigio del gretto materialismo imperante, si illumina la purezza della poesia, il valore antico ed eterno del bene.
La ricchezza concettuale e semantica del testo lirico in questione è tale e di tale intensa corposità da stridere volutamente con l’essenzialità della struttura saggia e lineare, con la nudità del verso che non si veste di troppe allegorie, non si carica di artifici letterari che distoglierebbero il lettore dalla concreta verità del messaggio. Il ritmo, meno cadenzato, più riflessivo, poggia sulla libera scelta metrica che predilige versi imparisillabi , pur non rifiutando canoni e schemi definiti.
Il ristoro del guerriero, inquieto ed affannato dopo l’ennesima battaglia culturale, civile e morale, è nello spazio immenso di un immutabile pensiero: “l’infinito è Dio e il nulla / si scolora nell’anfratto / delle paure.”

Montefusco, marzo 2006

Emilia Dente

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2 poesie vincitrici al premio Corciano

di Daniele Borghi

Sete

Sete di silenzio
necessità di quiete
Attenzione soltanto
per remoti riverberi
Voci discrete
e suoni sopiti
Vibrazioni gentili,
paesaggi sonori
Acquarelli sfocati
di aria che danza
Lontano per sempre
dalla vita che grida
La gentile risacca
di un mare tranquillo
Il fischio del vento
che muove le foglie
il trotto soave
di pioggia leggera
Ritrovare il sereno
tra i fiocchi di nubi
Un sole discreto
riscalda le vite
L'immobile aria
ne assorbe il tepore
Silenzi profondi
di candido bianco
Silenzi di neve
di laghi, di fiumi.

***

Come un prete senza fede (pubblicata in FaraPoesia)

Come un prete senza fede
Se il sogno non si avvera
non so di chi è la colpa
se l'anima mi trema
sei tu che schivi un bacio
le tombole a Natale
le feste comandate
ho scelto troppe vite
le ho prese solamente
per quello che mi danno
lo sguardo di qualcuno
che scivola nel buio
la messa troppo stanca
di un prete senza fede.

Ero davvero serio
nel dirti quelle cose
le penso e le pensavo
come credo d'esser vivo
con tanta voglia dentro
di correre e parlare
magari con l'affanno
che taglia le parole.

Sono come un capitano
rimasto senza nave
o un nomade gitano
che vuole una sua casa
recapito sbagliato
per indirizzi falsi
coprendo con il miele
la puzza di cancrena.
Aspetto con pazienza
ma non ne ho più tanta voglia
può darsi che al risveglio
io esca dalla stanza.

Daniele Borghi è nato a Roma dove si è laureato in architettura, vive e lavora. Ha pubblicato con noi Il nome di una privazione, Pinocchio non abita più qui e una plaquette in FaraPoesia.

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Due poesie inedite

di Annalisa Teodorani

I pach

Nadèl senza nàiva
e léu l’éra quèl
che i pach
u i apuzéva te capàn.
La chèrta sal fiséuri
ócc ad burdèl
la stóvva a cherosene
e una machina da cusói
fióla ad cla granda
e made in URSS.


(I doni - Natale senza neve / e lui era quello / che i doni / li appoggiava nel capanno. / La carta con le fessure / occhi di bambino / la stufa a cherosene / e una macchina da cucire / figlia di quella grande / e made in URSS.)

Znèr

Una luce
t’una chèsa
sèmpra piò in chèva
e’ régid
la nòta
e’ carnàzz ma la pórta.

(Gennaio - Una luce / in una casa / sempre più lontana / il freddo / la notte / il catenaccio alla porta.)

Annalisa Teodorani è nata a rimini l'1/6/1978. Vive a Santarcangelo dove collabora con la locale Biblioteca. Scrive in dialetto dall'età di 18 anni e ha pubblicato 2 libri: Par senza gnent (Rimini, Luisè, 1999) e La chèrta da zugh (Cesena, Ponte vecchio, 2004).

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Fuori sede (sezione della raccolta inedita Vernissage d’un mixage)

di Carmine De Falco

RISVEGLI.

