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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore



Numero 63
Marzo 2005

Editoriale: Concerto semplice

Bastano poche parole efficaci a creare un mondo, una suggestione, un'atmosfera o a porci davanti un problema, una decisione, una presa di coscienza: poche note che entrano in vibrazione, un semplice concerto di armoniche dissonanze vi offre questo Faranews. Eccone il programma: Regina di Giuseppe Callegari, Ai poeti di Nicola Rosti, Il giorno della memoria-Per Ida e Shlomo di Ardea Montebelli, Tre canzoni (in cerca di autore) di Daniele Borghi, Notturni proibiti (parodia di certa poesia erotica) di Gabriele Slavo, una tranche Dal Sommerso coro di Ivan Fedeli, Avevo imparato a non contare i giorni di Clementina Sandra Ammendola, recensioni a I tre racconti di mangiafuoco di Livia Perfetti e a Versi alfabetici di Maria Lenti. Buona Pasqua!

Regina

di Giuseppe Callegari

La telecamera buca lo tsunami e produce emozioni infeconde che riempiono desolatamente i cestini delle immondizie; la telecamera non riesce ad attraversare il muro di nebbia che avvolge un piccolo paese della pianura padana dove vive Regina, una bambina africana di 11 anni. Nella scuola che frequenta ci sono anche altri alunni stranieri, ma lei è l’unica ad avere la pelle scura. E questa non costituisce solo una differenza, ma un marchio indelebile per cui maledire il paese di origine, il Sudan, che da più di cinquant’anni uccide e allontana i suoi figli.
Regina ha la necessità di raccontare della sua fuga, della morte, delle devastazioni e delle violenze che l’hanno avuta come testimone oculare, ma tutto si perde nella nebbia ovattata della pianura padana che tutto allontana e attutisce e dove nessuno si chiede un perché che non sia figlio di un’altra nebbia, raccolta in una scatola quadrata, che esala mortiferi fumi per chi ne viene in contatto.
Regina ha una disperata necessità di dare un senso al suo viaggio rendendo visibile l’attraversamento del deserto per raggiungere l’Egitto, in questo caso, la Terra Promessa. Vorrebbe trovare la catarsi per seppellire la madre, persa in una odissea resa invisibile dal controllore supremo.
Regina cerca la relazione, perché questo è l’unico modo per ritrovare sé stessa. Ma, di fronte, solo porte chiuse e ipocrite strade aperte. Dietro finestre, accuratamente sigillate, si agitano mani che si rifiutano di venire in contatto con altri colori, si rispecchiano sguardi gelati dall’inverno dell’indifferenza e che non si accorgono di piccole rose e primule, messaggere visive e olfattive di una primavera che non sarà in grado di illuminare i loro occhi.
Regina ha bisogno degli altri e lo dice, lo grida, qualche volta in modo scoordinato, gli altri stoltamente, non si accorgono di quanto abbiano bisogno di lei. Regina che è disposta ad andare a scuola anche quando non é obbligatorio per sentirsi attraversare dolorosamente il corpo da chi si sente fratello solo attraverso un vaglia, una fotografia e una lettera di un’adozione a distanza. Regina, pian piano, ha capito che deve nascondersi, che non ha diritto di materializzarsi fianco a fianco, nello stessa scuola, nella stessa aula, nello stesso banco di chi è terrorizzato di poter scoprire che la piccola fiammiferaia è seduta al suo fianco e che Biancaneve aspetterà invano il bacio della vita se dovranno essere le sue labbra a contaminarsi.
Regina ha capito che solo quando non ci sarà più, quando sarà finalmente scomparsa potrà esistere, essere accettata, amata, rimpianta.
Regina ha tragicamente compreso che l’unica maniera per esserci è quella di scomparire
Per questo motivo Regina dice: “Profe, ma io che cosa ci sto a fare al mondo, non sarebbe meglio per tutti se morissi?”


Giuseppe Callegari ha pubblicato recentemente con noi L'amore si sporca le mani.

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Ai poeti

di Nicola Rosti

Dov’è svanita la giovane fanfara
e le piogge, negli orti addormentati?
gustate, volontari seduttori
gustate…
i peccati giovanili, che danzando
indomiti salivano,
sulle cime di tempeste riecheggianti.
Perché mai giullari fannulloni!
...sveglia or su, poeti maledetti,
risorgete dai vostri incauti abissi di tristezze
ritornate, a sfidar le risa anguste degli astanti
perché ora e solo allora il vostro tempo
è stato solo un fuggiasco passeggero.


