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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 79
Luglio 2006
Editoriale:
"io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre" ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
Gian Ruggero Manzoni ha una forza che
è già poetica nel porsi (a volte in maniera tetragona
e corrosiva, eppure capace di captare e accogliere e accompagnare):
la piccola selezione di versi che apre questo Faranews vi colpirà.
E così il taglio obliquo e illuminante di Salvatore
Della Capa, Luca Ariano, Giuseppe
Callegari e Paolo Campoccia su aspetti (anche
non edificanti) della quotidianità, come quello caldamente malinconico
di Michele Luongo o quello "biblico" di Fabrizio
Centofanti. La memoria di padre Bernardo sull'egemonia
del presente che stiamo vivendo susciterà feconde e ramificate
riflessioni.
Il numero contiene recensioni a Strati di Antonella
Pizzo, a Canzuna di Marco Scalabrino, e presentazioni
dell'antologia del Premio Città di Solofra 2006
e della silloge Al mondo di Teresa Zuccaro. Nella sezione
bis vengono pubblicati i risultati
e le opere vincitrici e menzionate della V edizione del concorso Prosapoetica.
È appena uscito anche il bando del nuovo concorso Pubblica
con noi. Buona estate!
Da
Scritture scelte
(2 volumi in cofanetto, a cura di Andrea Ponso, Ed. Del Bradipo,
Lugo di Romagna, 2006)
di Gian
Ruggero Manzoni
Pare che l’universo sia nato
da un tranquillo sussurro in e
poi, a mano a mano che si
espandeva, ecco un trionfale
accordo in modo di terza maggiore
quindi, nel perdersi delle onde,
una più riflessiva terzina
in modo minore.
"Metti nella ciotola
il candelabro” , ordinò
il rabbino capo, “e ascolta
la musica!”
Partì una raffica, e poi
un’altra,
non dal golfo mistico, ma
fu suono di uomini
da una cantina … da una fogna
da una latrina di quella loro
tragedia cosmica.
*
I chiodi del Cristo
non perdoneranno
di averli umiliati.
"Ave atque vale"
mentre accendeva le candele
si passava sulle labbra
un guanto di pizzo e raso.
La mimetica era strappata.
Sfumare le immagini, proiettarle
su tende arabe.
Le sure del Corano
non li perdoneranno.
Io ti voglio per me …
io ti voglio … prima che muoia
rendimi padre.
*
La morte dorme sul cuscino.
“Dove saremo a Natale?”
Ciao Aurora, ciao Erminia.
Lontano, nella deriva dei continenti,
il mondo sta resistendo
fino all’ultimo uomo.
Quando uscii
per raggiungere il mio squadrone
mamma si alzò
così da versare acqua santa
sul fuoco.
Un rito vecchio
come il baciare la mano del defunto
nelle chiese ortodosse.
“Resistere fino all’ultimo uomo
è da sempre una prerogativa
del crederci uomini.”
*
Aveva una figlia
che non sapeva del mondo.
Lo aspettava a casa,
giocando con la trottola
e un bambù ricurvo.
Papà se n’è andato
per la guerra,
mamma mi dice
che forse non torna.
Dietro lo scarico dello
zuccherificio, suo padre, a
novembre, pescava duro
lasche e triotti.
La bambina si prese il tifo
e la voce profonda
che percepisce tutti.
Il soldato tornò
e usò le canne da pesca
per farne croci.
*
“Esistono gli eroi?”
Sì, ma sono quelli che tacciono.
Non ho mai sentito uno di loro
vantarsi di aver ucciso un uomo.
Loro stanno da una parte
di solito in tavoli grandi
con davanti un cesto di pane.
Quando li saluti
alzano il capo e te lo rimandano.
A volte dicono dei figli
che hanno perso il lavoro,
altre della moglie
con un tumore all’utero.
Le loro medaglie sono dentro
all’addome.
Punti di sutura.
Fegati smozzicati
dalle unghie dei topi.
Gian Ruggero
Manzoni (qui sopra con due giovani partecipanti al recente convegno
camaldolese sulla Metafora)
vive tra Lugo, Monaco di Baviera, e Grottammare. Poeta, narratore e
artista, fra le molte pubblicazioni ricordiamo: Pesta duro e vai
tranquillo (Feltrinelli 1980); Il dolore (Scheiwiller,
1991); Caneserpente (Il Saggiatore, 1993); Peso vero sclero
(Il Saggiatore, 1997); Gli addii (Moretti & Vitali, 2003).
Con Diabasis ha pubblicato il romanzo Il
morbo (Premio Bancarella, 2003, Premio Città di Bari-Costiera
di Levante, Premio Francesco Seratini per la narrativa, 2004). Per anni
ha diretto la rivista di Arte Origini. Assieme a Gianni Celati
e ad Ermanno Cavazzoni ha contribuito alla realizzazione dell'almanacco
di prose Il Semplice.
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È
un’ora (o due) che guardi fisso (poesie)
di Salvatore
Della Capa
Ormai quasi corri e ti urtano
con rollers e valigette.
Lungo il viale ti incrociano
e ti sorpassano, i loro passi petulanti
non s’accorgono dei tuoi occhiali caduti
e tu appena.
Un tempo ti rimbombavano nella testa
ma ora non più, scivolano
sulle vostre corazze di carne molle.
A malapena osi alzare lo sguardo
e facce proseguono avanti come soldati
trattenendo il respiro.
Salutano a tratti.
Ma tu non ricambi
vedi su tutte le stesse smorfie di cera.
A malapena osi alzare lo sguardo
***
È un’ora (o due) che guardi fisso.
Cosa vedi?
È vera quella valle
colma di figure
con la testa bruciata
e sangue nero dappertutto?
Sì è vera, l’hai vista
altre volte, sei sicuro.
Sono corpi, corpi morti
e non li riconosci.
Uno è ancora là, proteso in alto
col suo collo bianco
pronto a crollare.
Il rintocco delle campane della chiesa
ti scrolla. Fai per alzarti dal tavolo.