Il gregge di pecore gira intorno
Al palazzo ogni mattina prestissimo
Scampanellio d’indefinito riecheggia
Incessato nel corpo. Attaccano
A lavorare di buon ora
Gli operai nell’appartamento di sotto
Martellate che per le pareti vibrano
Fino al letto, trapanate violente
E ritmiche dal marciapiede sfondano
Nel trasogno il cranio mio indifeso.
La sveglia: inopportuna. Ospiti dei coinquilini
Fragorosi. Il seno e il corpo
Di una donna che m’ingrossa. La musica
Dilettantesca di una scuola per l’infanzia. I rumori
Dei motori del via vai.
Decisivo e finale,
l’intestino.

***

12Mr0200SALERNO
SALERNO
MILANO CENTRALE
2 VIA NOCERA*CASERTA*AVERSA*
ROMA TE*CHIUSI*FI. SMN*BO C.LE*

Cosa resta
Di tutto il vissuto?
Biglietti? Del sesso,
Diagnosi e ricette, fatture
D’alberghi e date. Ricordi
Quel che ricordo?
Colazioni mai arrivate,
Qualche risentimento, tracce
Di un sintomo, odori
Di ospedale affollato e prolungato,
Libri mai letti, operazioni eluse.

***

DOVE NAUFRAGANO I PINI.

Un’unghia di luna disegna
In una notte vaginale
D’azzurro magrittiano
Corre nel tunnel pensile del mio fiato disperso
Un pino mediterraneo
Naufragato nella vallata
Tende spoglie dita di rami colme
D’aghi per carezzare
Il mio corpo, o iniettarlo? Un insetto
Nero mi morde e precipito
Nelle alterazioni oscure
Degli incubi di morte,
Inacidito male
Fuggo veloce dalla natura buia
Scansando tubi serpenti verdi giganti
Gli scheletri opachi
Di edifici in costruzione, il prato
Rasato molleggia ad ogni passo
Vorrei una voce che mi salvi dagli
Spettri freneticamente cerco
Sintetico ristoro in polvere, o in scientifica pozione.

***

Tra le chine Montagne
del primo avellinese
Adeone di verde urlano
Grigiore al fine settimana

Maggio caldo disillude
Fradicio strofino conchiglie per le mani scioglighiaccio.
Le tue unghie sfatte
Si incarnano in me stanco
Sorseggio cullando
Giocosa gioia.

***

TRALICCI.

Mi appoggio agli orli del tempo
Climatiche variazioni mi suonano
Quanto mi tocca l’essere solo.

Vestito d’azzurro-celeste, mi piaccio
Se fossi magro da cavarmi le ossa.

Ti penso immutata
Per soddisfare lacrime.

Odore di carne macinata
A buon mattino
Chiude lo stomaco e gli occhi
Del ragazzo italiano cresciuto
A dolce latte e biscotti.

Sono inquieto
Se abbracciassi il mio corpo.

Strani esseri invertebrati
Popolano la mia notte a Fisciano.

In bilico flebile figura
Instabile. Scoordinate non cadute.
Sogno la tua bocca per un buon servigio.

***

ZOLLE.

Biblioteche di facce e note e triste e segnate
Da laureandi e tecnici e scoppiati
Piena estate di pulitura di libri e calura
Post-pranzo, e desolata
Area umanistica
Spolveratori e in divisa e grigio-blu e pausano
Sigarette nel cortiletto e vuoto e di mattoni e cotto
E vetri con persiane e verdi e
Quadrilatero di chiuso e di vertiginale cielo e rotto.
E chiacchiere e telefonate e spiegazioni
Rifugio dei rumori e dai silenzi
Delle sale-lettura. Riaperto
A noi vecchi non appartieni più.
Vizioso motivo valido per goderne di nuovo.
Il leader dei manga-boy gira a vuoto nel
E caldo di appesi e concetti e di e meccanica e!

Carmine De Falco, nato a Napoli nel 1980, trascorre l’infanzia a Pomigliano d’Arco. Vive i primi anni d’università tra Napoli e Salerno, con una parentesi lavorativa a Roma e nel 2003, vinta una borsa Erasmus, trascorre sei mesi in Finlandia, dove accumula esperienze e riflessioni da cui nascerà la silloge Linkami l’Immagine (con la quale ha vinto il concorso Pubblica con noi 2005). Si laurea in Scienze della Comunicazione nel 2005 e matura esperienze lavorative come Web Editor. Altri suoi inediti si trovano nel sito di Chiara De Luca.