Nicola Rosti è nato nel 1979. È diplomato in Progettazione grafico-visiva. Suona il pianoforte; studia Armonia e composizione; si diploma in chitarra al corso Professional presso Music Academy 2000 e al corso biennale “The Music Maker” presso Fondazione Arturo Toscanini. È compositore, chitarrista turnista e tecnico del suono, si interessa di ricerca sperimentale in ambito musicale. Dal 2000 si dedica alla scrittura di brevi saggi e di poesie.

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Il giorno della memoria - Per Ida e Shlomo

di Ardea Montebelli

Vorrei abbracciarvi tutti, stringervi uno ad uno fratelli e
sorelle deportati nei campi di sterminio.
Penso ai superstiti, a chi miracolosamente si è salvato e a
chi non ce l’ha fatta. Penso ai corpi accatastati nelle fosse comuni, a quelli seviziati per farne esperimenti. Penso alle camere a gas. Penso a chi è sopravvissuto e vorrebbe strapparsi dalla mente e dal cuore l’incubo di quei giorni ma, rumori, odori, grida, silenzi, il freddo, tutto è incancellabile.
E’ impossibile non patire, non provare un dolore indicibile di fronte a una tale crudeltà. L’umanità ferita piange ancora i suoi morti, chiede a ciascuno un impegno: fare memoria.
Sarebbe superfluo ricordare l’atroce massacro di milioni e milioni di uomini e di donne se il ricordo non scuotesse la coscienza di chi ha avuto il privilegio di non vivere di persona quegli avvenimenti.
Le sofferenze sarebbero state inutili se noi oggi, non ci impegnassimo a testimoniare ovunque la pace.
Siate benedetti, fratelli e sorelle vittime della ferocia umana. Siate benedetti.

(Rimini, 27 gennaio 2005)

Per Ida e Shlomo sopravvissuti ad Auschwitz

Ma tu, non dartene tormento
Chi chiama?
Chi chiama?
Nessuno più vede
le bocche dei carnefici.
Tu solo catastrofi
scruti all’orizzonte,
più debole hai la carne
e me ne mostri il segno.
Ti era dolore il buio
ora è atroce il sole
un vortice tremendo
visita le insonnie
ma tu, non dartene tormento.

(giornata della memoria 2005)

 

Ardea Montebelli ha pubblicato con noi Il paradosso della memoria.

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Tre canzoni

di Daniele Borghi (l’autore valuterà con interesse le proposte di musicisti che volessero dar loro un vestito in note)

Concavo e convesso

Lui spesso scrive lettere
lei le legge come fossero poesie
Qualche volta sorride scorrendole
altre volte scuote lentamente la testa

Lui scrive lettere
e lei prova a rispondere
ma a lui sembra che parli d'altro
o che non risponda mai

Quando lei sente bussare alla sua porta
si costringe a convincersi
che è solo il legno che crocchia
ma il legno non può essere così vivo

Lei conserva le sue lettere
e la notte le rilegge per prendere sonno
o cur cullarsi il cuore in braccio
come fosse un bimbo malato

Lui la notte a volte piange
o se ne trova la voglia
prova a fare lunghe passeggiate
ma trova più sollievo nel pianto

A volte si tengono per gli occhi
e si stringono le mani
quando al mattino si incontrano
sembra quasi essere un sogno

Nelle larghe anse del giorno
la loro corrente rallenta
e allora provano ad unirsi
avvicinando spigoli e rientranze

Scrivere

Un libro ha per titolo "le parole per dirlo"
ormai son tanti anni che provo a trovarle
mi scelgo le penne e i quaderni a quadretti
li scelgo a spirale perché siano perfetti
se strappo le pagine rimangono interi
magari riuscirci anche coi pensieri

E invece ogni volta mi sfugge qualcosa
che scampa alla pagina d'inchiostro golosa
ma io insisto, ci provo, guardo il dizionario
provando a placare questo desiderio
di vedere un bel giorno sulla carta bianca
tantissimi segni a cui niente manca

Ventuno le lettere e son poche davvero
per essere in pieno e davvero sincero
ci son le parole che sembrano tante
eppure ogni volta il vero è distante
forse è la materia dello stesso pensiero
che vuol mille colori e non il bianco e nero

Con questa scrittura fantasma dolente
mi impegno mi sforzo per non dire niente
eppure ogni volta ci provo lo stesso
sperando che un giorno, passo dopo passo
io riesca a plasmare qualcosa che resti
che scuota la mente di chi sente i miei testi

La conoscevo bene

Sta credendoci di nuovo
senza che nulla, nulla di nulla
possa porre rimedio o riparo
all'ennesima disillusione
e quando accadrà sarà la fine

