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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 83
Novembre 2006
Editoriale:
Questa sì è poesia domestica
Così afferma (ironicamente) Cristina
Babino in una delle poesie che aprono questo numero. La letteratura
deve aver a che fare con il quotidiano, ma per farlo lievitare a metafora,
per trasfigurarlo ("una risata che passa / come uva nella stanza").
Anche Sinicco, recensito dalla Nostra, "è
immerso nel presente e nella storia" e così la parola deve
"passare" nei molteplici sensi di questo "infinito":
transitare, percolare, tracciare, stendere, trascorrere, maturare…
senza questa immersione risulterebbe soffio inerte. La plaquette inedita
di Alessandro Moscè ci lascia allora sfogliare
l'album dell'infanzia: "Il banco di scuola è circondato
di buio, / la suora è andata via…". I versi in siciliano
di Marco Scalabrino e quelli in santarcangiolese di
Annalisa Teodorani si segnalano per la loro capacità
di lasciare anche tracce visive nella nostra memoria; mentre quelli
di Giuseppe Callegari, Luca Ariano,
Daniele Borghi e Carmine De Falco
ci calano, con provocante understatement o ex abrupto, nelle contraddizioni
del nostro mondo. Abbiamo poi le recensioni di Emilia Dente
a Vincenzo D'Alessio e di Maria Rosa Panté a
Juan Gelman. Conclude la rivista un articolo programmatico e intenso
di Bernardo M. Gianni su "Monachesimo e liturgia".
Buona lettura.
"Questa
sì è poesia domestica" e recensione a Christian Sinicco
di Cristina
Babino
La sera m'impone compagnia.
Nel bicchiere
il discreto naufragio
del silenzio che non dico.
Addomestico l’umore
e le labbra
a una spuma
che sa di capodanno.
Una risata passa
come uva nella stanza.
***
Ci teneva stretti il vicolo
nell’incastro imbalsamato
dei mattoni
la notte che i gatti
ci sorpresero a pisciare
sui portoni delle case
imprevisti come una visitazione
e contro le ringhiere
in equilibrio
sopra i neon della città
vecchia di ciottoli e viali.
(i due testi qui sopra sono tratti da L’opera continua,
a cura di Giampaolo Vincenzi, Giulio Perrone Editore, Roma, 2005)
***
provincia
ruralità sommersa
di bastioni industriali
asfalti opachi
lavori in corso
e case popolari
sto attenta al cane
e al padrone
come vuole la scritta
sul cancello dei vicini.
***
Il riposo
Ai padri una domenica
da autolavaggio
Ai figli il funerale
di una lucertola
che non vuole fiori
né opere di bene
ma urla feroci
di ragazzini rincorse
sudate di pallone
nei cortili acciottolati
e sfranti tra i palazzi.
***
Domus Aurea
Il mattino ha un’ascia in bocca
il latte scaldato nel tegame
la moca sibila distratta.
La lista della spesa manca
sempre qualche cosa.
Questa sì è poesia domestica
casalinga giostra che non sale
e rotola ipnotico
l’oblò di lavatrice
come ruota di criceti
insaponati.
Novanta gradi non fanno
mica angolo retto
semmai col prelavaggio
la biancheria settimanale.
***
Senza dramma
Il fianco regge ancora ma per quanto
lo scuote il dito lento che ripassi
in nero di seppia e china tatuata
esplori l’algebra modesta
di segni e smagliature che porto
mio malgrado in geografia
e in dote insieme agli anni
trascorsi in fila indiana
senza fretta e senza dramma.
S’è perso il tempo
il filo il conto
e l’occasione.
***
Su Passando
per New York di Christian
Sinicco (Lietocolle, 2005)
Dalla copertina ti fissa con un’aria tra il malinconico e l’assorto.
Come se si fosse appena ora sollevato dalle sue carte (carte che non
si vedono, però), interrotto da un ipotetico avventore.
È un uomo. No. È una donna. No. È tutti e due.
Ed è umano. No. È un’animale. No. È una chimera.*
Ha testa umana e torso pettuto e zampe di grifone. Brandisce una stilografica
come un’alabarda, come un vessillo, come un gallone. Ma non c’è
intenzione bellicosa nel suo sguardo. O meglio, se pur c’è
intenzione violenta, è di quella “violenza intellettuale”
di cui, sola, si sentiva capace Pasolini.
Allora è un poeta. Oppure un novello Tiresia, l’indovino
cieco uomo e donna che non vede il presente e già sa il futuro.
Ma qualche gioco di dèi deve avergli restituito la vista, perché
i suoi occhi sono bene aperti e vivi. E vedono. Gli uomini e la storia.
Christian
Sinicco è immerso nel presente e nella storia. La vive, la
medita, a suo modo la com-prende e la de-scrive. È immerso nel
presente e nella storia suo malgrado, come ogni essere umano, e del
tutto consapevolmente e volutamente, come ogni intellettuale che non
si limiti a “contemplarsi l’ombelico” – per
dirla con Ferlinghetti – ma che intenda uscire dal guscio rassicurante
dello scaffale e del circolo poetico per sporcarsi le scarpe calpestando
la piazza, per camminare tra la folla e con la folla, per levare alta
una voce che sia l’eco poetica di un dissenso che non è
soltanto critica ai sistemi e alle politiche, ma è prima di tutto
vocazione.
I testi raccolti nell’opera prima di Sinicco sono passaggi,
come l’autore stesso li titola.
Un passaggio è un viaggio. Breve o lungo che sia, il viaggio
è fatto di transito e sosta, e necessita di un bagaglio. Sinicco
transita, letteralmente passa per i luoghi del mondo più
fatalmente simbolici dello scorcio storico contemporaneo. New York prima
tra tutte, per la sua ovvia eccezionalità, per l’attuazione
drammatizzata e spettacolizzata di un conflitto reale e profondo che
solo dopo l’11 settembre si è manifestato in tutto il suo
disgraziato gigantismo. E poi Belfast, la striscia di Gaza, l’Argentina,
con un occhio ancora memore e accorto sul passato (“l’ingiusta
giovinezza mia / addiziona le Madrid / Rome coi tricolori
/ Berlin bombardate / Hiroshima vuote / Paris
occupate dai palazzi / ciudad lacerate…”), forte
di una visione stereoscopica e inclusiva del sé nella concatenazione
degli eventi: “Guardami storia / mentre scelgo di piangere stamattina
/ la polvere sui libri chiusi / come una scintilla morente;…”
. In questo sta la sosta: nella meditazione sugli eventi, vissuta come
necessità e in qualche modo missione, nell’autoinclusione
del poeta nello scenario farraginoso del mondo, nell’individuale
rielaborazione del suo pensiero in una forma poetica di cui si avvertono
lancinanti il desiderio di comunione con le folle, l’esercizio
di onestà umana e intellettuale, lo sforzo di comprensione del
senso e di restituzione critica fedele di un realtà storica in
continuo, dialettico divenire, e che i soliti potentati vorrebbero invece
sempre semplificata, banalizzata, edulcorata a loro beneficio, ad uso
e consumo delle masse.