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Su Doveri dell’esilio di Juan Gelman* (Interlinea 2006)

di Maria Rosa Pantè

Non si può scrivere di Juan Gelman senza ricordarne le drammatiche vicende biografiche, legate al nero periodo della dittatura militare argentina. In quegli anni, mentre il poeta, già noto, andava in esilio, il figlio e la nuora, giovanissimi, furono torturati e uccisi. La nuora era incinta, prima di essere uccisa, partorì una bambina che venne data in adozione ad una famiglia di poliziotti. Gelman è da poco riuscito a ritrovarla e a farle conoscere la verità.
Ricordare il suo nome solo per le personali vicende del dolore e dell’esilio, sarebbe però fargli un grave torto. Infatti bisognerebbe aggiungere subito che Gelman è prima di tutto un poeta, un grande poeta. Nel bellissimo discorso tenuto al Festival di poesia civile della città di Vercelli, che l’ha premiato nel settembre 2006, Gelman ha infatti affermato che si può essere poeti anche senza aver provato quello che ha vissuto lui, e anzi lui stesso era già un poeta prima che la sua vita avesse una svolta tanto drammatica e dolorosa. In realtà Gelman nel discorso fa un’apologia della poesia civile, semplicemente dicendo che, alla fin fine, tutta la poesia è civile, tutta la poesia nasce da un’occasione, tutta la poesia e i poeti cercano di dire la loro ossessione e di evocare un mondo utopico di bontà che non esiste. In effetti il tema della bontà, del sogno d’un mondo migliore è centrale nella plaquette, edita da Interlinea, dal titolo Doveri dell’esilio, che contiene poesie scelte da Gelman e scritte durante gli anni dell’esilio, in Europa. Solo la lirica d’apertura è un inedito.
Le poesie scelte da Gelman, dunque, ripercorrono l’esilio e i dolori, le angosce del periodo della dittatura che uccide “tutto quello che si muove per amore” (p. 13). La dittatura ha torturato e assassinato gli amici (come il Ronco p. 14, che faceva navigare la pizzeria “come latte di fiori, acque candide”), la nuora Claudia (p. 17) cui Gelman dedica versi bellissimi “tu claudia t’alzavi come un uccellino / aprivi gli occhi e cominciava lo splendore del giorno / entravi dolce a combattere / con i tuoi spari d’eternità”, infine il figlio, rievocato come un bambino, che ha nel palmo la luce, forse la luce della storia, d’un modo diverso, un mondo appunto di bontà (p. 47).
Uno dei doveri dell’esilio è dunque ricordare i propri morti, la propria patria. Ma la memoria è anche uno dei compiti essenziali d’ogni poesia. Così nel tema principale dell’esilio e della dittatura, come in un fiume maestoso, confluiscono altri fiumi, affluenti, altri temi, e uno di questi è proprio la riflessione sulla poesia. Certo la poesia nell’esilio è irta di difficoltà “quelle poesie che ieri hai scritto / girano per la stanza non / brillano come brillavano di notte / quando si alzavano nude come deliri a venire // per quanto camminino non arriveranno al tuo paese / il tuo paese è questa stanza piena del tuo paese” (p. 25), ma è comunque un rifugio, un mondo popolato da tutti i poeti probabilmente più amati da Gelman che si ritrovano nella lirica dal titolo esplicito “ancora usignoli” perché il poeta canta, e alla fine saffo dona riparo all’usignolo-poeta che “canta canta canta” (p. 28). La poesia è bellezza, “qualcuno ha messo la bellezza nel mio cuore”, la poesia deve essere di tutti come la terra “la poesia / deve essere fatta da tutti e non da uno / che è come dire che la terra è di tutti e non di uno solo” (p. 45). In sostanza Gelman ci dice che la poesia è madre e sostentamento indispensabile all’uomo proprio come la terra. È naturalmente anche un potente messaggio sociale e appunto civile. L’importanza della riflessione sul dire poetico sta nel fatto che l’inedito è proprio dedicato a questa parola, che si spinge al limite estremo, quasi invalicabile e si installa nel corpo come un corpo: una caratteristica propria della parola poetica e di nessun altro dire umano.
Forte, sia pur un poco più marginale, è il tema dell’amore, non solo per gli amici e i figli, ma anche per la donna, descritta con accenti nerudiani, pur nell’originalità di Gelman “giacevamo in un letto d’amore/ lei era un’alba di alghe fosforescenti” (p. 39).
Tutti i fiumi della poesia di Gelman sono caratterizzati dal suo stile cantabile, reso mirabilmente dalla traduzione di Laura Bianchini. Lo stile è poeticamente immaginifico e tutto avvolge come spesso accade negli scrittori latinoamericani, caratterizzati dalla fascinazione del raccontare, ma soprattutto dal germinare delle metafore: “il compagno tagliava la tristezza / con la sua forbice d’oro / si alzava” (p. 23) e delle immagini che scaturiscono sia dal mondo comune sia da potente e trasfigurante immaginazione. Ne sono prova le similitudini azzardate: la parola geme “come una gru impazzita / come uno spreco del destino” (p. 9) oppure “la notte ti colpisce in faccia come i piedi di Dio” (p. 31); addirittura il respiro talvolta è dantesco, quando muore torturato un caro amico “gli angeli cominciarono a grattarsi furiosamente” (p. 13). Il poeta usa del linguaggio con grande perizia e non esita a trasformarlo secondo le esigenze del suo sentire e del suo dire e così nascono neologismi come “bimbavamo” (p. 11) oppure “donnava” (p. 41). A dare un ritmo originale sono le frequenti e imprevedute anafore, le cantilenanti ripetizioni, i rimandi, le parole riprese identiche o fantasiosamente modificate: “adesso passano i compagni con la lingua serrata / passano tra i piedi e i sentieri dei piedi” (p. 31).
Alla fine del libro, alla fine (esiste?) dell’esilio si trova uno scritto in prosa, Il patto, che ci dona la chiave più profonda e più universale della raccolta: “l’intelligenza e l’istinto accendono fuochi nella notte, ma è dall’infinito che siamo esiliati” (p. 55). Però come un bambino beve il sole, possiamo attingere a questo infinito e sentirci meno esiliati grazie al sogno, il sogno d’un mondo migliore e perciò un sogno politico, e grazie alla bellezza, e, finalmente, alla poesia.