Il posacenere pieno di mozziconi
davanti a te ti avvisa
che stai fumando troppo in questo periodo
***
Ricordi quella notte il colore del cielo
quando a un tiro di sasso s’inverò la tua vita?
Lo ricordo era nero, d’un livido chiuso.
Non piovve.
Ricordo tremasti un minuto
poi nulla, sei entrata in casa
(luci calde, languide
mura e un camino lucente,
tu seduta vicino serena).
Guardavo ancora nel buio
dalla finestra appannata
non lontano da te.
Non cambiavano luci di certezze
sul tuo volto, mentre fuori
si svelava un silenzio.
La pioggia del dopo non t’ha riguardato
***
In bocca c’è sempre
lo stesso sapore di malattia
e di fragole alcune sere.
Ma non ti piacciono più
a forza di provarle così tante volte
mentre mangi wurstel e maionese
e deglutire il tuo lager quotidiano
***
Oggi è entrato un nuovo ordine in casa.
Il letto è rifatto i tuoi dischi
senza polvere, il caffè che sbuffa
sulla fiamma e due mani di donna.
Poi senza troppi complimenti
la prendi di peso e l’adagi sul pavimento;
quindi sfoghi le tue rabbie ei tuoi (mal)umori
nelle smorfie del sesso e nella
convulsione fredda del coito.
Finito tutto ti alzi, ti vesti
vai in bagno e orini
poi torni davanti alla tv.
Lei, il tuo automa la bambola,
ritorna donna e ti versa il caffè.
Poi va via stanca, senza disturbare
***
Quest’uomo ha successo
una casa una bella moglie
una macchina sportiva una famiglia dolce
e tutto un esercito di carte di credito
Mastercard, Visacard e cose del genere.
Ma cosa, cosa prima di andare a letto
di spegnere la luce, mentre aspetta la donna dal bagno?
Cosa pensi?
Pensi a qualcosa?
***
Non sei certo della luce stamattina.
Sembra caldo a dirsi dai primi
boccioli sugli alberi
e decidi di cambiare il guardaroba
per non sudare troppo.
Poi comincia a piovere e smette subito.
Ti affacci e l'edera sul muro
di fronte non fa più il suo odore.
O fa sempre lo stesso
***
Di quella volta che bimbo
ti nascondesti sotto al tavolo
per mangiare ancora arance
senza essere visto.
Non ne ricordi nulla –
di risa voci e giochi
rimane nulla
***
Neanche stanotte dormi.
Da ore ti tiene sveglio
un ronzio un sibilo un fischio,
non capisci (ti sei alzato
hai controllato ogni cosa
le prese la sveglia lo stereo
il PC lo scarico del water,
tutto ma niente, nulla!).
Poi ti arrendi e a occhi aperti
aspetti il tuo sonno, che arriva
tardi al ticchettare dell’orologio
***
E allora ti inoltri nel tuo mondo
ovattato. I clacson ti
suonano mentre vai al lavoro
i colleghi che salutano
e ridono, il tuo capo che ti urla
contro. Tutto così normale.
Poi al bar sei solo in pausa
pranzo col tuo panino.
Sfogli svogliato le figure
di un giornale mentre rigiri
il caffè che bevi a metà. La tua mente,
un muro di gomma.
Ti alzi infine e ritorni al lavoro
se ricordi la strada
***
Lei alza la gonna
come un sipario e ti mostra
lo stesso spettacolo di sempre
che poi portate avanti
con lo stesso copione.
Uniche variazioni al tema
– licenze degli attori –
sono qualche sbadiglio
o qualche sbuffo, a seconda
che la giornata sia trascorsa
pesante o noiosa.
***
Ne hai trascorsi di giorni
in cui hai pensato sul serio
di farla finita.
Allora hai passato in rassegna
tutti i modi possibili: treni
coltelli balconi corde
e altre decine di mezzi.
Ma non ti è bastato mai il
coraggio, da sciocco che sei.
Non ti illudi più tanto ormai
se fai pensieri inusuali
mangi del cioccolato
per le tue endorfine, ti
compri un maglione nuovo o
un cellulare con videocamera
per cercare meglio le tue
compagnie quando resti solo
in casa la sera e nessuno
ti cerca e non conosci nessuno
***
Non c’è molto da ricordare in effetti.
Tutte queste immagini si alternano
e sovrappongono e non li riconosci più
questi stracci di volti.
Non hai concentrazione per
finire il tuo lavoro e cerchi
senza successo di focalizzarti
su qualcosa di fisso e amico.
Poi mentre annaspi ancora arrivi
in fondo quasi senza accorgertene.
Hai ancora tante forze non
sfogate a sufficienza, ma
ti è dovuta una pausa ora
almeno di qualche minuto
***
Come sembra tutto bello
da questa distanza.
Riesci anche a piangere
per i morti, i tuoi morti
tra cui cammini, per gli occhi
magri dei bambini che hai visto
in tv. Telefoni a Teleton,
fai un’offerta generosa, condanni
i politici al bar e dici che
i giovani non sono più quelli di una volta.
Torni a casa pieno di ragioni
coi tuoi pensieri felici e tieni
lontano le ombre fischiettando
la tua canzone preferita
Salvatore
Della Capa nasce a Napoli il 22 dicembre 1983. Attualmente vive
e lavora a Imola, dove collabora con riviste e settimanali locali. Laureatosi
in Lettere, frequenta ora l’Università di Bologna dove
è in fase di specializzazione. Molto attivo nell’organizzazione
di eventi letterari nel circondario, pubblica una silloge poetica nel
2002 dal titolo Al cospetto dell’Alba con l’editrice
Libroitaliano. È da poco direttore di collana per la nascente
casa editrice inEdition di
Bologna.
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Su Strati
di Antonella Pizzo
CDB, Ragusa, 2004
di Marco
Scalabrino
Nelle poche righe che l’hanno accompagnato, quasi
a volergli conferire una dimensione minima, privata, intima, Antonella
Pizzo definisce il suo "libricino di poesie fatto in proprio".