Sinicco non compie
il suo viaggio da solo: con lui ha un bagaglio che a un tempo è
preziosa zavorra e sublime elevazione. Nei suoi passaggi lo accompagnano
infatti numi tutelari, straordinarie guide poetiche, di cui Sinicco
(nato nel 1975 a Trieste, città dove tutto è incrocio
e confine, territorio letterario ingombrante e gravido di un passato
che tuttora si allunga sul presente) non teme di sfidare la “sacralità”
accostandoli l’uno all’altro in un nuovo disparato Parnaso,
riassemblandoli in soluzioni insolite e spesso coraggiose, riesumandoli
dalla loro storicità poetica per immergerli in contesti tormentati,
vivissimi, attuali. Hirschman, Ginsberg, Thomas, Pound, Whitman, Yeats,
Rimbaud, Alberti, Montale, Leopardi e la Dickinson, ma anche l’amico
Matteo Danieli, sono alcuni dei nomi che a un tempo ispirano, guidano,
accompagnano la ricerca di un senso, di un vero che si sganci dall’esercizio
poetico d’accademia per aderire il più possibile alla stagione
“presente e viva”, alla concretezza bruciante del dato storico,
agli inesorabili passaggi evolutivi – e a volte involutivi –
della civiltà.
Sinicco
non passa solo per luoghi di conflitto: nella raccolta passa anche per
luoghi interiori, personali, che sembrano intermezzi concessi al sé,
di estrema delicatezza e quasi timidi, ritrose incursioni nel privato
di un’opera, di un’ispirazione altrimenti del tutto estrovertita,
in cui prevale la tendenza discorsiva, l’affabulazione dialettica
del verso.
Chiude Passando
per New York una lunga appendice in cui Sinicco aggiunge ulteriori
strumenti di gnosi alla propria raccolta. Non proprio un autocommento
e non ancora un’aperta dichiarazione di “poetica”.
Piuttosto, come recita il titolo dell’apparato, una bibliografia
postulata dall’autore, un memorandum dove Sinicco
ripercorre le fasi creative e la genesi dei testi, a volte con singolare
precisione cronologica (come nella postilla a Primo passaggio su
New York in risposta ad un Arcano di Jack Hirschman), a volte esprimendo
una precisa posizione, etica prima che politica (rispetto agli esiti
più contemporanei della storia mondiale e ai guasti causati dalle
eterne prevaricazioni dei poteri forti), altre volte ancora ricorrendo
a ricordi personali e a tratti quasi commossi, come nella nota alle
Melodie finali di Edgar Allan Poe per Annabel.
Appunti in calce che non aggiungono senso o forza ai testi, in se stessi
del tutto compiuti e indipendenti e, per questo, capaci di una vita
autonoma, ma che semmai propongono una prospettiva in più, suggeriscono
elementi ulteriori di riflessione, di dibattito anche, nella convinzione
profonda di una poesia che sia, nella ricerca espressiva, esercizio
personale di coscienza e di incitamento alla consapevolezza altrui,
che sia impegno ogni giorno rinnovato e ri-creato.
* L’immagine di copertina è opera dell’artista
e poeta triestino Ugo Pierri.
Cristina Babino è nata
ad Ancona il 24 luglio 1976. Ha pubblicato la raccolta di poesie L’abitudine
del cielo (Blu di Prussia, Piacenza, 2003 - prefazione di Alessandro
Seri) e suoi testi sono inclusi in varie antologie, tra cui L’opera
continua (a cura di Giampaolo Vincenzi, Giulio Perrone Editore,
Roma, 2005). Si è laureata in Letteratura Italiana presso la
sezione Arte del DAMS di Bologna con una tesi dal titolo Montale
critico d’arte, discussa con Gian Mario Anselmi e Alberto
Bertoni. Affianca alla produzione poetica l’attività critica
e giornalistica, ed è stata redattrice del mensile di cultura
«Buon Gusto Marche». Suoi testi poetici tradotti in inglese
sono recentemente apparsi su diverse riviste di poesia contemporanea
britanniche, tra cui «Aesthetica» e «Coffee House
Poetry». Ha vinto diversi premi letterari, tra cui il Premio Rabelais
(edizioni 2004 e 2005) ed è membro della giuria del Premio “Poesia
di Strada” di Macerata. Attualmente vive e lavora a Bristol. Il
suo sito lacuginaargia.splinder.com
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Malinconia
immobile
di Alessandro Moscè
Malinconia immbile è una plaquette di
sedici testi poetici imperniati intorno ad un'età, quella dell'infanzia,
e alla carissima figura dei nonni. Un'atmosfera di gradazioni, nei toni
e nei colori, riporta il ricordo capillare di episodi, per lo più
casalinghi. Si cerca di sfuggire al tempo per trattenere il tempo. Al
centro del mondo infantile le presenze di chi non c'è più
sembrano ancora vive, perfino tattili.
1.
Appartamenti che ridanno
la luce fioca del corridoio,
i respiri sudati in casa,
le magliette e una palla da tennis
nella vacanza perfetta.
La dolcezza di un abbraccio,
il silenzio e le risate
dell’unica infanzia
afferrano le cose
in una docilità sciupata.
Eravamo da nonno Ernesto
per i gesti d’affetto
che si affacciano a Natale
nell’avventura casalinga
tra le mani e la voce
dei grandi.
L’album dell’infanzia scorre,
di mobili, di tavole,
di tagliatelle e mercanti in fiera,
di fine settimana.
2.
Sono solo, nonno,
senza le carte dell’infanzia
nella notte ottobrina
e nell’ignoto che segue.
Ti spiavo il pomeriggio
mentre dormivi qui da noi
e russavi con la luce accesa
sul sofà arancione.
Oggi come l’ultimo ieri
nella tenera famiglia
dei tanti ieri
che non si stancano di tremare.
Ti tiravo i baffi,
contavamo le figurine dei calciatori,
ascoltavamo le partite alla radio.
Il rito del dolce passare
dietro la tua porta
non si è ancora concluso.
3.
Il caffè e la sigaretta,
il dopobarba verde.
Sulla mensola non ci sono più
da vent’anni
gli oggetti della consolazione.
Si è tranciato il tempo trasparente
senza una cifra sul diario
delle elementari.
Dove sarai nonno,
in una città lontana
dove non ci si riconosce,
ancora con il soprabito e la cravatta chiara,
tra la folla veloce
nella memoria intatta,
nel mio giro d’ansia.
Il panettone con i canditi,
il torrone morbido,
il distacco terribile del tempo
sulla tavola spoglia:
la corrente autunnale
riporta tutto
senza più materia,
senza più possesso.
4.
Il banco di scuola
è circondato di buio,
la suora è andata via
con l’odore del refettorio.
È un sogno soppresso
la luce tradita di malinconia
se il tempo non è fermo
nella felicità del ’77.
Le partite alla radio
vibrano di voci lontanissime,
del salotto con i piatti sporchi,
delle arance cadute sul pavimento.
Un giorno ascolterò
la mia storia di Natale,
un giorno che mi visiterò
con i luoghi chiusi,
dentro le case,
sull’Ancona del porto,
dei viali freddi
scoperti sottobraccio.
5.
Vado di nascosto
nella casa dei nonni
con la stufa in corridoio,
nella fragilità dell’insonnia
che accende luci
e illumina specchi
di sbiadite forme.
Busso alla porta
e non risponde nonno Alvaro,
ma San Ciriaco alita di mare
con le navi che gravano,
che fuggono gli anni
portandoli ad oriente.
Le case non sono più le stesse,
come i vestiti che cambiano
di misura e di colore.
Tradiscono i nomi e i muri,
i viaggi senza amnesia.
6.
Quando il mare si quieta
le mura ascoltano
i fruscii che salgono,
l’amore che ritorna
dalla notte di pece
di via Pizzecolli.
La morte si fa vedere
in un’Ancona attonita
che avvolge i contorni,
che spia la memoria.
Troppi anni
sono usciti dalla ragione,
troppe cose sono scomparse.
La vestaglia di nonno Alvaro,
la camicia da notte di nonna Irma,
il vaso sotto il letto.