*Ecco qualche notizia sulla vita di Juan Gelman. Nato in Argentina nel 1930, durante la dittatura dei militari, essendo già un poeta affermato, dovette subito andare in esilio. Però la dittatura lo colpì terribilmente (come fece con molti suoi compaesani) quando venne rapito, torturato e ucciso suo figlio di 20 anni. Insieme a lui venne rapita la nuora, diciannovenne, incinta di 8 mesi. La ragazza venne portata in Uruguay, le fecero portare atermine la gravidanza, poi la uccisero e la bambina venne data ad un militare uruguayano. Una storia simile a molte altre purtroppo. Grazie ad un’intelligente azione investigativa, però, qualche anno fa Juan Gelman ha infine ritrovato la nipote, ignara ovviamente delle sue origini, e ha potuto riabbracciarla. Gelman vive attualmente a Città del Messico, ma spesso torna in Argentina dove vive un’altra figlia.
Durante l’eslio è vissuto in Europa e ha sempre cercato di portare l’attenzione del mondo su qunto avveniva in Argentina. Ha continuato a scrivere ed è oggi considerato il più grande poeta argentino vivente.

Maria Rosa Panté è nata nel 1961 a Borgosesia, cittadina in provincia di Vercelli dove vive. Insegnante di materie letterarie in istituti superiori, attualmente si occupa della produzione di materiale multimediale e ipertesti per la didattica. Ha pubblicato un libro di poesie e prose, L’amplesso retorico. Voci femminili dal mito (2004) e nel 2006 un libro di racconti: Noi che non fummo muse (Manni). Ha partecipato a diversi concorsi di poesia e narrativa, conseguendo premi sia per la produzione poetica, che per la prosa e la saggistica.

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Esistere e non essere

di Giuseppe Callegari

I miei rifiuti

Docente discente
Rosari di parole
Scimmie ammaestrate
Recitate
Strappate
Respinte

Esistere e non essere
Riconoscimento di sé
Disvelamento dell’altro

Coriandoli di vite
Decomposte, ricomposte, frammentate.

Inutilità di disquisizioni teoriche
Destra e sinistra
come punti cardinali
Bussola di cammini semplici,
disgregati
Mossi da incoscienza
O forse solo da non conoscenza

Fastidio
Rifiuto
Sconforto
Rabbia
Desiderio di pulire la scrivania quotidiana
di quei piccoli e insignificanti pulviscoli,
strumenti disarmonici di un suono non omologato

Desiderio
di abbracciare corpi,
umidi e sudati,
che colorano gli occhi
e agitano il cammino
di una indefinibile
(vera, disperata, consapevole, radiosa)
essenza.