Ma, davvero è così? Percorriamo, quindi, le strade (la
S.P. 25, la via Roma, la Panoramica, viale Sicilia, Piazza Stazione
e parecchie altre) di Antonella Pizzo.
Il tragitto, del tutto inaspettatamente, esordisce in salita con un
angosciante interrogativo: "Unni mi stai purtannu?". Ben oltre
l’apparente, semplice questionare sull’andare o meno in
una direzione, la domanda suona quale un quesito che chi scrive pone
a se stesso sulla destinazione della propria vita. Tant’è
che, mossi i primi passi, ribadisce: "qual è lu scopu e
quali la ragghiuni / qual è lu sensu ri lu mò campari"
e incalza " ‘u sacciu ca ‘i mò jorna su’
finuti / e ca stasira forsi nun mi scura".
La strada, dunque, luogo fisico e al contempo "spazio" del
ragionare, spazio che l’Autrice elegge per veicolare pensieri,
meditazioni, interrogativi. Spazio trafficato di fatti; spazio in cui
si aggirano i protagonisti di questa nostra vicenda. Non appaia spropositato
il termine "vicenda ”, giacché in buona sostanza l’opera
a mio avviso, piuttosto che per il consueto dispiegarsi di singoli,
separati capitoli, si connota per la coralità, il senso del collettivo,
il contesto storico. La storia: quella scritta coi caratteri minuscoli,
quella anonima di tutti i giorni, quella che nessun testo, nessun rotocalco
giornalistico, nessuno studioso mai contemplerà. E che pure esiste,
giorno dopo giorno ci forgia, ci segna l’esistenza.
Il mare " ‘ u mari … raaaanni! … ‘u mari
fattu ri làcrimi ri fogghi", i muretti a secco "ciàuru
ri terra … petri ‘i mura a siccu / ca pìsunu nto
cori" peculiari della provincia di Ragusa – microcosmo in
cui vive la Pizzo e attorno al quale gravita ogni centimetro di queste
STRATI –, il cielo per librarsi "nta l’aria" affrancati
dalla propria ancora fisica e volare nel sogno, nello spirito, nell’idealità
" ‘i ciusciuni ca abbuòlunu nta l’aria / mi
pàrunu ‘i pinzieri ca-nà fattu / l’àngili
frisciànnusi cull’ali", sono i "confini"
della silloge. In conformità ai propositi dell’Autrice,
la quale sempre manifesta lievità di toni, misura, riserbo –
queste riflessioni a bassa voce sul lavoro di Antonella Pizzo non pretendono
affatto fornire delle risposte, quanto unicamente si prefiggono di fungere
da stimolo affinché ciascun lettore possa integrarvi le proprie
valutazioni, elaborare ulteriori acconce argomentazioni.
Tra le ultime notazioni, che passano attraverso la suddivisione del
libro in due parti, la diffusa liricità della scrittura il clima
di calibrata mestizia che fa da comune denominatore al lavoro stesso
l’accorto impiego degli schemi metrici della tradizione, desidero
segnalare il testo I MÒ RECI RIUORDI a pagina 85 e richiamare
la vostra attenzione sulla dovizia, la bellezza, la musicalità
del lessico di cui Antonella Pizzo si serve e del quale riporto (con
traduzione in lingua tra parentesi) alcuni esempi: stùzzia (dispetto),
filazza (fessura), ficumori (fichidindia), succettu (scaldino), cucciuledda
(piccolo broncio), acciù (ormai), russagghiuna (rossa), taìccia
(un poco), richi (ossessioni), abbrancicàrimi (arrampicarmi),
smarmànicu (matto).
Lungo gli argini di tutte le STRATI poi, le forme, i colori, i profumi
della Sicilia: rosi, biancuspinu, gèrberu, ficu, ranati, pièssichi,
cièusu, nièspuli, citrunella, carruba, platani, palmi,
dàttiri, gersuminu.
Antonella Pizzo
nata a Palazzolo Acreide nel 54 vive a Ragusa e lavora presso l’Agenzia
del Territorio. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti in concorsi letterari
e vinto un premio per la migliore sceneggiatura (I corti di
Mauri, Roma, 2005). Ha pubblicato il romanzo Di rosso
smunto (Prospettiva Editrice, 2004) e varie raccolte di versi
sia in vernacolo che in lingua. Nel 2005 è uscita edita dalla
Lietocolle la raccolta A forza fui precipizio con prefazione
di Anna Toscano. Sue poesie sono incluse in antologie quali Verso
i bit – poesia e computer (Lietocolle, 2005) e Lo
stormo bianco (Edizioni d’If, 2005).
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L’acredine di un
impiegatuccio
di Luca Ariano
L’acredine di un impiegatuccio
un po’ burocrate,
come se fosse un romanzo
di fine ottocento;
impieghi postindustriali
che la sera lasci il sonno della giornata
in qualche portapenne o carpetta.
La ragazza Piera – laurea in marketing,
corrierista carrierista con Libero
nella borsa sale sull’ascensore,
figlia della buona borghesia lombarda.
E lo riporti ancora a quella mensa metropolitana,
- aperta anche la domenica,
di vecchi con lo sguardo nel vassoio
e piatti da centellinare.
Vecchi di paese sotto un pergolato d’estate,
a bere vino al cartone e salami discount,
di straforo vedi quei bei giardini pensili
in cortili di sontuosi palazzi.
Con l’alibi di sublimare la guerra
avete innalzato a semidei quei piedi,
ingranaggi che stritolano carta nelle rotative:
non il padre, non un poeta o un rivoluzionario.
Per non tossirti addosso ogni santa mattina
hai smesso di fumare come la vampa brucia nel tempo.