Quando tutto di nuovo crollerà
perdendo la propria forma
per assumerne delle altre
per somigliare a troppe cose diverse
gli amici non le serviranno
potranno solo interpretare
il solito coro da tragedia greca

Usando le stesse domande
cercherà di farsi largo
nei burroni inesplorabili
che tutti cerchiamo di sondare
per far luce in quei luoghi oscuri
misteriosi e impenetrabili
di cui tutti abbiamo terrore

Molti si chiederanno il motivo
qualcuno domanderà al vicino
"Chissà perché lo avrà fatto?"
Ci sarà chi riuscirà a convincersi
delle risposte banali che otterrà
altri, voltandosi di scatto,
fingeranno di non avere visto

Io rimarrò immobile e muto
impietrito dal dolore
e inutilmente vivo
con lo sguardo vacuo
di chi guarda un film già visto

 

Daniele Borghi ha pubblicato con noi Il nome di una privazione ed è attualmente giurato del concorso Prospoetica terra-di-nessuno.

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Notturni proibiti

di Gabriele Slavo

sputare su piatti prelibati:
l’opera di chi vuolsi punito,
infelice, ed oltremodo ardito
*
baci erotici in femmine superflue
piace loro esser prese su cofani caldi
e giacere stordite a ritmo, da dietro, frenetico
stordite e mugolanti, fra comete, pistoni;
ahimè maggio si congeda
fra tepore ed umore;
ora ore di zanzare, a plesso,
sì arduo sì spastico l’amplesso;
ah, copule audaci memorabili...
*
baci erotici in ani rancidi
piaccion loro bruti solforosi
e cofani caldi e colpi in culo
fra pistoni, semina, metalli
ahimè maggio si congeda
fra tepore ed umore;
ora ore di sudore, di lesso,
sì bolso sì falso l’amplesso
ah, copule audaci memorabili...
*
i filmetti pornografici ce li fissiamo (in testa)
gustando coppa (di testa)
bevendo birra (male alla testa)
*
scopa la slava a pagamiento
pimiento e sugo di saliva
sbava la topa la fava,
ullallà, un momiento,
una prece ed un evviva!
*
il tuo, di succo, mi scompone
sotto, sopra, di sete pecco
ah, l’umore bere, piacere d’alveare
voce di regina, bere e ancora bere...
*
ora la cometa si trangugia, sì,
tra i canneti la rugiada, nostra gioia

Gabriele Slavo è nato a Ronchi dei Legionari (GO) nel 1972. Ha vissuto lungo le coste Dalmate e presso i Monasteri ortodossi del Kosovo. Attualmente gestisce un agriturismo nel Delta del Po. Scrive poesie e critica letteraria.

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(piccolo estratto) Dal sommerso coro

di Ivan Fedeli

(CRONACHE DAL GIORNO)

"È ogni giorno che finisce la vita" (G. D'Elia)

Qui stanno alla finestra i giorni e vanno
ognuno per suo conto, senza un fermo.
E il fiato è di città a fine stagione:
un vecchio che passeggia un po’ morendo
il sole come un danno sui balconi.
Poi tutto nel silenzio di un’estate
sospesa ancora tra il cancello e l’ombra.
È un tempo di parole e va finendo,
si arrotola in un mondo che non sembra.
Le voci scendono in picchiata e il vento
nessuno l’ha mai visto né sentito.
Soltanto un altro tram, la sua fermata,
la pagina di un libro mai finita.
Mi dicono che questa sia la vita.

« Ma dimmelo che cosa sono gli anni,
il peso delle occhiaie se fa notte
e dorme un po’ di più pure il silenzio.
E tutto ha quel sapore raro in bocca
di sguardo che non tocca mai le cose
ma spinge a un cielo come di settembre.
Vorrei qualcosa ancora dalla vita,
sembrare la lanterna a volte accesa
che illumina a fatica questa casa.
E chiedere se un giorno o forse sempre
davvero è poi peccato darsi al niente
contando quanto passa sotto il sole,
la neve che si scioglie, le parole.
Magari per scommessa, verità
di mani strette a stringere altre mani.
Chissà di noi chi resterà domani. »

« Mi chiedo se davvero sono assenti
da questo trangugiare di parole
i volti sempre in forse, i lineamenti
di quanto scorre ancora sotto il sole.
Eppure siamo pronti, sempre in marcia
tra rughe irriverenti ed altri squarci,
esercito schierato di perdenti
un posto dentro il giorno che s’accorcia.
E il pettine non serve a farsi belli
che i nodi quando arrivano è un dolore,
si cerca qualche piega di capelli,
la fuga negli ombrelli dal rumore.
La vita, quella resta negli avverbi,
sospesa in altrimenti, in chissà dove,
il resto come sai ha sapore acerbo,
di un tempo che fa bello, che poi piove. »