E quel quadro alla parete
che rivede solo la mente?
Poche lune
traducono il pianto
delle ombre commosse.
7.
La penombra galleggia
nei mobili scuri
e inventa la sala da pranzo
dove nonno Ernesto
fumava la sua Muratti
e bruciava la formica di cenere.
Scopro la tovaglia a quadretti
e il segno è netto
dopo trent’anni.
Ci vuole solo la notte
per scoprirlo ancora,
un tuffo al cuore
mentre cammino
a piedi scalzi
incollandomi le orme.
La nebbia mi aiuta
a non sopprimere
il viaggio di sola andata
che nasce dentro casa.
8.
Sono in un’altra città,
in un’altra età,
quando alle cinque mi sveglio
dall’infanzia che nutre
un altro affetto.
È tutto da un’altra parte
il vento che trancia
il presente,
che diventa la mia scorta.
I nonni, i cugini,
la morte anticipata.
Le case si svuotano
per una vacanza
che non tornerà
nel silenzio di pioggia.
Basterebbe la voce
della mia infanzia,
il passo all’incontrario
per ripassare la parte
che implora la solitudine
di certi pomeriggi.
9.
I ciottoli sono gli stessi
in via Pizzecolli,
cambiano le insegne degli alberghi,
i negozi e i bar
nel tempo che soffia
dal pianoterra.
Anche il cielo
è lo stesso di allora,
oscuro e poi velato
tra novembre e dicembre.
Ma il campanello alla porta
ha un altro cognome,
la scalinata nasconde
le pieghe e gli snodi
del tempo infantile.
Non si concede più
l’anima nello sguardo
che rimane bambino,
prima della vita.
10.
Le foto in bianco e nero
chiuse in un cassetto,
di me con la bicicletta bianca,
o il giorno della prima comunione,
davanti alla siepe
con il grembiule senza fiocco.
Le stagioni si perdono
nel richiamo dei temperini,
nei fogli colorati con i pastelli.
Aule chiuse a chiave,
lavagne abbandonate,
quaderni ingialliti
degli anni ’70
che sono rimasti polvere
come il mistero dei morti
che mi insegue
in un cespuglio bagnato.
11.
Un istante che sia avvia
dalla mia mano
all’infanzia rimasta
nelle automobiline
che adesso tocca mio nipote.
Un gioco che torna
dopo tanta fermata
nella semplicità rumorosa
di piccole dita.
Il grande congedo
ha un timido allungo,
l’estremo tentativo
di capire la gioia
del non perdere il gesto.
12.
L’ombra di una tomba,
quella dei nonni
che guardo controluce.
Quanta pioggia al cimitero,
quanta immensità del niente
prepara l’altra vita,
chiama il ritrovo
nella strada dell’incontro.
Lumini e fiori secchi,
la prigionia della morte,
il commiato dalla lingua,
dalla voce e dall’abitudine.
Quanto marmo bianco
che aspetta di scaldarsi.
Io ci sono,
e frodo la solitudine dei morti
una sola volta
nell’aria indurita.
13.
Ha un tempo la morte,
un’aspettativa e un corpo,
un sogno e un’infanzia?
Ricomincia una perfezione
o si allontana la fuga immane?
Il presente dei morti
vive nei vivi
per un dopo inesausto.
Il resto del cammino, nonno,
dove sarà concesso
guardare la passione
del tramonto estivo
dietro la tendina,
riempie la camera da letto.
Il fremito di un’eco
è solo mio
quando si avvicina indisturbato
dallo scaffale dei libri.
14.
Il fango del giardino
risucchia le mie scarpe
e la destinazione della notte
attraverso occhi spalancati.
Mi fermo e mi dico
che non è vero niente,
che la morte non esiste,
che ci lega ad un ricordo,
al sogno del suo stesso trucco.
Potrei chiamare ad un telefono,
sentire la voce di mio nonno
che non si è persa
nel fondo della strada
o impigliata nell’ippocastano.
Corre via la morte,
randagia più di me.
15.
Il malumore d’eterno,
diceva un poeta,
è l’universo di ogni vita,
qualcosa che aduna la notte,
che disseppellisce le assenze.
Il giardino si appoggia
ad un silenzio irreale,
ed io con la sigaretta in mano
cammino verso il mio fiato,
verso un altro ricordo
che si vede nitido
nell’immobilità autunnale
fatta solo di anima,
di prati avviliti,
di cieli tumefatti.
16.
La partenza per il viaggio
è senza valigia
per l’improvvisa morte
che non ha transito
nelle nostre stanze.
Si è avviato
con la solita discrezione
nonno Ernesto,
ha sorriso appena
quando mia madre
gli ha chiesto sottovoce
se avesse sete.
Era già in alto,
vedeva la sua gioventù
correre sui campi sterrati,
il suo bicchiere vuoto
al centro del comodino
farsi più piccolo.
Alessandro
Moscè (Ancona, 1969) scrive su «Nuova Antologia»,
«Il Corriere Adriatico» e su altre riviste specializzate
dove si occupa di critica letteraria e filologia. Ha compiuto studi
su Giorgio Saviane e sulla letteratura marchigiana del '900. Ha pubblicato
l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici
e visionari nel 2003 (il lavoro editoriale). Nel
2004 è uscita la raccolta di saggi dal titolo Luoghi
del Novecento (Marsilio). Ha curato un’antologia americana
di prossima uscita, sui poeti italiani del Novecento. Ha dato alle stampe
la raccolta poetica L’odore
dei vicoli.
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Aschi e
maravigghi (Frammenti e meraviglie) di Sicilia
(una suite)
di Marco
Scalabrino
Pi nascita
dirittu
cardacìa
di li ràdichi a la storia
st’ammàttitu
m’apparteni.
Sulu tri pilastri
ncucciati cu puzzulana d’amuri
e tennu ’n-pedi
un munnu.
(Per nascita / diritto / batticuore // dalle radici
alla storia // questa combinazione / mi appartiene. // Solo tre pilastri
/ saldati con pozzolana d’amore / e reggono / il mondo.)
***
Un jornu
russu sulu nna lu me calannariu
un ancilu
paratu ad arti a l’amu di li stiddi
m’addiccò
fu na vota e pi sempri, a li soi ali.
Successi.
E siddu nun fu spassu
preju
ogni novu mercuri
pi ssu miraculu
e aspettu.
Zoccu autru pozzu fari ?
(Un giorno / festivo solo nel mio calendario // un
angelo / spedito in avamposto dal cielo // mi avvinghiò / anima
e corpo, alle sue ali. // È accaduto. // E se non è stata
burla // prego / ogni nuovo mercoledì / ché questo miracolo
si ripeta // e aspetto. // Cosa altro potrei fare?)
***
Ammuttanu li staciuni
cu soli di coriu
sempri novu
e allonganu
a botta a botta
la prucissioni
di judici
manetti
tabbuti.
(Si susseguono le stagioni / con suole di cuoio / sempre
nuovo // e allungano / una botta dopo l’altra / la processione
/ di giudici / manette / casse da morto.)
***
Ju zeru
ju lapardèu
ju senza travagghiu
ju bucatu
ju sucasimula
ju l’Aids a tagghiu
ju mafiusu
ju cascittuni
ju nuddu spiragghiu
ju...
nun lentu mai di bistimiari.
(Io nullità / io parassita / io disoccupato
// io a rischio Aids / io cicisbeo / io drogato // io mafioso / io delatore
/ io disperato // io... /
non smetto mai di bestemmiare.)
***
Autri a spassu.
Stu jornu macari.