Luca Ariano è
nato nel 1979 a Mortara (PV), vive tra Vigevano e Parma. Ha pubblicato
nel 1999 la raccolta di poesie Bagliori crepuscolari nel buio
presso Cardano di Pavia. Numerose sue poesie sono apparse su riviste
e siti letterari tra cui Frontiere,
Faranews e FuoriCasa.Poesia
e su antologie tra cui Oltre
il tempo/Undici poeti per una Metavanguardia, curata da Gian
Ruggero Manzoni per le Edizioni Diabasis (2004) e La
coda della galassia, a cura di Alessandro Ramberti, FaraEditore
(2005). Collabora con il sito internet Pagina
Zero, Il Foglio Clandestino
e La Clessidra ed è tra i redattori della rivista Ciminiera.
Nel 2005 è uscita la sua seconda raccolta di poesie Bitume,
con la prefazione di Gian Ruggero Manzoni, per le Edizioni del Bradipo
di Lugo di Romagna.
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Follia
di Giuseppe Callegari
Gli occhi
Scrutano il caliginoso variopinto caravanserraglio
Riempiono il dubbio consapevole
Svuotano stocastiche rappresentazione quotidiane
Immaginano…
Volti e parole
Passi sempre più lievi
Labile e impercettibile confine
di un semaforo lampeggiante
Boato di una bussola nel buio
Compagna fedele di un vortice danzante
Un’immagine riflessa
Frammenti sciamano tumultuosi.
Ricomposizione imprevedibile
di verità non moltiplicabili
Temporali d’estate
Fulmini e saette
Pensieri si agitano
Cercano un impossibile rifugio.
Un nido nascosto fra le pieghe
di materia e ombre
Impotenza
Ululati
Vomiti
Disperazione
Grida scoordinate
…
Silenzi
Quotidiano squarciato, ma non rivelato
(Maggio 06)
Giuseppe Callegari
ha pubblicato con noi L'amore
si sporca le mani e Messa
a fuoco manuale.
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Su Canzuna di Vita,
di Morti d’Amuri di Marco Scalabrino
Samperi editore,
Castel di Judica (CT), 2006
di Alessandro
Ramberti
Questo poemetto di Marco Scalabrino in lingua siciliana
che oltre alla versione italiana (a cura di Maria Pia Virgilio con Flora
Restivo) ha pure quella in inglese a cura di Gaetano Cipolla e una versione
in brasiliano a cura di Nelson Hoffmann riesce a fare sintesi di una
energia poetica in modo veramente pregnante. C’è in qualche
caso una lieve caduta di tensione, ma questo sembra più vero
delle traduzioni che dell’orginale siciliano sempre vibrante,
immaginifico, con punte di godibile sarcasmo e scetticismo. Si veda
ad esempio il contrasto fra la forza di:
“E muntarozzi d’aschi / bummuli di lastimi mi vuscu / siddu
appena m’allanzu / a ‘mmanziri ssi nsulti.”
Rispetto all’italiano elegante ma più algido:
“E torme di farneticazioni / e nuovi quesiti m’aggrediscono
/ se timidamente mi provo / a penetrare questi dilemmi.”
E ancora consideriamo la vivacità di questa strofa: “Lu
munni / a quattru roti // strati strati / sugnu lu sulu / pedi piduzzi
// mi squatra // m’arrassa // mi bummia.” (L’umanità
/ a quattro ruote // per le strade / sono il solo a camminare // mi
scruta // mi evita // mi schernisce.)
È un poemetto in cui l’ironia non è una strategia
di distacco da una materia incandescente, ma lo sguardo valutativo del
volto che ci mostra (nostro malgrado) lo specchio quando ci facciamo
la barba: “A st’ura // su’ stranii, celi / ciauri
/ quarteri // e scogniti, facci / palori / fatti.” (Oggi // mi
sono estranei, cieli / odori / quartieri // e sconosciuti, volti / parole
/ fatti.)
Come si può notare i versi sono brevi, la punteggiatura essenziale,
il ritmo scandito da pause brevi e lunghe, ricchissimo il gioco di assonanze
e allitterazioni, lapidario il peso delle immagini: “Petru //
siddu nasci / masculu // ti chiamu / figghiu.” (Pietro // se sarai
/ maschio // ti chiamerò / figlio.)
Una sorta di testamento poetico, è questo di Marco Scalabrino,
capace di tessere anche nel gioco interlinguistico una domanda complessa
di senso, cosa di cui il nostro vivere tendenzialmente routinario ha
estremo bisogno.
Marco Scalabrino
è nato a Trapani nel 1952. Poeta (Palori, 1977;
Tempu , palori aschi e maravigghi, 2002), saggista,
traduttore ha pubblicato anche commedie in siciliano. Per una più
esaustiva presentazione si rimanda al sito www.vaidiqua.it/scalabrino
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Due poesie
di Michele Luongo
Scende, scende la neve
Scende, scende la neve
Che bel paesaggio: fiocchi
Come sorrisi dei bimbi
In un canto di luce
La famiglia
Si abbraccia al piccolo cuore.
Scende, scende la neve...
Però, che tristezza
Più in là
Passerotti abbandonati.
Un manto bianco
Nasconde
L’indifferenza, l’intolleranza.
Canto di una Madre
Non dirmi di più
Ti prego, inutilmente
Ho teso le mani.
Mi rimane
Nell’animo il silenzio.
Nei miei occhi
S’intrecciano
Fili d’argento
Solo ombre
Riflettono il sorriso.
Vorrei trasmettere
Il desiderio
Di averti vicina,
Accarezzarti,
Sentirti viva.
No, non piango
Anima mia
Conservo il guanciale
Dei tuoi sogni,
Immagini di primavera.
Sei compagna
Di canto angelico.
A sera se stella
In me,
Chiarore della vita.
Michele Luongo è nato
in Irpinia e vive in Trentino. È maresciallo dei carabinieri.
Ha vinto: la medaglia d'argento del Presidente della Repubblica nel
1994 al Premio Nazionale di Poesia "CITTA DI SOLOFRA", la
sezione edito del concorso nazionale di poesia CLUVIUM 1996 - Calvanico
(SA), il Premio Speciale "AIDO" Regione Campania, Termopili
d'Italia 2005 (Castelmorrone, Caserta) con la poesia "Un mattino".