 

Ivan Fedeli è nato a Monza nel 1964. Insegna materie letterarie. Ha pubblicato: Un luogo condiviso (Ibiskos, Premio Padus Amoenus), Abiti comuni (Il Ponte Vecchio, Premio Giorgi),
Una religione di parole (La Fenice, Premio Senigallia), “Dialoghi a distanza” nel volume Sette poeti del Premio Montale (Crocetti 2002), Vie di fuga (Biblioteca di Ciminiera, GED edizioni), Un mondo mancato (Il Foglio, Premio L. Cappelletti), e le plaquettes Centri e periferie (Imprimatur, Premio VeneziaPoesia), Piccole felicità (C. di Garfagnana, Premio Olinto Dini). Sue poesie sono apparse su diverse riviste letterarie, tra cui «Origini», «Ciminiera», «Le voci della luna», «Bar Code», «Alla bottega». È redattore delle «Voci della luna» e collabora con la casa editrice Ibiskos.

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Avevo imparato a non contare i giorni

di Clementina Sandra Ammendola

… legata con lo spago o chiusa male da serrature rugginose, ogni valigia era come tutte le altre, ma nessuna era uguale a nessun’altra. (Eduardo Galeano)

Il racconto di mio padre è pieno di particolari, ma io penso a lui tutto il viaggio in piedi, in mezzo della nave, diciotto giorni, solo, in piedi.
– Avevo imparato a non contare i giorni; la traversata dell’oceano», inizia mio padre, «mi risultò molto lunga. Una sola fermata di sei ore a Las Palmas e poi l’Argentina.
Mio padre si accende una sigaretta e andiamo tutti, mia mamma, mio babbo e io, in salotto.
– Durante il viaggio – riprende mio padre – si fumava moltissimo e per chi finiva la scorta di tabacco era dura. Perché poi nella nave potevi fare le solite cose: fumare, giocare carte, cantare le canzoni del tuo paese, ascoltare qualcuno che si era portato la fisarmonica, pregare (e le donne pregavano molto, forse per la paura), leggere i volantini sull’emigrazione, cercare di imparare lo spagnolo – si interrompe per appoggiare la sigaretta nel posacenere – e poi le discussioni non mancavano: dove era il posto migliore per fare ‘la Merica’? La campagna, dove il lavoro è più duro ma si può essere proprietari terrieri? O la città, dove un operaio esperto può aver i posti migliori nelle industrie moderne? Altri si chiedevano come fare con la lingua, e se dovevano cambiare la religione.
Vorrei fare delle domande; invece mia mamma mi fa segno di non parlare, di aspettare.
– Finito il militare – ricorda mio padre – in Calabria non c’era molto da fare; io volevo fare il sarto, sapevo fare il sarto. Mio fratello, in Argentina da due anni, continuava a inviarmi lettere fiduciose sul nostro futuro nel Paese del tango e delle mucche. Allora, nel mio paese, non c’era un solo calabrese che non pensasse ad emigrare.
Mio padre fa una pausa, spegne la sigaretta; la mamma ne approfitta e aggiunge: – Sai, Sandrina, molte imprese italiane, dopo la seconda guerra mondiale, avevano trasferito la loro produzione nei nuovi stabilimenti sorti in Sudamerica, per esempio la Fiat, la Olivetti, la Marelli. Queste imprese avevano bisogno di trapiantare in Argentina alcuni dei loro tecnici, operai specializzati, cominciano ad arrivare le navi chiamate degli ‘ingegneri’ e siamo nel 1953 circa – mia mamma finisce e mi chiede se sono stanca, le dico di no e ascolto entusiasta.
Mio padre parla di nuovo – lo fa almeno una volta alla settimana - del suo servizio militare, di tutte le città che ha girato: della visita medica a Genova, dei primi mesi di militare alla caserma di Albenga, dei mesi a S. Giorgio di Nogaro, dei molti mesi a Napoli. E poi la partenza per l’Argentina.
– Dopo i diciotto giorni di viaggio – racconta mio padre – vedere il Porto della Boca, a Buenos Aires, mi ha deluso. Le case costruite in lamiera ondulata e dipinte di tutti i colori, mi riportarono in Liguria. Mi ricordo quando ho fatto la visita medica per il militare, sono andato a Genova a farla, le case erano pressappoco come quelle che avevo davanti. Poi ho saputo che lì, al Porto de la Boca, sono approdati i primi immigrati liguri.
Io vorrei sapere della Calabria, del suo mare e delle sue montagne; ma lui parla del suo arrivo al Rio de la Plata, il 21 agosto 1956, con la nave argentina ‘Santa Fé’ che era partita da Napoli.
– Noi italiani – sostiene mio padre con orgoglio «siamo sempre stati una comunità privilegiata in Argentina: scarsi controlli per entrare, il contratto di lavoro si poteva ottenere con la mediazione di amici o parenti.
Io non capisco bene cosa era la mediazione e gli chiedo chiarimenti. Lui, con pazienza e ancora con orgoglio, continua:
