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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 43
Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
Sì. Un esempio è Drazan Gunjaca di cui è
in uscita Congedi Balcanici, grande e coinvolgente
affresco sulla guerra nei balcani. Un altro romanziere, affascinato
dal lato oscuro e criminogeno dell'uomo, è Daniele Borghi: Il
nome di una privazione. Abbiamo recentemente pubblicato altri tre
narratori di ampio respiro: il giovanissimo Alex Celli si diverte presentandoci
uno spaccato del mondo giovanile in Chicken Breast;
Paolo Galloni riflette nel Cuore della colomba i dubbi
individuali e sociali di un'umanità che deve fare i conti con
i propri errori passati e cercare di trovare una difficile armonia nell'uso
delle risorse naturali e nei rapporti fra i popoli e le persone; Michele
Ruele riflette in Sogni d'emergenza sulla libertà
condizionata dalla politica di un giornalista che vorrebbe essere un
intellettuale impegnato. Siamo lieti di ospitare: un brano dialogico
di Fabio Cavallari e Ottavio Brigandì, Tirumala
di Marco Tassinari, versi di Adeodato Piazza Nicolai
e Claudia Pretto.
Ricordiamo che è in scadenza il Concorso IIIM.
Chiudiamo il numero consigliando alcuni siti. Buona
estate!
Congedi
balcanici
di Drazan Gunjaca (v.
anche Roulette balcanica)
Una mattina di quei giorni Luka mi chiamò in disparte
e mi disse che con alcuni ragazzi doveva far saltare un ponte sul fiume
Trebisnjica: tutto era stato già pianificato e non c'era
alcun pericolo. Quasi nessun pericolo. Io gli augurai tanta fortuna,
ma lui continuò dicendomi che sarebbe stato bene che fossi andato
anch'io perché non sarebbe stato bello che un “ispettore”
fosse rimasto là. Naturalmente, io nuovamente mi misi a sacramentare
su tutti i suoi parenti defunti (quelli che si potevano nominare), rifiutando
anche il solo pensiero di andare a far saltare un qualsiasi ponte, e
spiegandogli che stavo aspettando un mezzo di trasporto per Ston. Dopo
un'ora di tentativi per convincermi che davvero non c'era
pericolo, eccetto un po' al ritorno, ma neanche al ritorno se
passavamo in fretta una vetta, e che una volta ritornati avrebbe subito
organizzato il mio trasferimento a Ston (perché, chiaramente,
in quel momento non poteva farlo), alla fine accettai. Contro voglia,
ma accettai. Fu decisivo il fatto che non ci fosse nessuno di guardia
al ponte. Non mi sfiorava neanche minimamente l'idea di andare
a rischiare la vita l'ultimo giorno al fronte. Gli chiesi perché
quel ponte dovevano farlo saltare, e lui mi rispose che la cosa andava
fatta per non subire un eventuale contrattacco. Doveva trattarsi dell'unica
via di comunicazione in quella parte della valle.
Nel frattempo ci raggiunse il medico che stava ascoltando il nostro
discorso con entusiasmo, per chiedere a Luka di farlo partecipare all'azione,
ma lui rifiutò dicendogli che in base alle convenzioni i medici
non devono essere armati, non devono partecipare alle operazioni belliche
e via dicendo. Il tipo però insisteva e alla fine Luka cedette,
facendogli presente che la parte più importante dell'operazione
era l'eroica fuga a gambe levate perché l'artiglieria
dell'Esercito Iugoslavo si trovava a soli due chilometri dal ponte
e non appena ci avessero avvistati, e ci avrebbero avvistati di sicuro,
saremmo stati fritti se non avessimo oltrepassato in fretta un colle
che si trovava nelle vicinanze del ponte. Il medico cercava di convincere
Luka che era in ottime condizioni fisiche, che la sua pancia era solo
un diversivo per il nemico (e si trattava davvero di una pancia enorme,
per cui il medico non mi convinceva granché), che non doveva
preoccuparsi, che con lui non avrebbe avuto problemi.
Alla fine anche il medico partì con noi. Io stavo ancora considerando
tra me e me perché avessi accettato. Ma visto che non c'era
pericolo, non era cosa d'ogni giorno poter vedere come si faceva
saltare un ponte.
L'uomo è spesso causa del proprio male, e io in ciò
sono insuperabile, pensai. Per giungere al ponte ci vollero due ore
attraverso la macchia, dopo di che ci infilammo nei cespugli sulla riva.
Con due della spedizione rimasi un centinaio di metri indietro, mentre
gli altri si avvicinarono al ponte, accanto al quale si trovava una
piccola baracca. Per un po' di tempo non si udì niente,
poi alcuni spari. Poi di nuovo silenzio. Poi l'esplosione. Prima
il ponte si alzò in aria e poi con grande frastuono crollò
nel fiume. Devo confessare che il tutto mi sembrò meno suggestivo
di quanto mi aspettassi.
Luka, Mario e gli altri corsero indietro tanto velocemente che ci oltrepassarono,
e noi a nostra volta iniziammo a correre dietro a loro.
Di passaggio Mario mi gridò che avevano dovuto uccidere alcuni
cedo.