Cose semplici e banali

Il ripetitivo
corso della quotidianità
è squarciato dalla morte.
Solo le cose più semplici,
apparentemente banali,
aiutano a riempire di senso
la spaventosa sensazione dell’assenza.


Parole

Parole che camminano
Sprofondano in mota amorfa

Orme cancellate

Parole che volano.
Ragnatele di nubi nere.
Avvinghiano
E vomitano

Parole che non si posano
Evaporano e si dissolvono

Parole
Orfane di luogo e tempo
Copulazione per partenogenesi

Mete inconsapevoli

Parole che non lasciano traccia
Solo ricordi confusi

Peregrinazioni labirintiche

Fino a quando tutto scompare.
Rimane solo il nulla
Da riempire
attraversando suoni invertebrati.Parole inutili
di un girotondo senza posa.

ottobre 06

Giuseppe Callegari ha pubblicato con noi L'amore si sporca le mani e Messa a fuoco manuale. Sue poesie sono rintracciabili in diversi Faranews.

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Monachesimo e riforma liturgica

di Bernardo Francesco M. Gianni

Fedele alla sua tradizione tipicamente benedettina di accoglienza, l’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore ha recentemente ospitato un importante convegno internazionale dal titolo «Monachesimo e riforma liturgica. Bilancio e prospettive a 40 anni dalla Sacrosanctum Concilium». Come è consuetudine degli Incontri di Monte Oliveto, ormai da vari decenni organizzati nella stupenda cornice della casa madre della Congregazione olivetana, queste giornate di approfondimento interdisciplinare intendono offrire, ogni tre anni, un’occasione tanto di formazione permanente per tutti i religiosi e in particolare per i monaci e le monache della Confederazione benedettina, quanto di approfondimento culturale a una porzione significativa del laicato ‘impegnato’ che sempre più desidera trovarlo nella quiete dei monasteri.
Due tratti distintivi parevano agli organizzatori necessari per una effettiva fruttuosità del simposio in questione, svoltosi dall’11 al 13 settembre: innanzitutto offrire una sorta di bilancio complessivo sulla riforma liturgica, che includesse altresì uno sguardo sulle impegnative prospettive in ordine ad una più sapiente assimilazione dei contenuti teologici ed antropologici propri della riforma stessa, anche in vista, conseguentemente, di una loro più coerente e indifferibile attuazione. Inoltre sembrava davvero importante creare l’occasione perché diverse comunità monastiche non solo italiane, ma anche straniere, e in particolari francesi, potessero incontrarsi e testimoniare il cammino fatto per attuare la riforma stessa e quindi render conto dell’effettivo rinnovamento liturgico da loro compiuto, i problemi incontrati, le prospettive future.
Ad Andrea Grillo, docente di teologia sacramentaria e liturgica alla Pontificia Facoltà di Sant’Anselmo a Roma e a Giorgio Bonaccorso, preside dell’Istituto di Liturgia pastorale di Santa Giustina a Padova, sono state affidate le prime relazione di carattere più generale, relative pertanto al senso teologico e agli aspetti pratici del «‘riformare’ la liturgia» (Grillo) e al rito stesso «tra fede e cultura», e debitrici senz’altro di quel notevole patrimonio di riflessione che partendo soprattutto da Romano Guardini e da Odo Casel e arrivando fino alla fenomenologia e alle nuove antropologie teologiche, include la scoperta della stessa liturgia come ‘forma’ simbolica che è ‘fonte’ della vita della Chiesa, in una ritrovata attenzione all’agire rituale e alla sfera propria della corporeità. Non si fatica a comprendere come si debba ascrivere la paternità di tale fondamentale novità al cosiddetto Movimento liturgico, ovvero quel movimento di ripensamento radicale del ruolo della liturgia nell’ambito della fede cristiana che ha portato non soltanto ad autorevoli pronunciamenti magisteriali (Mediator Dei nel 1947 e Sacrosanctum Concilium nel 1963) ma anche ad una riforma della prassi celebrativa e ad una nuova attenzione culturale e spirituale per l’atto liturgico nella cattolicità, lungo tutta la seconda metà del XX secolo. Sorto infatti a partire dai primi anni del secolo scorso col fondamentale contributo di Lambert Beauduin, Maurice Festugière, Odo Casel e Romano Guardini, questo movimento è stato riconosciuto dalla stessa Costituzione Sacrosanctum Concilium come «segno dei provvidenziali disegni di Dio sul suo tempo, come un passaggio