Ha pubblicato diverse raccolte di poesie e un romanzo storico biografico
Irpinia
Terra del Sud.
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Antologia
del Premio nazionale biennale "Città di Solfora
a cura di Emilia Dente, Paolino
Marotta e Vincenzo
D'Alessio
Edizioni G.C.F. Guarini, Montoro Inferiore (SA), 2006
Questo libro raccoglie le opere selezionate dal Premio
anno 2005-06 (giurati: Emilia Dente Santangelo, Teresa Armenti,
Paolino Marotta, Domenico Cipriano, Vincenzo D'Alessio e le classi V
D del 1° Circolo Didattico di Solofra e V e IV A della su scuola
elementare di Montefusco). Sono risultati vincitori (in rosso e linkati
gli autori Fara)
Poesia inedita
Primo premio a: Gaetana AUFIERO
Secondo premio a: Patrizia ASSUMMA
Terzo premio a Loriana CAPECCHI
Note di merito a Giuseppe VETROMILE, William STABILE,
Giovanni SPADA, Benito SABLONE, Benito GALILEA.
Poesia edita
Primo premio ad Alessandro
RAMBERTI
Secondo premio a Narda
FATTORI
Terzo premio a Mina ANTONELLI
Note di merito a Michelangelo CAMMARATA, Paola
CASTAGNA, Francesco SCARAMOZZINO, Anna Maria MONCHIERO, Gezim
HAJDARI,
Franco CASADEI, Mohamed
GHONIM, Giovanni CASO, Anna FERRAZZANO.
Riportiamo le note critiche della classe IV della
scuola elementare di Montefusco (insegnante Lucia Stanziale)
relative alla poesia Sassi (da In
Cerca di A. Ramberti) e a Canto per Maria (da Verso
Occidente di Narda Fattori).
Sassi
Le pietre adatte alla lapidazione / sono la nostra gravità
e possiamo / liberarcene solo con grazia: / se le tiriamo ad altri /
ne avremo sempre / l'impronta / presente / come piombo
"Le pietre adatte alla lapidazione / sono la
nostra gravità. Questi pochi versi che aprono il testo poetico
Sassi di Alessandro Ramberti ci hanno particolarmente colpito per il
significato profondo che c'è in essi: pietre, non solo oggetti
da prendere o lanciare, ma sassi quali metafore delle nostre colpe,
dei mail che attanagliano il genere umano. Sono quella forza di gravità
che ci opprime, ma di cui possiamo liberarcene solo instaurando un dialogo
continuo con Dio, solo 'con grazia'. Interessante è stata anche
la similitudine con cui il poeta paragona il male che viene commesso
ad un'impronta pesante come il piombo che opprime l'uomo. I versi si
concludono con un invito alla tolleranza e alla solidarietà.
Ciascuno dovrebbe prendere ad esempio il profondo sentimento di apertura
agli altri e di empatia dell'autore." (troppo buoni! :-)
Canto per Maria
E ti guardo Maria in fotografia / con gli occhi cerulei e il vestito
della festa / un lieve rossore sul volto / il sorriso con un’ombra
di rossetto. / Avevi diciott’anni in quella foto / e i calli all’interno
del palmo delle mani / per grattare la terra in cerca di tesori. / Avevi
dei progetti Maria, madre mia, / tutti incisi nella tua grafia tonda
/ senza errori d’ortografia / non come fai adesso che hai la testa
altrove. // Ho bussato al tuo ventre troppo presto / tu cerva che vuole
scollinare / fosti costretta a brucare al passo. / Quanta gragnola di
sassi pur se sapevo / che c’erano tante strade oltre Via Viole
/ e ogni colpo diroccava i muri della casa. / Ora tu pietra con un palpito
lontano / ti raccolgo anima in un guscio vuoto. // Il dramma è
eterno nel battito di ciglio / che cela tardive stille di pianto."
"L'autrice in questi versi fa intravedere fondamenti
autobiografici e forti sentimenti. La descrizione di questa donna di
nome Maria emblemizza effetti atavici e duraturi. Un concetto onnipotente
di madre capace di sacrifici tutta la vita. Ricordo doloroso e triste
delle sue mani capaci di tanti lavori, ma anche di dolcissime carezze.
Il quadro di una donna che fa trasparire la poliedricità delle
sue occupazioni con il vestito della festa e un lieve rossore suo volto,
con occhi cerulei e un'ombra di rossetto. E il dipint di una giovande
diciottenne, radiosa nell'aspetto, con le mani piene di calli prodotti
dal lavoro nei campi. Tanti sacrifici per realizzare sogni giovanili
mai realizzati per la nascita di una figlia troppo presto che l'aveva
trasformata da cerbiatta agile e veloce in una cerva matura che bruca
e si muove lentamente. Una farfalla alla quale sono tarpate le ali.
I versi conclusivi sono l'espressione di un rimpianto doloroso che la
scrittrice conserva nel cuore. È un dolore eterno che sempre
si nasconde dietro ogni lacrima. Tutto il componimento è un canto
d'amore per la figura della madre, donna staordinaria, capace di sacrifici,
ma anche di grandi manifestazioni di affetto; di grandi sogni, ma anche
di grandi riununce per amore materno."
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Su Al mondo
di Teresa Zuccaro
Sinopia Libri,
2006
"… Al mondo è un libro sull’identità,
che viene sminuita in chi la ostenta e celebrata, invece, con pudore,
dove nessuno la cerca più; ed è un libro contro la rapidità,
l’efficienza, il presenzialismo del nostro tempo. Teresa Zuccaro
si affida a quel tempo misterioso e profondo dove suono aggiunto
a suono dà silenzio di tomba e luce su luce uguale nero;
si dichiara sbadata, lenta, incompleta, inadatta alla verità,
ma anche attenta al desiderio, che spesso è il suo contrario.