– Mi ricordo che nel mio passaporto, era scritta come destinazione: provincia di Santa Fe. Dovevo andare a fare l’operaio in una fabbrica siderurgica; invece sono rimasto a Buenos Aires, da mio fratello, a fare il sarto in una sartoria in un quartiere elegante di Buenos Aires. Mio fratello conosceva un napoletano che lavorava nella sartoria da due anni. E’ stato lui, il napoletano, a parlare di me al titolare.
Mia mamma cerca di completare la storia e racconta che la storia argentina, alla fine degli Anni ’50, era stata movimentata, turbolenta: un susseguirsi di governi militari e civili, crisi economiche, aumento dei prezzi e calo degli stipendi:
– Un Paese sconvolto – ripete mia mamma – e gli ultimi tanos arrivati» dice, guardando mio padre con una certa complicità, «non erano più una massa di analfabeti, erano operai specializzati o tecnici diplomati, avevano delle pretese… – le ultime parole sono pronunciate con un po’ di ironia – … e l’Argentina non era più il ‘granaio del mondo’, era una Argentina agitata, ma c’è l’abbiamo fatta anche con la casa – e lascia parlare mio padre che non vede l’ora di riprendere il discorso: mio padre è uno che parla molto.
– Gli stipendi erano bassi» spiega lui lentamente – e bisognava arrangiarsi per la casa. Per un anno abbiamo abitato tutti insieme: mio fratello, sua moglie, i bambini, io; non eravamo ancora sposati con tua madre. Poi abbiamo comprato il terreno, mio fratello a Lanus e noi a Don Torcuato, per farci la casa. Tra i calabresi c’era questa abitudine: la domenica si lavorava tutti insieme a costruirci a turno la casa, ora per l’uno, ora per l’altro.
Io non capisco bene e continuo a fare domande, per esempio, se erano muratori i calabresi che facevano la casa, perché solo calabresi, perché lui, mio padre, non si era sposato con una calabrese invece che con una argentina, perché loro, mio padre e mia madre, mi avevano dato nomi italiani, per esempio.
– Sembri tua Nonna! – rispondono in coro mio padre e mia madre. – Anche tua Nonna, nelle sue lettere, mi faceva tutte queste domande – sorride mio padre e prosegue il suo racconto: – No, non eravamo muratori ma qualcuno sapeva e dirigeva i lavori. Non potevamo permetterci di pagare i muratori veri. Era anche un momento per stare insieme, parlare la nostra lingua, a volte mi sembrava di essere al mio paese, era bello… – dice e non sorride più. – Sai, l’Italia è un paese grande e con abitudini diverse, non è che si va tutti d’accordo; le differenze ci sono anche qui e con i compaesani, tra di noi, tra i meridionali si parla lo stesso dialetto, ci si dà una mano la domenica con la casa. Ma al lavoro, nelle fabbriche ci si aiuta tutti. Per esempio Tonino, quello che mi porta ad accorciare i pantaloni, è del Piemonte e in fabbrica fa il capo reparto ed è lui a chiamare altri immigrati italiani per lavorare con lui quando c’è ne bisogno. Tutti vogliono un impiego qualificato e stabile e sono disponibili a rimanere in fabbrica tutta la vita.
Mia mamma ci porta del latte caldo. Di inverno, la sera, prendiamo un po’ di latte caldo prima di andare a dormire. Mio padre continua la sua storia, la loro storia:
– E poi, alla sartoria, ho conosciuto tua mamma, mi piaceva molto e non mi sono messo a chiederle il suo passaporto, vero? – e fissa mia madre.
Lei, mia mamma, un po’ seriosa, racconta della lettera di mia Nonna nella quale era scritto in modo imperioso: ‘con tutte le italiane che ci sono a Buenos Aires, proprio con una argentina ti devi sposare?!’. Be’, a mia mamma la cosa non era piaciuta, e lo si nota ancora oggi.
Io cambio discorso ed insisto con la storia dei miei nomi: Clementina Sandra; a scuola mi prendevano sempre in giro e poi, il cognome, Ammendola, le maestre, alle elementare, sbagliavano sempre a pronunciarlo o a scriverlo, in spagnolo non esistono le doppie. Anche adesso alle medie, con i professori, non è che vada meglio.
Mio padre mi ricorda che mia Nonna si chiamava Clementina e mi spiega che era una abitudine di famiglia chiamare la prima figlia con il nome della Nonna, a maggior ragione quando si è lontani.
– E Sandra? – chiedo guardando mio padre e poi giro la testa verso mia madre.
– Sandra è un nome che sa di italiano e sta bene con Clementina, vero? – conclude mia mamma.
– Lo so, ma sapete, a scuola sono etichettata, grazie ai nomi e al cognome, come la figlia di un tano , e mi da fastidio – dico e riprendo la mia tazza di latte. Il latte è diventato tiepido, non mi va.
– Hai qualcosa di tua Nonna, della mia mamma, del mio Paese – dice mio padre – e tu sei etichettata grazie ai tuoi nomi, è vero, ma i nomi portano delle storie, storie come tutte le altre, ma nessuna storia è uguale a nessun’altra.
Mi lascio abbracciare. Non vorrei fare più domande.