Ssa frevi ammàrtuca li mei carni
e mancu un ponti
luci
pi sbraccari.
(Anche oggi // qualcuno perderà il lavoro.
// Questa febbre fiacca le mie membra // e non un solo ponte // s’intravede
// per superarla.)
***
Mastru Lunniri
scattusu
addimura
e attocca a mia
nun pozzu fujiri.
(Mastro Lunedì / dispettoso / s’attarda
// e spetta a me / non ho scampo.)
***
Matri
sapi d’addauru
zorba
marvasia
lu ciuri spajulatu a la to sciara
e lu ciauru
di li naschi
lu sangu
lu senziu
nun si lava chiù.
(Madre // sa di alloro / sorba / malvasia / il fiore
scaturito dal tuo rovo / e il suo profumo // nelle narici / nel sangue
/ nei sensi // persisterà in eterno.)
Marco
Scalabrino è nato a Trapani nel 1952. Poeta (Palori,
1977; Tempu, palori aschi e maravigghi, 2002), saggista,
traduttore ha pubblicato anche commedie in siciliano. Per una più
esaustiva presentazione si rimanda al sito www.vaidiqua.it/scalabrino
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Lei che con semplice candore
(da Anno II, raccolta
in fieri)
di Luca Ariano (v.
anche la
poesia e lo spirito)
Lei con semplice candore
ti dice che non ha tempo per fermarsi
a pensare perché deve lavorare
e i tuoi pensieri stanno lì ad ascoltarsi.
L’odore d’aglio e cipolla fritta
ti ritorna bambino davanti alle vetrine
nel luccichio anni Ottanta
quando muto ascoltavi le storie;
come quella che t’hanno raccontato ieri
e ti sei bevuto nella calura
d’un passatempo estivo.
Prenderà un treno per Roma nell’illusione
d’un lampo di labbra per poi tornare
dalla Tiburtina senza un po’ di riso.
Il transito nella galleria ha lasciato
solo un vento ad accapigliare i giornali
del giorno prima e il pietrisco del fogliame.
***
È un’altra di quelle mattine albine
da pedalare in fretta di cappucci
per non sentire l’umido;
c’è chi si consola con un bianchino
per dimenticarsi di salire sui ponteggi.
Le strade s’abbrustoliscono di castagne
e quelle bocche non sono lo stesso sorriso:
euforica ti racconta che tra qualche mese
la raggiungerà suo fratello
- stavolta non passando da un barcone.
“Spero di rimanere incinta”
e intanto per il mutuo garantiranno i suoi,
un po’ ingrassata nello sguardo,
dimagrito nell’orgoglio a ridere cinque anni fa.
Bruciano come di stagione i fuochi nei campi
e li vedi quei trattori ammucchiare le stoppie,
lì in coda autostradale verso le solite destinazioni:
finestrini calati ripensando a quelle mani
mappa delle stagioni, sentiero da percorrere.
Luca Ariano è
nato nel 1979 a Mortara (PV), vive tra Vigevano e Parma. Ha pubblicato
nel 1999 la raccolta di poesie Bagliori crepuscolari nel buio
presso Cardano di Pavia. Numerose sue poesie sono apparse su riviste
e siti letterari tra cui Frontiere,
Faranews e FuoriCasa.Poesia
e su antologie tra cui Oltre
il tempo/Undici poeti per una Metavanguardia, curata da Gian
Ruggero Manzoni per le Edizioni Diabasis (2004) e La
coda della galassia, a cura di Alessandro Ramberti, FaraEditore
(2005). Collabora con il sito internet Pagina
Zero, Il Foglio Clandestino
e La Clessidra ed è tra i redattori della rivista Ciminiera.
Nel 2005 è uscita la sua seconda raccolta di poesie Bitume,
con la prefazione di Gian Ruggero Manzoni, per le Edizioni del Bradipo
di Lugo di Romagna.
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Su Versi di lotta
e di passione di Vincenzo D'Alessio
recensione di Emilia
Dente
Versi
di lotta e di passione: questo il vessillo programmatico con cui
Vincenzo D’Alessio,
poeta meridionale, presenta al lettore l’ultima silloge poetica,
la dodicesima del lungo itinerario lirico cominciato nel 1975 con la
pubblicazione del testo La valigia del meridionale.
La plaquette giovanile viene in questa opera sinteticamente proposta
in appendice a segno del coerente e tormentato cammino ideale che, dopo
oltre un trentennio, porta l’Autore a sostenere, a tratti ad inasprire,
sempre a testimoniare e ad incarnare un tradizionale conflitto dicotomico.
Ancora, sempre D’Alessio si propone strenuo difensore delle idee
sane, purtroppo svilite e mercanteggiate sui banchi del potere, sostenitore
delle rette pratiche e dei buoni principi offesi, umiliati, azzannati
impietosamente nelle terra dei lupi.
“Noi siamo l’evento /meridionale la forza / antica delle
idee sane / saliti in altitalia con la fame /scesi a combattere gli
infami!” – è questa l’amara riflessione del
poeta insonne che, tormentato, assiste alle ingiustizie che feriscono
padri, figli, un intero popolo caparbio e generoso. Egli si addolora
allo sguardo di madri infreddolite nell’abbraccio vuoto del focolare,
freme inquieto alle delusioni di giovani fiduciosi nella luce sincera
del volo e costretti poi a planare nell’ombra dei compromessi
e degli interessi economici. Lo sguardo attonito del letterato irpino
si infuoca e si pietrifica nello spettacolo triste del declino della
sua amata terra e a tratti si solleva ad abbracciare la realtà
più vasta dell’intero pianeta dove gli stessi uomini “rimasti
a Caino” non lasciano libertà ai sogni e continuano ad
uccidere Cristo agli angoli delle strade, continuano a ricacciare nel
buio quel “Dio percosso / ributtato sull’altare / impuro
dell’ odio umano”. Vincenzo D’Alessio attraversa,
sul sentiero sincero dei versi, i grandi drammi dell’umanità
dolente. Emergono nella loro crudezza le piaghe profonde che inverminano
l’anima del mondo. Sanguinano, e, come lance velenose, si conficcano
nella pelle, le immagini delicate e forti della guerra, della miseria,
della crudeltà, dell’ignoranza e della superbia che irretiscono
il pianeta nelle trame del male. È una preghiera impastata di
luce e di rabbia la poesia del nostro autore. È l’ardore
la fiamma che eterna si consuma negli occhi cavi di Tiresia. È
sussurro tuonante l’urlo del cuore che si ribella, che lacera
gli ipocriti veli di questa inanime comunità per indicare la
strada del ritorno, il sentiero che conduce nei giardini della luce,
laddove nascono i poeti e dove, sullo sfondo grigio del gretto materialismo
imperante, si illumina la purezza della poesia, il valore antico ed
eterno del bene.
La ricchezza concettuale e semantica del testo lirico in questione è
tale e di tale intensa corposità da stridere volutamente con
l’essenzialità della struttura saggia e lineare, con la
nudità del verso che non si veste di troppe allegorie, non si
carica di artifici letterari che distoglierebbero il lettore dalla concreta
verità del messaggio. Il ritmo, meno cadenzato, più riflessivo,
poggia sulla libera scelta metrica che predilige versi imparisillabi
, pur non rifiutando canoni e schemi definiti.
Il ristoro del guerriero, inquieto ed affannato dopo l’ennesima
battaglia culturale, civile e morale, è nello spazio immenso
di un immutabile pensiero: “l’infinito è Dio e il
nulla / si scolora nell’anfratto / delle paure.”