…" (dalla quarta di copertina di Alba Donati)
Di questa tersa e fluida raccolta di Teresa
che è quasi un Bildungsroman in cui natura, incontri ed eventi
sono coprotagonisti della "realizzazzione" dell'autrice (e
del lettore), vi propongo una strofa di Capovolgendo Rilke (p.
62, sezione "Luci e nebbie"): “Tutte le cose si donano
a me / e io divento ricca e le comprendo. / Ho tanti luoghi da visitare,
/ abito nel mio corpo, / la stanza degli ospiti è il mio cuore.”
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Nuove poesie
di Fabrizio
Centofanti
vangelo di Giuda
il bicchiere è una forma silente
di angoscia uterina. "fai bene a fidarti".
eppure non basta un addio. l'imprevisto
ti può visitare nel sogno: l'amico è l'amico,
potrà miscelare due sguardi diversi
e chiedersi cosa ti aspetti?
ci giurano ancora i pochi superstiti,
i vecchi cui trema la mano, nel fare la guerra:
le dita accarezzano lame consunte.
la terra e il suo verso indomabile
su un ciglio d'azzurro
fioriscono
un nulla cantabile.
universopoesia
se ricorda o dimentica non conta
quando la lingua è morta e l'ultima parola
ha il gusto amaro delle cose perse,
degli indirizzi inutili sul notes.
la pioggia si autocelebra nel battito lento degli oceani,
e la cura è una foto in dissolvenza
di luce o di buio impercettibili,
in sequenza.
ordinazione
l'ultimo che aspetta, la cascata
di luce e il calendario dei suoi dolori,
il paradosso che esista un Dio
nonostante lo svanire, la preghiera
di terra: oscurità magnifica
raccolta per marcire, consacrata
alla polvere amara dell'incenso,
alla bruma che sale, diafana,
nel vuoto.
saudade
di tutto questo vivere inespresso
resta una lettera scritta con la polvere, all'alba,
nell'ora in cui i defunti si nascondono.
nessuno sa dove vadano a dormire
con le agende scadute,
piene di strani appuntamenti.
si confondono le lingue. a volte, forse,
si vede un braccio diafano che prova
a rimboccare bene le lenzuola:
per custodire un complice segreto
della muta, reciproca sconfitta.
apocalissi
il giorno si spalanca sul presagio
di una tempesta. la luce, alla finestra,
è una carta topografica del cielo,
con le sue estati scure, di bombe che fischiano in cantina.
non gli risparmia nulla, come un coprifuoco
di brezze e carte, infisse nel portone.
la scheggia ha la faccia della madre,
l'astuzia rude di un vecchio trafficante di reperti.
Fabrizio
Centofanti è laureato in Lettere moderne con una tesi su
Italo Calvino. Sacerdote diocesano a Roma dal 1996, opera soprattutto
nel campo della spiritualità e dell'approfondimento della Sacra
Scrittura. Ha pubblicato due volumi su Calvino e Rebora, oltre a numerosi
saggi e articoli di natura letteraria. Nel 2005 è uscito il volumetto
Le
parole della felicità (Laurus Robuffo).
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Da Uscendo
Edizioni l’obliquo, Brescia, 2006
di Paolo Campoccia
Sperdimento
Io sono nell’orma della sofferenza
un passo tolto alla terra,
chi non sente più le cose agire
e non ha sazio il cammino.
Porto il mio suono
come la vicinanza certa
della carne sull’anima
sudata sotto il vento.
Pianure insormontabili,
monti che confessano l’orizzonte,
io non so che cose così,
passi sull’orlo dei secoli,
io non so trovare
che altro.
Una notte distanti
(a Loredana)
Lolò,
cala molta della tua vita stasera
dal balcone che prende un’aria stanca
mentre la pioggia
e l’odor di pioggia metto assieme.
Il ricordo di te circonda le stelle,
te lo vedo ora con più fuoco negli occhi
moglie
ora che sei della notte, di ogni altra cosa
mia piccola
solitudine,
porta che preme sulle dita di chi prega.
I bimbi li ho messi a letto,
la notte orbita sui monti, tutto adesso
non comunica con noi,
non dà segni di vita
diversa dal giorno svanito che mi rimorsica in fronte.
Mentre così dico, scompari meglio nella pioggia,
con le cose perse di fuori, dalla porta
vai in ogni altra cosa,
accompagni il nostro incontro vero
mia
ti fai
fraterna alla notte.
Memento
Ricorda io sono qualcuno che resta:
chi dal tuo nome è tolto, nel tuo pianto
resta. Uno che vede chi vede il vento
uno che viene e paga di tutti il tempo.
Nebbia
La nebbia senza rispondere m’appare
crepata come da una voce
che ti punta negli occhi.
Dapprima mi parla paterna, poi nessuna
ora di cammino fra case la scalza
e mi scende introvabile
freddando ogni domanda
col solo essersi chinata
in tutto il mio respiro.
Poi mi prende mi viene vicina
nella voce si aprono
i nomi del sole, dei fiori e dei fiumi.
Li vedi scanditi nel vento
che battezza su ogni cosa
il mio nome
e ovunque mi chiama altrove
più dentro.
Paolo Campoccia
è nato a Roma nel 1969, attualmente vive a Verona. Nel marzo
2006 ha pubblicato il suo primo libro di poesia Uscendo
(Edizioni L’obliquo) con nota introduttiva di Franco Loi. Sue
poesie sono apparse su varie riviste letterarie e su una plaquette artistica
delle Edizioni PulcinoElefante. Dirige la rivista letteraria Spartito,
ha tradotto Gli amori gialli di T. Corbière
per Zanetto Editore ed ha curato l’antologia del Premio di poesia
G. Piccoli di cui è direttore. Collabora alle pagine letterarie
e culturali di diversi quotidiani e periodici. Si occupa di didattica
della scrittura, ha inoltre pubblicato scritti per bambini.