(settembre 2004)

Clementina Sandra Ammendola è una «migrola»: vive e studia la migrazione per necessità, si sposta da una nazionalità ad un'altra – infatti ne ha due, argentina e italiana –, percorre parole e vissuti, si mette in cerca di una voce – anche se ne ha più di una: sociologa, educatrice, scrittrice – e sceglie una lingua per raccontare storie esemplari che siano in grado di trasmettere ciò che ha visto e sentito.

 

Nota critica a I tre racconti di Mangiafuoco

di Alessandro Ramberti

I tre racconti di Mangiafuoco (Graus Editore, 2004) si leggono con piacere per la loro asciutta freschezza. La giovane autrice, Livia Perfetti, dimostra una buona capacità di scrittura e di osservare le “cose umane” con acutezza e un filo di ironia. Forse deve ancora trovare una sua vena espressiva originale, un suo stile che non la appiattisca in una generica etichetta di letteratura giovane, ma la capacità di costruire storie (spesso parallele e con la tecnica dell’alternanza dei punti di vista che possono essere quelli dei protagonisti ma anche del narratore) accattivanti senz’altro c’è: si parla dei problemi che possono insorgere nelle relazioni interpersonali più o meno “amorose”; di crisi di identità e fughe per ritrovarsi, di valori da definire o da mettere in gioco… Non sempre è chiaro lo svolgimento della narrazione che l’intreccio delle prospettive rende a tratti un po’ difficoltoso, e forse anche sui finali abbastanza prevedibili Perfetti potrà in futuro lavorare con esiti ancora migliori. In futuro perché questa autrice ha certamente delle qualtità da coltivare in nuove creazioni letterarie, come dimostra, fra altri, questo passo tratto dall’ultimo racconto “Sospsesi”: “… gli sguardi dei due si incrociavano, si intrattenevano e si sfuggivano senza che nessuno degli altri presenti si accorgesse di nulla. Quasi come se quei momenti fossero sospesi nell’infinità invisibile di ciò che non si è ancora vissuto, ma si riconosce” (p. 52).
Chi volesse acqusitare il libro può rivolgersi a www.internetbookshop.it o direttamete all’autrice owlivia@libero.it

Livia “Owl” Perfetti nasce a Milano il 28 marzo 1980. Di origini napoletane, vive a Monza e studia lettere moderne presso l’Università Statale di Milano. Scrivere è la sua più grande passione (v. il suo sito www.associazionedreams.it). Ha vinto vari concorsi letterari tra cui il “Paolo Fiorile” di Storo (TN), il “B. Brecht” di Pistoia e il concorso letterario interlingue “Montagne d’Argento” di Aosta ed è stata segnalata in vari altri. Molti dei suoi scritti sono stati pubblicati in antologie collettive e nel 2003 ha pubblicato la raccolta di racconti Mangiafuoco, Graus Editore.

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Fattori e Anibaldi su Versi alfabetici di Maria Lenti