Montefusco, marzo 2006
Emilia
Dente
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2 poesie vincitrici
al premio
Corciano
di Daniele
Borghi
Sete
Sete di silenzio
necessità di quiete
Attenzione soltanto
per remoti riverberi
Voci discrete
e suoni sopiti
Vibrazioni gentili,
paesaggi sonori
Acquarelli sfocati
di aria che danza
Lontano per sempre
dalla vita che grida
La gentile risacca
di un mare tranquillo
Il fischio del vento
che muove le foglie
il trotto soave
di pioggia leggera
Ritrovare il sereno
tra i fiocchi di nubi
Un sole discreto
riscalda le vite
L'immobile aria
ne assorbe il tepore
Silenzi profondi
di candido bianco
Silenzi di neve
di laghi, di fiumi.
***
Come un prete senza fede (pubblicata in FaraPoesia)
Come un prete senza fede
Se il sogno non si avvera
non so di chi è la colpa
se l'anima mi trema
sei tu che schivi un bacio
le tombole a Natale
le feste comandate
ho scelto troppe vite
le ho prese solamente
per quello che mi danno
lo sguardo di qualcuno
che scivola nel buio
la messa troppo stanca
di un prete senza fede.
Ero davvero serio
nel dirti quelle cose
le penso e le pensavo
come credo d'esser vivo
con tanta voglia dentro
di correre e parlare
magari con l'affanno
che taglia le parole.
Sono come un capitano
rimasto senza nave
o un nomade gitano
che vuole una sua casa
recapito sbagliato
per indirizzi falsi
coprendo con il miele
la puzza di cancrena.
Aspetto con pazienza
ma non ne ho più tanta voglia
può darsi che al risveglio
io esca dalla stanza.
Daniele
Borghi è nato a Roma dove si è laureato in architettura,
vive e lavora. Ha pubblicato con noi Il
nome di una privazione, Pinocchio
non abita più qui e una plaquette in FaraPoesia.
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Due poesie inedite
di Annalisa
Teodorani
I pach
Nadèl senza nàiva
e léu l’éra quèl
che i pach
u i apuzéva te capàn.
La chèrta sal fiséuri
ócc ad burdèl
la stóvva a cherosene
e una machina da cusói
fióla ad cla granda
e made in URSS.
(I doni - Natale senza neve / e lui era quello / che
i doni / li appoggiava nel capanno. / La carta con le fessure / occhi
di bambino / la stufa a cherosene / e una macchina da cucire / figlia
di quella grande / e made in URSS.)
Znèr
Una luce
t’una chèsa
sèmpra piò in chèva
e’ régid
la nòta
e’ carnàzz ma la pórta.
(Gennaio - Una luce / in una casa / sempre più
lontana / il freddo / la notte / il catenaccio alla porta.)
Annalisa Teodorani
è nata a rimini l'1/6/1978. Vive a Santarcangelo dove
collabora con la locale Biblioteca. Scrive in dialetto dall'età
di 18 anni e ha pubblicato 2 libri: Par senza gnent
(Rimini, Luisè, 1999) e La chèrta da zugh
(Cesena, Ponte vecchio, 2004).
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Fuori sede (sezione
della raccolta inedita Vernissage d’un mixage)
di Carmine
De Falco
RISVEGLI.
Il gregge di pecore gira intorno
Al palazzo ogni mattina prestissimo
Scampanellio d’indefinito riecheggia
Incessato nel corpo. Attaccano
A lavorare di buon ora
Gli operai nell’appartamento di sotto
Martellate che per le pareti vibrano
Fino al letto, trapanate violente
E ritmiche dal marciapiede sfondano
Nel trasogno il cranio mio indifeso.
La sveglia: inopportuna. Ospiti dei coinquilini
Fragorosi. Il seno e il corpo
Di una donna che m’ingrossa. La musica
Dilettantesca di una scuola per l’infanzia. I rumori
Dei motori del via vai.
Decisivo e finale,
l’intestino.
***
12Mr0200SALERNO
SALERNO
MILANO CENTRALE
2 VIA NOCERA*CASERTA*AVERSA*
ROMA TE*CHIUSI*FI. SMN*BO C.LE*
Cosa resta
Di tutto il vissuto?
Biglietti? Del sesso,
Diagnosi e ricette, fatture
D’alberghi e date. Ricordi
Quel che ricordo?
Colazioni mai arrivate,
Qualche risentimento, tracce
Di un sintomo, odori
Di ospedale affollato e prolungato,
Libri mai letti, operazioni eluse.
***
DOVE NAUFRAGANO I PINI.
Un’unghia di luna disegna
In una notte vaginale
D’azzurro magrittiano
Corre nel tunnel pensile del mio fiato disperso
Un pino mediterraneo
Naufragato nella vallata
Tende spoglie dita di rami colme
D’aghi per carezzare
Il mio corpo, o iniettarlo? Un insetto
Nero mi morde e precipito
Nelle alterazioni oscure
Degli incubi di morte,
Inacidito male
Fuggo veloce dalla natura buia
Scansando tubi serpenti verdi giganti
Gli scheletri opachi
Di edifici in costruzione, il prato
Rasato molleggia ad ogni passo
Vorrei una voce che mi salvi dagli
Spettri freneticamente cerco
Sintetico ristoro in polvere, o in scientifica pozione.
***
Tra le chine Montagne
del primo avellinese
Adeone di verde urlano
Grigiore al fine settimana
Maggio caldo disillude
Fradicio strofino conchiglie per le mani scioglighiaccio.
Le tue unghie sfatte
Si incarnano in me stanco
Sorseggio cullando
Giocosa gioia.
***
TRALICCI.
Mi appoggio agli orli del tempo
Climatiche variazioni mi suonano
Quanto mi tocca l’essere solo.
Vestito d’azzurro-celeste, mi piaccio
Se fossi magro da cavarmi le ossa.
Ti penso immutata
Per soddisfare lacrime.
Odore di carne macinata
A buon mattino
Chiude lo stomaco e gli occhi
Del ragazzo italiano cresciuto
A dolce latte e biscotti.
Sono inquieto
Se abbracciassi il mio corpo.
Strani esseri invertebrati
Popolano la mia notte a Fisciano.
In bilico flebile figura
Instabile. Scoordinate non cadute.
Sogno la tua bocca per un buon servigio.
***
ZOLLE.
Biblioteche di facce e note e triste e segnate
Da laureandi e tecnici e scoppiati
Piena estate di pulitura di libri e calura
Post-pranzo, e desolata
Area umanistica
Spolveratori e in divisa e grigio-blu e pausano
Sigarette nel cortiletto e vuoto e di mattoni e cotto
E vetri con persiane e verdi e
Quadrilatero di chiuso e di vertiginale cielo e rotto.
E chiacchiere e telefonate e spiegazioni
Rifugio dei rumori e dai silenzi
Delle sale-lettura. Riaperto
A noi vecchi non appartieni più.
Vizioso motivo valido per goderne di nuovo.
Il leader dei manga-boy gira a vuoto nel
E caldo di appesi e concetti e di e meccanica e!
Carmine
De Falco, nato a Napoli nel 1980, trascorre l’infanzia a Pomigliano
d’Arco. Vive i primi anni d’università tra Napoli
e Salerno, con una parentesi lavorativa a Roma e nel 2003, vinta una
borsa Erasmus, trascorre sei mesi in Finlandia, dove accumula esperienze
e riflessioni da cui nascerà la silloge Linkami
l’Immagine (con la quale ha vinto il concorso Pubblica
con noi 2005). Si laurea in Scienze della Comunicazione nel 2005
e matura esperienze lavorative come Web Editor. Altri suoi inediti si
trovano nel sito di Chiara
De Luca.