dello Spirito Santo nella sua Chiesa» (SC, 43). Si pensi infatti a come una semplice definizione della liturgia come «culto della chiesa» (Beauduin) abbia permesso di riscoprire alcune verità dimenticate dall’autocoscienza ecclesiale. In primo luogo, il culto della chiesa si caratterizza come cristiano proprio in quanto si pone in continuità con il culto di Cristo; in secondo luogo esso è culto comunitario perché rende visibile la natura stessa della chiesa, convocata intorno al suo Signore. Da questa semplice definizione viene di fatto superata una visione puramente giuridica, storica o archeologica del culto liturgico, e viene invece ricompresa la sua natura teologica e fondamentale per l’identità ecclesiale e per l’atto di fede. Si è sopra accennato al recupero dell’importanza della dimensione rituale, interpretata e soprattutto esperita quale interruzione del corso ordinario della esistenza, capace pertanto di trasfigurare quest’ultima attraverso uno «stacco simbolico» inteso «come possibilità che la vita prenda senso» (Grillo). La liturgia di fatto non si vive soltanto entro orizzonti puramente cognitivi ma soprattutto e fondamentalmente come autentico ‘agire\fare esperienza’ ecclesiale, da parte di tutti i battezzati almeno –ordinariamente- la domenica nell’Eucaristia celebrata nella propria parrocchia o altrove. Già questa settimanale esperienza di vita e di rito dovrebbe essere sufficiente per assicurare ad ogni credente il superamento di una visione intellettualistica della rivelazione e quindi la scoperta incessante della storia e della libertà come dimensioni proprie dell’incontro con Dio per Cristo nello Spirito, di cui comunitariamente si fa memoria celebrata e celebrante nel tempo e nello spazio, non senza rinunciare al linguaggio eloquente e significativo del corpo: davvero così, come dice Sacrosanctum Concilium, mediante la liturgia «si attua l’opera della nostra redenzione» (SC, 2).
Convinzione forte dei due primi relatori è che, di fatto, il compito del Movimento liturgico non sia terminato e che è anzi necessario che quest’ultimo sopravviva in una nuova stagione di ricerca che superi la limitante e fuorviante equazione fra rinascita liturgica e ‘riforma liturgica’, quasi che compito della Chiesa sia soltanto riformare il rito e non piuttosto lasciare che la liturgia, la sua natura profondamente e pienamente teo-logica e il suo incommensurabile portato simbolico-rituale, riformi essa stessa la Chiesa della cui azione è e dovrebbe sempre più autenticamente essere «culmine» e, «al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia» (Sacrosanctum Concilium 10).
Una immediata verifica di quanto diceva efficacemente Cipriano Vagaggini, grande protagonista della teologia liturgica nella stagione conciliare, e cioè che «la riforma non è la soluzione dell’aporia liturgica» è venuta dalla relazione di un monaco di Bose, Goffredo Boselli, apprezzato studioso formatosi al celebre Institut Catholique de Paris. Questi ha messo in discussione, forte di una ricca documentazione basata su autorevoli fonti relative alle prassi ecclesiali più antiche, la consolidata e ormai diffusa prassi della concelebrazione e della frequenza quotidiana dell’Eucaristia. Senza nessun intento provocatorio e senza voler innescare alcun sterile contenzioso, il relatore si è limitato a mettere in luce come in forza di una più recente riflessione ecclesiologica e dell’apporto documentario delle scienze storiche, così come delle oggettive sollecitazioni del nostro hodie (si pensi alla rarefazione dei presbiteri e alla dispersione geografica di tantissime comunità religiose femminili), si debba forse tornare a riflettere sulla possibilità di avviare nuove prassi in ordine a questi temi così delicati. In particolare nel contesto specialissimo delle comunità monastiche, la loro abbondante e quotidiana dedizione al sacrificium laudis nella liturgia e all’ascolto della Parola di Dio nella lectio divina, potrebbe agevolare l’eventuale riscoperta, anche sperimentale, della prassi antica (tutt’ora viva nelle Chiese ortodosse) della sola celebrazione eucaristica domenicale, per restituire così un ritmo ebdomadario all’esperienza pasquale della comunità credente, sottratta al rischio non trascurabile di un certo logorio. Di fatto, nel confronto fra diverse esperienze liturgiche, è