QuattroVenti, Urbino, € 9, 2004

In questo tempo molto visivo, ma anche molto sonoro e brulicante di cicalecci e allerte linguistiche, le parole abitano il nostro quotidiano come presenze dominanti e assertive; vengono dal borbottio di un televisore acceso, da uno scoppiettante trebbo di ragazzi, dal murmure di una coppietta, dal frastuono di una radio da un’auto in corsa, difformi dall’uscio di un caffè… Ci sono, ci urtano, ci sollecitano, ci spingono verso una direzione e/o verso l’opposta; hanno ombrosità, scoramenti, rissosità, spigoli aguzzi o movenze da meretrice; raramente sono pacificate, pensierose, confidenziali compagne di strada.
Invece questo le parole sono e dovrebbero restare: complici e compagne, maestre e tutoriali e infine evocative di noi e del mondo, alfabeto dell’unicità delle creatura e artefici della comunicazione-comunione- interazione con gli altri e con il mondo. Chi ha dimestichezza con la letteratura nutre per le parole un profondo rispetto: esse hanno dato voce a quanto sembrava indicibile, hanno spalancato universi e permesso di sbirciare gli abissi; esse si fanno la persona che le pronuncia, diventano pensiero e carne dentro uno sbaffo d’inchiostro o un’emissione d’aria.
Maria Lenti, con questo bel libro di poesie “alfabetiche” dà ampia dimostrazione di quanto le parole possano essere “persone” e non maschere, o, precisamente, gioco, girandola e scandaglio di profondità portate alla superficie del dicibile e del cognito.
Certamente la costruzione del libro nasce da una ludicità colta: ad ogni lettera, rigorosamente in ordine alfabetico, per associazione l’autrice estrapola una parola e attorno a questa, in un serpeggiare di anafore, aggruma un significazione che varca la soglia della somma del significati per raggiungere un nucleo di verità sull’esistenza, sul mondo, sul sé.
Afferma Gualtiero De Santi nella bella prefazione:
… Cesellando una lingua speciale, anzi specialissima, rimata e ritmata, legata a schidionate in verticale oppure sviluppatesi su un piano di superficie. Una lingua che ha qualcosa del sortilegio rabdomantico ma anche i caratteri di una materialità e prensilità in grado di oscillare verso il campo del visuale e della sperimentazione spericolata. Attraverso parole che danno traccia a una
sedimentazione della mente e dei più celati e internati e forse anche indicibili “desiri”.
Attraverso le parole e i sintagmi e il loro farsi frase incatenata dal filo rosso di una parola, Maria Lenti utilizza uno sguardo acuto, fermo e disincantato: il fonema b di blu , le fa dire, in due poesie affiancate, struggenti e dolorose verità sul mondo, su sé stessa e sull’umanità: ... blu bicipite / blu precipite / blu anticipe / Blu-B52 … nel lavoro solito e nell’inquieto andare / di me della mia specie del futuro / sperare /seminare / serpillare / serpeggia e va diritto il blu cobalto del B52.
La lingua è usata come raffinato strumento di svelamento anche quando si fa giocosa e richiama la cantilena, i sonori ritmi infantili come in “Nuvola”: nuvola rosa / nuvola vaia / nuvola lilla… che termina testa nuvola / nuova l’estate; ancor di più quando amara svela la “Signora Duemila”: … signora delle lame / signora delle brame / signora delle trame / signora d’altri natali / (cioè d’oscuri scali), e ancora , saltabeccando dalla filastrocca all’aforismo, in “Stella”: … Stella diamante / stella tagliente / stella alpina / stella di Natale / azzurra bianca gialla aranciata / rossa / stella ora in rimessa /stella come una scossa / Un, due, tre. Stella!
Le citazioni, tuttavia, non rendono giustizia della ricchezza semantica di ogni singola poesia perché la disposizione delle parole sulla pagina apporta una ulteriore significazione che si somma a quella indotta dal ritmo, a quello evocato dai numerosi neologismi spesso onomatopeici, a quella volontariamente cercata attraverso la selezione sintagmatica.
Così a senso si somma senso, mai in contraddizione ma in sinergia, e il flusso si espande ora in superficie ora in profondità; se espande su orizzonti sempre vasti, abbraccia molto del sentire dell’umana esistenza qui e ora, cioè in un tempo storico definito, riconoscibile dal climax evocato ma anche da singoli puntuali riferimenti agli accadimenti.
Tutt’altro che consolatoria, le poesie del libro hanno lame aguzze di analisi e come spesso accade nei giochi infantili, da un primo momento prevalentemente ludico si trapassa ad un acme spesso angoscioso; come se le parole innocenti, con la pronuncia stessa ne evocassero altre che le sono meno fino a giungere alla chiusura, alla rasoiata.
Non mancano tuttavia composizioni lievi e leggere, ariose: come nella vita, il dolore si regge solo se si affaccia da qualche parte un sorriso.
Siamo in presenza di vera poesia e non in esercizi di lessicografia e di glottologia; possiamo anche dire che Maria Lenti ci dimostra come si può fare poesia attraverso esercizi di lessicografia. Vera poesia, dicevo, (mai scontata negli accostamenti che, al contrario, sono spesso ossimorici) se per poesia si intende una comunicazione che va oltre il portato dei sensi e della riflessione e costringe chi la produce e chi la legge ad immersioni nel profondo di sé stessi e nell’inarcatura dello sguardo pensieroso sull’uomo e sul suo destino terreno.
Niente cicaleccio, dunque, e nessuna facile e consolatoria cantilena: le parole non sono cose, neppure la loro anima, eppure dicono l’anima dell’esistenza.