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Su Doveri
dell’esilio di Juan Gelman* (Interlinea
2006)
di Maria Rosa Pantè
Non si può scrivere di Juan Gelman senza ricordarne
le drammatiche vicende biografiche, legate al nero periodo della dittatura
militare argentina. In quegli anni, mentre il poeta, già noto,
andava in esilio, il figlio e la nuora, giovanissimi, furono torturati
e uccisi. La nuora era incinta, prima di essere uccisa, partorì
una bambina che venne data in adozione ad una famiglia di poliziotti.
Gelman è da poco riuscito a ritrovarla e a farle conoscere la
verità.
Ricordare il suo nome solo per le personali vicende del dolore e dell’esilio,
sarebbe però fargli un grave torto. Infatti bisognerebbe aggiungere
subito che Gelman è prima di tutto un poeta, un grande poeta.
Nel bellissimo discorso tenuto al Festival di poesia civile della città
di Vercelli, che l’ha premiato nel settembre 2006, Gelman ha infatti
affermato che si può essere poeti anche senza aver provato quello
che ha vissuto lui, e anzi lui stesso era già un poeta prima
che la sua vita avesse una svolta tanto drammatica e dolorosa. In realtà
Gelman nel discorso fa un’apologia della poesia civile, semplicemente
dicendo che, alla fin fine, tutta la poesia è civile, tutta la
poesia nasce da un’occasione, tutta la poesia e i poeti cercano
di dire la loro ossessione e di evocare un mondo utopico di bontà
che non esiste. In effetti il tema della bontà, del sogno d’un
mondo migliore è centrale nella plaquette, edita da Interlinea,
dal titolo Doveri dell’esilio, che contiene poesie
scelte da Gelman e scritte durante gli anni dell’esilio, in Europa.
Solo la lirica d’apertura è un inedito.
Le poesie scelte da Gelman, dunque, ripercorrono l’esilio e i
dolori, le angosce del periodo della dittatura che uccide “tutto
quello che si muove per amore” (p. 13). La dittatura ha torturato
e assassinato gli amici (come il Ronco p. 14, che faceva navigare la
pizzeria “come latte di fiori, acque candide”), la nuora
Claudia (p. 17) cui Gelman dedica versi bellissimi “tu claudia
t’alzavi come un uccellino / aprivi gli occhi e cominciava lo
splendore del giorno / entravi dolce a combattere / con i tuoi spari
d’eternità”, infine il figlio, rievocato come un
bambino, che ha nel palmo la luce, forse la luce della storia, d’un
modo diverso, un mondo appunto di bontà (p. 47).
Uno dei doveri dell’esilio
è dunque ricordare i propri morti, la propria patria. Ma la memoria
è anche uno dei compiti essenziali d’ogni poesia. Così
nel tema principale dell’esilio e della dittatura, come in un
fiume maestoso, confluiscono altri fiumi, affluenti, altri temi, e uno
di questi è proprio la riflessione sulla poesia. Certo la poesia
nell’esilio è irta di difficoltà “quelle poesie
che ieri hai scritto / girano per la stanza non / brillano come brillavano
di notte / quando si alzavano nude come deliri a venire // per quanto
camminino non arriveranno al tuo paese / il tuo paese è questa
stanza piena del tuo paese” (p. 25), ma è comunque un rifugio,
un mondo popolato da tutti i poeti probabilmente più amati da
Gelman che si ritrovano nella lirica dal titolo esplicito “ancora
usignoli” perché il poeta canta, e alla fine saffo dona
riparo all’usignolo-poeta che “canta canta canta”
(p. 28). La poesia è bellezza, “qualcuno ha messo la bellezza
nel mio cuore”, la poesia deve essere di tutti come la terra “la
poesia / deve essere fatta da tutti e non da uno / che è come
dire che la terra è di tutti e non di uno solo” (p. 45).
In sostanza Gelman ci dice che la poesia è madre e sostentamento
indispensabile all’uomo proprio come la terra. È naturalmente
anche un potente messaggio sociale e appunto civile. L’importanza
della riflessione sul dire poetico sta nel fatto che l’inedito
è proprio dedicato a questa parola, che si spinge al limite estremo,
quasi invalicabile e si installa nel corpo come un corpo: una caratteristica
propria della parola poetica e di nessun altro dire umano.
Forte, sia pur un poco più marginale, è il tema dell’amore,
non solo per gli amici e i figli, ma anche per la donna, descritta con
accenti nerudiani, pur nell’originalità di Gelman “giacevamo
in un letto d’amore/ lei era un’alba di alghe fosforescenti”
(p. 39).
Tutti i fiumi della poesia di Gelman sono caratterizzati dal suo stile
cantabile, reso mirabilmente dalla traduzione di Laura Bianchini. Lo
stile è poeticamente immaginifico e tutto avvolge come spesso
accade negli scrittori latinoamericani, caratterizzati dalla fascinazione
del raccontare, ma soprattutto dal germinare delle metafore: “il
compagno tagliava la tristezza / con la sua forbice d’oro / si
alzava” (p. 23) e delle immagini che scaturiscono sia dal mondo
comune sia da potente e trasfigurante immaginazione. Ne sono prova le
similitudini azzardate: la parola geme “come una gru impazzita
/ come uno spreco del destino” (p. 9) oppure “la notte ti
colpisce in faccia come i piedi di Dio” (p. 31); addirittura il
respiro talvolta è dantesco, quando muore torturato un caro amico
“gli angeli cominciarono a grattarsi furiosamente” (p. 13).
Il poeta usa del linguaggio con grande perizia e non esita a trasformarlo
secondo le esigenze del suo sentire e del suo dire e così nascono
neologismi come “bimbavamo” (p. 11) oppure “donnava”
(p. 41). A dare un ritmo originale sono le frequenti e imprevedute anafore,
le cantilenanti ripetizioni, i rimandi, le parole riprese identiche
o fantasiosamente modificate: “adesso passano i compagni con la
lingua serrata / passano tra i piedi e i sentieri dei piedi” (p.
31).
Alla fine del libro, alla fine (esiste?) dell’esilio si trova
uno scritto in prosa, Il patto, che ci dona la chiave
più profonda e più universale della raccolta: “l’intelligenza
e l’istinto accendono fuochi nella notte, ma è dall’infinito
che siamo esiliati” (p. 55). Però come un bambino beve
il sole, possiamo attingere a questo infinito e sentirci meno esiliati
grazie al sogno, il sogno d’un mondo migliore e perciò
un sogno politico, e grazie alla bellezza, e, finalmente, alla poesia.
*Ecco qualche notizia sulla vita di Juan
Gelman. Nato in Argentina nel 1930, durante la dittatura dei militari,
essendo già un poeta affermato, dovette subito andare in esilio.
Però la dittatura lo colpì terribilmente (come fece con
molti suoi compaesani) quando venne rapito, torturato e ucciso suo figlio
di 20 anni. Insieme a lui venne rapita la nuora, diciannovenne, incinta
di 8 mesi. La ragazza venne portata in Uruguay, le fecero portare atermine
la gravidanza, poi la uccisero e la bambina venne data ad un militare
uruguayano. Una storia simile a molte altre purtroppo. Grazie ad un’intelligente
azione investigativa, però, qualche anno fa Juan Gelman ha infine
ritrovato la nipote, ignara ovviamente delle sue origini, e ha potuto
riabbracciarla. Gelman vive attualmente a Città del Messico,
ma spesso torna in Argentina dove vive un’altra figlia.
Durante l’eslio è vissuto in Europa e ha sempre cercato
di portare l’attenzione del mondo su qunto avveniva in Argentina.