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Memoria e speranza
di Bernardo Francesco
M. Gianni
«Oggi imperversa nel pianeta un’ideologia
del presente e dell’evidenza che paralizza lo sforzo di pensare
il presente come storia, perché essa si adopera a rendere obsoleti
tanto le lezioni del passato quanto il desiderio di immaginare l’avvenire.
Da uno o due decenni a questa parte il presente è divenuto egemonico.
Agli occhi dei comuni mortali, esso non è più l’esito
del lento evolversi del passato, non lascia più intravedere un
abbozzo del futuro possibile, ma si impone come un fatto compiuto, opprimente,
il cui inopinato palesarsi fa dileguare il passato e saturare l’immaginazione
dell’avvenire». Questa recentissima ed angosciata diagnosi
del filosofo Marc Augé, relativa ad una vera e propria «dittatura
dell’incerto presente», pone chiaramente in evidenza uno
dei sintomi più drammatici di una diffusa patologia dell’uomo
contemporaneo: il nostro infatti è un cuore sovente sgretolato
dal pragmatismo tecnologico dominante e pertanto tentato di subordinare
alla percezione e alla consunzione dell’immediato l’austera
ma feconda fatica della memoria e della speranza. Il cristiano dovrebbe
invece ben sapere come l’intero arco del tempo – dalla storia
magniloquente delle diverse civiltà allo scorrere feriale dei
nostri giorni – sia nelle mani di Dio come sua inalienabile proprietà.
Il tempo dunque non ci appartiene, semmai ci viene donato come costante
occasione per manifestarvi l’irrompere sempre nuovo e inaudito
del kairós favorevole e di quel giorno della salvezza
(2 Cor 6,2) inaugurati per sempre nel mistero pasquale. Tale novità
è quotidianamente resa attuale nella liturgia che da un lato
celebra di quel mistero la memoria attraverso il paziente ripercorrere,
mediante l’ascolto della Parola di Dio, dell’intera historia
salutis, dall’altro schiude alla salvezza in Cristo il tempo
presente e la creazione intera nel mistero sommo della celebrazione
eucaristica, memoriale dei memoriali.
È in questa dimensione tipicamente cristiana che riconosciamo
il nostro cuore radicalmente bisognoso di custodire la memoria e la
speranza come doni e attitudini capaci sia di renderci fiduciosamente
consapevoli dell’azione provvidente e mirabile di Dio nella nostra
storia sia di alimentare il desiderio della vita eterna, télos
supremo delle nostre esistenze. Solo se sollecitati da questa salutare
tensione fra passato e futuro e solo se perennemente memori che «nella
speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8,24), possiamo dedicarci
in pienezza all’edificazione di un presente secondo il cuore e
la volontà di Dio. In definitiva a tutto questo alludeva in altri
bellissimi termini il martire evangelico Dietrich Bonhoeffer: «La
perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi
di tutti i vincoli, dell’amore, del matrimonio, dell’amicizia,
della fedeltà? Niente resta, niente si radica. Tutto è
a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma beni come la giustizia,
la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi realizzazioni
richiedono tempo, stabilità, “memoria”, altrimenti
degenerano. Chi non è disposto a portare la responsabilità
di un passato e a dare forma a un futuro, costui è uno “smemorato”,
e io non so come si possa colpire, affrontare, far riflettere una persona
simile.»
Persuasi da queste impressionanti e attualissime parole del grande teologo
luterano vorremmo qui ospitare, con la devozione del cuore e della mente,
una memoria che, pur bagnata dalle lacrime necessarie per la faticosa
semina del Vangelo nella dura terra della storia, già si accende
di beata speranza in vista di una sovrabbondante e consolante mietitura
di carità. Il 21 maggio 2006 si sono infatti compiuti dieci anni
dall’uccisione dei sette monaci trappisti del monastero di Notre-Dame
dell’Atlas, in Algeria, per mano dei fondamentalisti islamici
del cosiddetto “Gruppo Islamico Armato”. Pochi mesi dopo
quell’efferata uccisione, il 10 Ottobre 1996 Papa Giovanni Paolo
II, dal policlinico Gemelli, dove si trovava in convalescenza, inviava
ai membri dell’Ordine Cisterciense della Stretta Osservanza un
messaggio che si concludeva con queste parole: «Voi, fratelli
e sorelle, siete depositari di questa memoria, nella preghiera, nel
discernimento comune e nelle direttive concrete che crederete opportuno
prendere perché la memoria di questi eventi dei vostri confratelli
dell’Atlas diano frutto nel futuro, per i Trappisti e per tutta
la Chiesa». Dieci anni dopo, tracciando un bilancio di quanto
si è successivamente fatto per raccogliere l’esortazione
del papa, l’abate generale dei trappisti, Dom Bernardo Olivera,
ha recentemente scritto in una sua recente lettera circolare: «Far
memoria significa ricordare e non dimenticare, agire e non venir meno.
Voglia il Signore che questo semplice “far memoria” spinga
i cuori ad impegnarsi per tradurre in opera tante riflessioni e tanti
desideri».
Osiamo dunque anche noi raccogliere questo operoso invito a «far
memoria» di una così esaltante e al contempo umile testimonianza
bagnata dal sangue del martirio, una testimonianza di speranza e di
amore fondata sul primato di una vita vissuta nella preghiera, nella
fraternità e nell’amicizia in forza della chiara consapevolezza
di quanto sia irrinunciabile un’accorata ed impavida estroversione
della Chiesa al mondo e alle culture in cui essa è gettata come
seme fecondo di novità evangelica. Scriveva infatti il padre
priore di Atlas, frère Christian de Chergé: «Nonostante
la nostra fragilità siamo convinti di dover resistere. Proprio
per questo misuriamo sempre meglio il valore di quelle relazioni che
continuano a offrirsi a noi, giorno dopo giorno: relazioni semplici,
con gente semplice […]. L’islam in esse assume un volto
capace di arricchire la nostra esperienza di Dio e dell’uomo […].