emerso come non poche comunità monastiche, fra cui Camaldoli e Bose, abbiano abbandonato la frequenza quotidiana dell’Eucaristia. Se Paul De Clerk, direttore della nota rivista francese «La Maison Dieu», prestigioso periodico di liturgia fondato nel 1945, con la relazione intitolata «La Costituzione Sacrosantum Concilium oggi: ricezione teologica, applicazione pratica e tentazione di ripiego», ci ha offerto fin dal titolo un’ulteriore conferma di quanto il lavoro che resti da fare sia molto più ampio e complesso di una semplice ‘rivoluzione’ rubricistica in ordine al rito, Dom Daniel Saulnier, monaco dell’Abbazia di Solesmes e docente presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma, ci ha ricordato come, secondo il dettato di Sacrosanctum Concilium, al canto gregoriano, «canto proprio della liturgia romana», debba essere riservato «nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni (…) il posto principale» (SC, 116). Anche alla luce di tale indicazione di somma autorevolezza magisteriale, per lo studioso si evince la problematicità di varie prassi liturgiche successive, sovente polarizzate o in una rigida e indiscussa conservazione del canto gregoriano o in una sua antitetica, totale messa in liquidazione. A giudizio di Dom Saulnier la grande tradizione monodica, di fatto, può rappresentare, nella frammentazione dei linguaggi e delle culture del nostro contemporaneo ‘villaggio globale’, un linguaggio musicale condivisibile da tutta la cattolicità senza tuttavia disimpegnare liturgisti, musicisti e comunità dalla ricerca di nuovi linguaggi musicali e da seri tentativi di inculturazione del patrimonio musicale tradizionale, specialmente nel contesto delle più giovani chiese di missione.
Le giornate di riflessione liturgica trascorse a Monte Oliveto sono parse a tutti un felicissimo momento di formazione culturale e di reciproco arricchimento. È poi sembrata evidente ai molti monaci e monache presenti la necessità di individuare, per il bene stesso della communio monastica italiana, un luogo di periodico incontro e uno strumento editoriale di regolare collegamento per consolidare, o dove necessario avviare, un serio lavoro di confronto e di riforma in quel tipico laboratorio di fedeltà e di innovazione che è la liturgia monastica, cosa che del resto accade da anni e con fecondi risultati nei paesi francofoni per opera soprattutto della Commission Francophone Cistercienne, la cui quarantennale storia è stata narrata da Dom Gérard Dubois, noto e apprezzato abate trappista. Un analogo servizio nel nostro paese, oltre ad aumentare una consuetudine di reciprocità fra le nostre comunità monastiche, potrebbe contribuire non poco a far corrispondere meglio la qualità delle nostre liturgie a quella eccellenza che la teologia liturgica italiana ha guadagnato negli ultimi decenni, grazie soprattutto alle scuole di Sant’Anselmo a Roma e di Santa Giustina a Padova e grazie ai nomi, fra gli altri, di Cipriano Vagaggini, di Salvatore Marsili, di Pelagio Visentin, di Aldo Natale Terrin, di Alceste Catella, degli stessi Giorgio Bonaccorso e Andrea Grillo (di quest’ultimo, in particolare, sono pure assai debitrici queste mie note).
Attraverso il ritmo serrato della liturgia monastica, il susseguirsi delle relazioni ha come trovato in quel mirabile “golfo mistico” che è l’antico coro ligneo di Monte Oliveto un immediato approdo di verifica esperienziale e quasi una sorta di ideale sponda da cui ripartire per un necessario, dinamico lavoro di ricerca e di innovazione radicate nella traditio: tornavano così in mente le parole dell’abate Salvatore Marsili: «La liturgia è una cosa viva, ma solo se è dinamica, volta cioè verso l’avvenire, con l’avvertenza che il suo dinamismo è tra due poli: quello del mistero di salvezza realizzato da Cristo e quello dello stesso mistero di salvezza da realizzarsi in noi».

Bernardo Francesco M. Gianni è nato a firenze il 28-xi-68. Laureato in Lettere antiche su un testo umanistico di Coluccio Salutati, entra in monastero nel 1996, a San Miniato al Monte. È monaco benedettino olivetano, professo perpetuo dal 2001, "prete" dal 2006. Per contatti:
Abbazia di San Miniato al Monte, Le Porte Sante, 34 – 50125 Firenze
tel. 055.234.27.31 - fax 055.234.53.54 - mail: sanminiato@tin.it

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