Ha continuato a scrivere ed è oggi considerato il più
grande poeta argentino vivente.
Maria Rosa Panté
è nata nel 1961 a Borgosesia, cittadina in provincia di Vercelli
dove vive. Insegnante di materie letterarie in istituti superiori, attualmente
si occupa della produzione di materiale multimediale e ipertesti per
la didattica. Ha pubblicato un libro di poesie e prose, L’amplesso
retorico. Voci femminili dal mito (2004) e nel 2006 un libro
di racconti: Noi che non fummo muse (Manni). Ha partecipato
a diversi concorsi di poesia e narrativa, conseguendo premi sia per
la produzione poetica, che per la prosa e la saggistica.
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Esistere e non essere
di Giuseppe Callegari
I miei rifiuti
Docente discente
Rosari di parole
Scimmie ammaestrate
Recitate
Strappate
Respinte
Esistere e non essere
Riconoscimento di sé
Disvelamento dell’altro
Coriandoli di vite
Decomposte, ricomposte, frammentate.
Inutilità di disquisizioni teoriche
Destra e sinistra
come punti cardinali
Bussola di cammini semplici,
disgregati
Mossi da incoscienza
O forse solo da non conoscenza
Fastidio
Rifiuto
Sconforto
Rabbia
Desiderio di pulire la scrivania quotidiana
di quei piccoli e insignificanti pulviscoli,
strumenti disarmonici di un suono non omologato
Desiderio
di abbracciare corpi,
umidi e sudati,
che colorano gli occhi
e agitano il cammino
di una indefinibile
(vera, disperata, consapevole, radiosa)
essenza.
Cose semplici e banali
Il ripetitivo
corso della quotidianità
è squarciato dalla morte.
Solo le cose più semplici,
apparentemente banali,
aiutano a riempire di senso
la spaventosa sensazione dell’assenza.
Parole
Parole che camminano
Sprofondano in mota amorfa
Orme cancellate
Parole che volano.
Ragnatele di nubi nere.
Avvinghiano
E vomitano
Parole che non si posano
Evaporano e si dissolvono
Parole
Orfane di luogo e tempo
Copulazione per partenogenesi
Mete inconsapevoli
Parole che non lasciano traccia
Solo ricordi confusi
Peregrinazioni labirintiche
Fino a quando tutto scompare.
Rimane solo il nulla
Da riempire
attraversando suoni invertebrati.Parole inutili
di un girotondo senza posa.
ottobre 06
Giuseppe Callegari ha pubblicato
con noi L'amore si sporca
le mani e Messa
a fuoco manuale. Sue poesie sono rintracciabili in diversi Faranews.
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Monachesimo
e riforma liturgica
di Bernardo Francesco
M. Gianni
Fedele alla sua tradizione tipicamente benedettina di
accoglienza, l’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore ha recentemente
ospitato un importante convegno internazionale dal titolo «Monachesimo
e riforma liturgica. Bilancio e prospettive a 40 anni dalla Sacrosanctum
Concilium». Come è consuetudine degli Incontri
di Monte Oliveto, ormai da vari decenni organizzati nella stupenda
cornice della casa madre della Congregazione olivetana, queste giornate
di approfondimento interdisciplinare intendono offrire, ogni tre anni,
un’occasione tanto di formazione permanente per tutti i religiosi
e in particolare per i monaci e le monache della Confederazione benedettina,
quanto di approfondimento culturale a una porzione significativa del
laicato ‘impegnato’ che sempre più desidera trovarlo
nella quiete dei monasteri.
Due tratti distintivi parevano agli organizzatori necessari per una
effettiva fruttuosità del simposio in questione, svoltosi dall’11
al 13 settembre: innanzitutto offrire una sorta di bilancio complessivo
sulla riforma liturgica, che includesse altresì uno sguardo sulle
impegnative prospettive in ordine ad una più sapiente assimilazione
dei contenuti teologici ed antropologici propri della riforma stessa,
anche in vista, conseguentemente, di una loro più coerente e
indifferibile attuazione. Inoltre sembrava davvero importante creare
l’occasione perché diverse comunità monastiche non
solo italiane, ma anche straniere, e in particolari francesi, potessero
incontrarsi e testimoniare il cammino fatto per attuare la riforma stessa
e quindi render conto dell’effettivo rinnovamento liturgico da
loro compiuto, i problemi incontrati, le prospettive future.
Ad Andrea Grillo, docente di teologia sacramentaria e liturgica alla
Pontificia Facoltà di Sant’Anselmo a Roma e a Giorgio Bonaccorso,
preside dell’Istituto di Liturgia pastorale di Santa Giustina
a Padova, sono state affidate le prime relazione di carattere più
generale, relative pertanto al senso teologico e agli aspetti pratici
del «‘riformare’ la liturgia» (Grillo) e al
rito stesso «tra fede e cultura», e debitrici senz’altro
di quel notevole patrimonio di riflessione che partendo soprattutto
da Romano Guardini e da Odo Casel e arrivando fino alla fenomenologia
e alle nuove antropologie teologiche, include la scoperta della stessa
liturgia come ‘forma’ simbolica che è ‘fonte’
della vita della Chiesa, in una ritrovata attenzione all’agire
rituale e alla sfera propria della corporeità. Non si fatica
a comprendere come si debba ascrivere la paternità di tale fondamentale
novità al cosiddetto Movimento liturgico, ovvero quel movimento
di ripensamento radicale del ruolo della liturgia nell’ambito
della fede cristiana che ha portato non soltanto ad autorevoli pronunciamenti
magisteriali (Mediator Dei nel 1947 e Sacrosanctum Concilium
nel 1963) ma anche ad una riforma della prassi celebrativa e ad una
nuova attenzione culturale e spirituale per l’atto liturgico nella
cattolicità, lungo tutta la seconda metà del XX secolo.
Sorto infatti a partire dai primi anni del secolo scorso col fondamentale
contributo di Lambert Beauduin, Maurice Festugière, Odo Casel
e Romano Guardini, questo movimento è stato riconosciuto dalla
stessa Costituzione Sacrosanctum Concilium come «segno dei provvidenziali
disegni di Dio sul suo tempo, come un passaggio dello Spirito Santo
nella sua Chiesa» (SC, 43). Si pensi infatti a come una semplice
definizione della liturgia come «culto della chiesa» (Beauduin)
abbia permesso di riscoprire alcune verità dimenticate dall’autocoscienza
ecclesiale. In primo luogo, il culto della chiesa si caratterizza come
cristiano proprio in quanto si pone in continuità con il culto
di Cristo; in secondo luogo esso è culto comunitario perché
rende visibile la natura stessa della chiesa, convocata intorno al suo
Signore. Da questa semplice definizione viene di fatto superata una
visione puramente giuridica, storica o archeologica del culto liturgico,
e viene invece ricompresa la sua natura teologica e fondamentale per
l’identità ecclesiale e per l’atto di fede. Si è
sopra accennato al recupero dell’importanza della dimensione rituale,
interpretata e soprattutto esperita quale interruzione del corso ordinario
della esistenza, capace pertanto di trasfigurare quest’ultima
attraverso uno «stacco simbolico» inteso «come
possibilità che la vita prenda senso» (Grillo).