Narda Fattori
novembre 2004

Maria Lenti in Versi alfabetici
Ovvero il dono della parola e del pensiero. Così Gualtiero De Santi nella conclusione della sua “Presentazione” al testo di Maria Lenti. La sintesi è in quel dono che nasce dal crogiolo come distillato nel ribollire delle forme delle immagini dei colori delle sinfonie. Per essere più felici.
Il segreto che sta nelle cose viene fuori dalla parola che per Maria Lenti è fondante perché indica nuovi percorsi: la sua poesia, fuori da ogni schema classico cui siamo abituati, è un’attenta puntuale puntigliosa ricerca formale di parallelismi, di allitterazioni finali.
Alla -l- castello cestello pestello (Carta)
Alla -r- sperare seminare serpillare (Blu)
Alla -s- incisioni contorsioni estorsioni (Artista)
E di anafore ripetute e sostenute fino all’esasperazione.
Una ricerca per/versa quindi della parola fino a tirar fuori da essa ogni possibilità espressiva attraverso combinazioni alchemiche e proliferazioni metastatiche. Un’elencazione ed enumerazione di parole fatte non per essere archiviate ma per comporre un discorso che si deve ancora fare. Eppure sono già esse stesse, nella loro singolarità, un discorso oltre che un concetto.
Un discorso abbreviato in cui l’autrice ha cercato di tirare il filo di tutta l’esperienza possibile che deve essere colta lì, sul momento, nella puntualizzazione inchiodante del verbum che pesa e si stampa sul terreno per lasciare traccia indelebile.
Traccia di quel pensiero recuperato attraverso la parola scarna asciutta alfabetica primordiale; quel pensiero che libera se stesso da ogni surplus, da ogni strutturazione sintattica per presentarsi nudo ed essere accolto così com’è.
Un percorso lungo, quello di Maria, che si è arricchito spogliandosi. Indubbiamente sofferto con quel tanto d’irritazione giusta per le cose che non servono più e quindi dovranno essere gettate via.
Il titolo stesso dell’opera è emblematico: Partire dal principio per cercare nella parola una verginità nuova. Darle una collocazione privilegiata perché possa spiegare quello che ha ancora da dire. Come se a Maria pesasse quella parola che fino ad oggi ha preteso di definire e programmare.
Lei la verginità la vuole ritrovare nelle cantilene, nelle filastrocche dell’infanzia non per dire cose infantili ma per recuperare la verità e la purezza del pensiero e per esprimere la sua irritazione e il suo fastidio:
-portare l’agenda
-aprire l’agenda
-diario della giornata (Agenda)
Le parole della Lenti sono formule magiche che dovrebbero produrre altri sortilegi e non hanno bisogno d’altro per farsi intendere. Un’avventura intellettuale, la sua, ardita temeraria e anche un po’ presuntuosa.
Se lo può permettere.
Ma la sua parte migliore, io credo, la esprime quando recupera i connettivi, la dimensione temporale, i dubitativi, i soggetti io/tu, come in Lettera da un otto marzo e Una sera, quella sera. Quando, attraverso il dialetto urbinate, che risparmia sulle finali e a volte assume la caratteristica di un codice -cla sera- per dire quella sera, si colloca nel ricordo. Per recuperare l’archetipo linguistico e un’emozione forte attraverso una parola che si fa più discorsiva sia pure con tutte le possibili contratture.
È l’affabulazione che ti prende e ti conduce per mano fino all’abisso, fino alla notte ma pieni d’amore. E allora si riprende quelle parole per assemblarle e ricucirle. Per riappropriarsi di quella ricchezza di cui s’erano spogliate, ma sempre pronte a svestirsi di nuovo fiere della loro nudità.
Impudiche come vergini consapevoli della loro bellezza.
Levigate come sassi dal fiume.
Ruotarsi in un universo che deve ancora comporsi.
Sole.

Nanda Anibaldi
Monteurano, febbraio 2005

Maria Lenti è nata ad Urbino dove vive. Ha pubblicato saggi su scrittori e poeti italiani, le raccolte di poesie Un altro tempo (1972), Albero e foglia (1982), Sinopia per appunti (1997), poesie in edizioni d'arte (1973, 1993, 1998, 1999, 2000, 2001, 2003) e racconti (Passi varianti nel 2003 e altri).

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