Ci sappiamo convocati alla verità di un itinerario spirituale:
lasciarci scavare per acquisire la disponibilità di un cuore
povero, che può offrire solo la sua fedeltà di oggi; lasciarci
pervadere dalla benevolenza di Dio per questo popolo che soffre; lasciarci
provocare anche noi attraverso la prova a un sovrappiù di umanità,
tra noi innanzitutto, per contribuire a esorcizzare la violenza esercitando
semplicemente il ministero di vivere, e di vivere insieme.»
In tempi travagliati come i nostri, in cui la fede nel Signore Gesù
da esperienza esistenziale della sua sequela corre il rischio di ridursi
a questione di autoreferenziale appartenenza ad un mero collante culturale
ed ideologico funzionale ad un Occidente drammaticamente privo di memoria
e di speranza, questi fratelli, con la loro radicale testimonianza di
amore, ci invitano ad assumere ogni giorno come evangelicamente irrinunciabile
e sapido un riconciliante e misericordioso «ministero di vivere,
e di vivere insieme». Esso si dà come manifestazione gratuita
di una fede coraggiosa perché fondata unicamente sulla forza
disarmata del Vangelo che parla e vuole parlare a chiunque viva intorno
a noi, perché «Dio non fa preferenze di persone, ma
chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è
a lui accetto» (At 10, 34). Come altrimenti far sperimentare e
render credibile l’audacia dell’umile carità del
Dio Trinitario, il Dio di Gesù Cristo, il Dio con noi? Solo l’urgenza
di voler concretamente rispondere a questo interrogativo può
motivare la lucida e risoluta disponibilità a perseverare
che testimoniano le profetiche parole rivolte dallo stesso frère
Christian alla sempre più tormentata comunità cristiana
di Tibhirine nel marzo del 1996, l’ultima quaresima della sua
vita: «Dobbiamo essere testimoni dell’Emmanuele, cioè
del “Dio-con”. C’è una presenza del “Dio
tra gli uomini” che proprio noi dobbiamo assumere. È in
questa prospettiva che cogliamo la nostra vocazione a essere una presenza
fraterna di uomini e di donne che condividono la vita di musulmani,
di algerini nella preghiera, il silenzio e l’amicizia. Le relazioni
chiesa/islam balbettano ancora perché non abbiamo ancora vissuto
abbastanza accanto a loro. Dio ha tanto amato gli uomini che ha dato
loro il suo Figlio, la sua chiesa, ciascuno di noi. “Non c’è
amore più grande che dare la vita per i propri amici”».
Parole assai audaci che rivelano nitidamente un’esperienza reale
di vita e di donazione della vita e che pertanto diventano per noi oggi
un preziosissimo e credibile testamento: ci consegnano infatti un lascito
prezioso di fede, di speranza e di carità, i doni teologali che
sono l’eredità più desiderabile nei nostri tempi
assai ricchi del tanto, ma poverissimi dell’essenziale. Vi ritroviamo
altresì una esemplare chiarificazione del senso ultimo di ogni
più autentica testimonianza monastica, faticoso cammino di apprendimento
del «comandamento nuovo» dell’amore (Gv 13,34) in
quella schola dilectionis che è il cenobio benedettino: «La
parola caritas [...] è la meta ultima di tutta la Regola
e definisce inoltre la scuola benedettina: carità, dilezione,
dilatazione del cuore ... tutto questo nella pazienza della stabilità
e della perseveranza, il modo a noi proprio di partecipare alle sofferenze
di Cristo: ecco il nostro “martirio”, che dovrebbe quindi
essere tanto un “martirio di amore” quanto un “martirio
della speranza”» (fr. Christian, dagli Atti del Capitolo
di comunità del 16-III-96).
Sì, solo la custodia memore, attenta ed operosa di quel supremo
dono di Dio che è la fede nella caritas (1 Gv 4,16)
e la disponibilità ad esserne autentici testimoni ci permettono
di guardare alla storia come tempo di speranza e possibilità
di conversione, di salvezza e di comunione: «Dio prepara per voi
un avvenire di pace, non di sventura; Dio vuole donarvi un futuro e
una speranza (cfr Ger 29,11 e 31,17). Moltissimi sono coloro che oggi
aspirano ad un avvenire di pace, ad un’umanità liberata
dalle minacce di violenza. Se alcuni sono in preda all’inquietudine
per il futuro e si sentono immobilizzati, ci sono anche, in tutto il
mondo, giovani capaci di inventiva e di creatività. Questi giovani
non si lasciano trascinare in una spirale di malinconia. Sanno che Dio
non ci ha creato per essere passivi. Per loro, la vita non è
soggetta alla fatalità del destino. Sono coscienti che l’essere
umano può essere paralizzato dallo scetticismo o dallo scoraggiamento.
Perciò essi cercano, con tutta la loro anima, di preparare un
avvenire di pace e non di sventura. Più di quanto immaginano,
sono già in grado di fare della loro vita una luce che rischiara
tutto intorno a loro». Queste sue consolanti parole di speranza
e di fiducia rivolte ai giovani del nostro tempo sono un umile omaggio
alla memoria di un altro martire della fede e dell’amore in Cristo
unico Signore, Frère Roger Schütz, fondatore della Comunità
ecumenica di Taizé, umiliato e ucciso come agnello muto e innocente
il 16 agosto 2005, durante la preghiera della sera nella chiesa della
sua comunità, la chiesa della Riconciliazione, luogo di benedizione
per una moltitudine di credenti e per l’intera ecumene cristiana.
Bernardo Francesco
M. Gianni è nato a firenze il 28-xi-68. Laureato in Lettere
antiche su un testo umanistico di Coluccio Salutati, entra in monastero
nel 1996, a San Miniato al Monte. È monaco benedettino olivetano,
professo perpetuo dal 2001, "prete" dal 2006. Per contatti:
Abbazia di San Miniato al Monte
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze
tel. 055.234.27.31 - fax 055.234.53.54 - mail: sanminiato@tin.it
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