La liturgia di fatto non si vive soltanto entro orizzonti puramente
cognitivi ma soprattutto e fondamentalmente come autentico ‘agire\fare
esperienza’ ecclesiale, da parte di tutti i battezzati almeno
–ordinariamente- la domenica nell’Eucaristia celebrata nella
propria parrocchia o altrove. Già questa settimanale esperienza
di vita e di rito dovrebbe essere sufficiente per assicurare ad ogni
credente il superamento di una visione intellettualistica della rivelazione
e quindi la scoperta incessante della storia e della libertà
come dimensioni proprie dell’incontro con Dio per Cristo nello
Spirito, di cui comunitariamente si fa memoria celebrata e celebrante
nel tempo e nello spazio, non senza rinunciare al linguaggio eloquente
e significativo del corpo: davvero così, come dice Sacrosanctum
Concilium, mediante la liturgia «si attua l’opera della
nostra redenzione» (SC, 2).
Convinzione forte dei due primi relatori è che, di fatto, il
compito del Movimento liturgico non sia terminato e che è anzi
necessario che quest’ultimo sopravviva in una nuova stagione di
ricerca che superi la limitante e fuorviante equazione fra rinascita
liturgica e ‘riforma liturgica’, quasi che compito della
Chiesa sia soltanto riformare il rito e non piuttosto lasciare che la
liturgia, la sua natura profondamente e pienamente teo-logica
e il suo incommensurabile portato simbolico-rituale, riformi essa stessa
la Chiesa della cui azione è e dovrebbe sempre più autenticamente
essere «culmine» e, «al tempo stesso, la fonte da
cui promana tutta la sua energia» (Sacrosanctum Concilium
10).
Una immediata verifica di quanto diceva efficacemente Cipriano Vagaggini,
grande protagonista della teologia liturgica nella stagione conciliare,
e cioè che «la riforma non è la soluzione dell’aporia
liturgica» è venuta dalla relazione di un monaco di
Bose, Goffredo Boselli, apprezzato studioso formatosi al celebre Institut
Catholique de Paris. Questi ha messo in discussione, forte di una ricca
documentazione basata su autorevoli fonti relative alle prassi ecclesiali
più antiche, la consolidata e ormai diffusa prassi della concelebrazione
e della frequenza quotidiana dell’Eucaristia. Senza nessun intento
provocatorio e senza voler innescare alcun sterile contenzioso, il relatore
si è limitato a mettere in luce come in forza di una più
recente riflessione ecclesiologica e dell’apporto documentario
delle scienze storiche, così come delle oggettive sollecitazioni
del nostro hodie (si pensi alla rarefazione dei presbiteri
e alla dispersione geografica di tantissime comunità religiose
femminili), si debba forse tornare a riflettere sulla possibilità
di avviare nuove prassi in ordine a questi temi così delicati.
In particolare nel contesto specialissimo delle comunità monastiche,
la loro abbondante e quotidiana dedizione al sacrificium laudis
nella liturgia e all’ascolto della Parola di Dio nella lectio
divina, potrebbe agevolare l’eventuale riscoperta, anche
sperimentale, della prassi antica (tutt’ora viva nelle Chiese
ortodosse) della sola celebrazione eucaristica domenicale, per restituire
così un ritmo ebdomadario all’esperienza pasquale della
comunità credente, sottratta al rischio non trascurabile di un
certo logorio. Di fatto, nel confronto fra diverse esperienze liturgiche,
è emerso come non poche comunità monastiche, fra cui Camaldoli
e Bose, abbiano abbandonato la frequenza quotidiana dell’Eucaristia.
Se Paul De Clerk, direttore della nota rivista francese «La Maison
Dieu», prestigioso periodico di liturgia fondato nel 1945, con
la relazione intitolata «La Costituzione Sacrosantum Concilium
oggi: ricezione teologica, applicazione pratica e tentazione di ripiego»,
ci ha offerto fin dal titolo un’ulteriore conferma di quanto il
lavoro che resti da fare sia molto più ampio e complesso di una
semplice ‘rivoluzione’ rubricistica in ordine al rito, Dom
Daniel Saulnier, monaco dell’Abbazia di Solesmes e docente presso
il Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma, ci ha ricordato come,
secondo il dettato di Sacrosanctum Concilium, al canto gregoriano,
«canto proprio della liturgia romana», debba essere riservato
«nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni (…)
il posto principale» (SC, 116). Anche alla luce di tale indicazione
di somma autorevolezza magisteriale, per lo studioso si evince la problematicità
di varie prassi liturgiche successive, sovente polarizzate o in una
rigida e indiscussa conservazione del canto gregoriano o in una sua
antitetica, totale messa in liquidazione. A giudizio di Dom Saulnier
la grande tradizione monodica, di fatto, può rappresentare, nella
frammentazione dei linguaggi e delle culture del nostro contemporaneo
‘villaggio globale’, un linguaggio musicale condivisibile
da tutta la cattolicità senza tuttavia disimpegnare liturgisti,
musicisti e comunità dalla ricerca di nuovi linguaggi musicali
e da seri tentativi di inculturazione del patrimonio musicale tradizionale,
specialmente nel contesto delle più giovani chiese di missione.
Le giornate di riflessione liturgica trascorse a Monte Oliveto sono
parse a tutti un felicissimo momento di formazione culturale e di reciproco
arricchimento. È poi sembrata evidente ai molti monaci e monache
presenti la necessità di individuare, per il bene stesso della
communio monastica italiana, un luogo di periodico incontro
e uno strumento editoriale di regolare collegamento per consolidare,
o dove necessario avviare, un serio lavoro di confronto e di riforma
in quel tipico laboratorio di fedeltà e di innovazione che è
la liturgia monastica, cosa che del resto accade da anni e con fecondi
risultati nei paesi francofoni per opera soprattutto della Commission
Francophone Cistercienne, la cui quarantennale storia è stata
narrata da Dom Gérard Dubois, noto e apprezzato abate trappista.
Un analogo servizio nel nostro paese, oltre ad aumentare una consuetudine
di reciprocità fra le nostre comunità monastiche, potrebbe
contribuire non poco a far corrispondere meglio la qualità delle
nostre liturgie a quella eccellenza che la teologia liturgica italiana
ha guadagnato negli ultimi decenni, grazie soprattutto alle scuole di
Sant’Anselmo a Roma e di Santa Giustina a Padova e grazie ai nomi,
fra gli altri, di Cipriano Vagaggini, di Salvatore Marsili, di Pelagio
Visentin, di Aldo Natale Terrin, di Alceste Catella, degli stessi Giorgio
Bonaccorso e Andrea Grillo (di quest’ultimo, in particolare, sono
pure assai debitrici queste mie note).
Attraverso il ritmo serrato della liturgia monastica, il susseguirsi
delle relazioni ha come trovato in quel mirabile “golfo mistico”
che è l’antico coro ligneo di Monte Oliveto un immediato
approdo di verifica esperienziale e quasi una sorta di ideale sponda
da cui ripartire per un necessario, dinamico lavoro di ricerca e di
innovazione radicate nella traditio: tornavano così
in mente le parole dell’abate Salvatore Marsili: «La liturgia
è una cosa viva, ma solo se è dinamica,
volta cioè verso l’avvenire, con l’avvertenza che
il suo dinamismo è tra due poli: quello del mistero di salvezza
realizzato da Cristo e quello dello stesso mistero di salvezza
da realizzarsi in noi».
Bernardo Francesco
M. Gianni è nato a firenze il 28-xi-68. Laureato in Lettere
antiche su un testo umanistico di Coluccio Salutati, entra in monastero
nel 1996, a San Miniato al Monte. È monaco benedettino olivetano,
professo perpetuo dal 2001, "prete" dal 2006. Per contatti:
Abbazia di San Miniato al Monte, Le Porte Sante, 34 – 50125 Firenze
tel. 055.234.27.31 - fax 055.234.53.54 - mail: sanminiato@tin.it
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