Arrivammo alla vetta che dovevamo superare divisi in tre gruppi che
correvano in tre direzioni diverse. Nel mio gruppo c'erano Mario,
Luka, il medico e un altro soldato di cui non ricordo il nome. Correvamo
a più non posso per superare la vetta, e lasciarci alle spalle
quello che in linguaggio militare rappresentava un classico esempio
di terreno esposto al tiro nemico. Ma come mi avevano insegnato nel
mio ex esercito, il gruppo si muove alla velocità dell'uomo
più lento. Dovevamo fare all'incirca seicento metri in
cui gli unici ripari erano i massi di pietra disseminati qua e là,
il maggiore dei quali aveva il diametro di mezzo metro. Dopo cento metri
il medico rallentò per prendere fiato: era letteralmente verde
e sembrava sul punto di crollare.
Tra i tre gruppi, proprio del nostro doveva far parte, pensai guardandolo.
D'altro canto non era colpa sua. Solo che alla sua età
e con quella pancia su quel pietrisco non ce la faceva. Evidentemente
aveva sopravvalutato la propria condizione fisica. Luka rallentò
e assieme a Mario presero il medico sottobraccio e cominciarono a trascinarlo.
– Scoppia se non ci fermiamo subito – gridai guardando la
sua faccia che nel frattempo era diventata viola.
– Ce la farà – gridò Luka autoritario liberando
il campo da ulteriori discussioni.
Ci muovevamo sempre più lenti. Non bisognava essere grandi strateghi
per capire che se ci fermavamo, eravamo tutti fregati. I cinque minuti
che Luka aveva previsto per il passaggio della vetta erano passati e
non eravamo neanche a metà. Eravamo a un centinaio di metri dal
terreno coperto quando i mortai iniziarono a bombardare a tappetto il
terreno attorno a noi. Era solo questione di sapere quanto ci avrebbero
messo per aggiustare il tiro. (…)
(da Congedi balcanici,
cap. 5, in corso di stampa nella collana I
confini dell'Oceano)
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Il nome di una privazione
di Daniele Borghi
Uscii da quell'ufficio che erano le sette e mezzo. La mia giornata
di lavoro retribuito era finita.
Dopo essermi fermato a mangiare in una rosticceria mi diressi verso
la stazione. Lo spazio vetrato destinato alle biglietterie era già
popolato da randagi che si aggiudicavano un angolo per la notte. Appena
entrato nel grande atrio notai Giorgio di fronte a tre persone che puzzavano
di guai a cento metri di distanza. Testa rasata e giubbotti di pelle
nera non lasciavano dubbi su che tipo di soggetti fossero. Giorgio,
con lo sguardo dell'animale braccato, cercava con gli occhi l'aiuto
dei suo compagni di sventura senza ottenere altro che teste piegate
sul petto o rivolte verso il muro. Quando fui ad una ventina di passi
da loro sentii il mio amico che, nell'inutile tentativo di farli
ragionare, si rivolgeva a quei tre giovani con la voce incrinata dalla
paura.
– Lasciatemi in pace, vi prego. Non vi sembra che la vita che
faccio sia già una punizione abbastanza grande? Perché
volete umiliarmi ancora di più.
– Perché sei una merda di barbone – rispose quello
più grosso dei tre – ecco perché. Non è mica
difficile da capire. Tu sei una merda e le merde non devono stare in
giro a puzzare in mezzo alla gente, devono andare nelle fogne e rimanerci.
Di incontri con quel tipo di personaggi ne avevo avuti fin troppi e
sapevo che ogni volta poteva accadere qualcosa di diverso. Nella loro
ottusità erano imprevedibili. A giudicare dalla persona contro
cui si stavano schierando questi dovevano essere del genere vigliacchetto,
ma non ci avrei scommesso neppure un euro. Magari erano i più
aggressivi e temerari e stavano soltanto cercando un modo per ingannare
il tempo. L'unica cosa su cui non avevo dubbi era che non si sarebbero
lasciati convincere dai ragionamenti.
Dal coltellino svizzero che avevo in tasca tirai fuori la lama più
lunga, quella seghettata. Per evitare che Giorgio mi vedesse e potesse
tradire la mia presenza, feci un largo giro per arrivare al gruppetto
da dietro le sue spalle.
(da Il nome di una
privazione, cap. 6)
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Chicken breast
di Alex Celli
Il nostro si presentò quindi in borghese all'ufficio e,
informato da un collega che il capo sarebbe arrivato in ritardo, passò
il tempo a fantasticare perso nei suoi bizzarri pensieri tanto che il
collega, vedendolo con lo sguardo perso, gli chiese se c'era qualcosa
che non andava.
Alex gli rispose:
– Hai mai pensato di cambiare lavoro?
Il collega, del quale non ci è dato di sapere il nome, ci pensò
un attimo e disse:
– Qualche volta, ma poi dove andrei? Cosa farei? Questo lavoro
è buono, voglio dire; il capo, anche se parecchie volte è
incazzato, ti tratta bene, non si devono alzare le cose perché
si lavora di testa, c'è la radio e l'aria condizionata,
cosa desiderare di più? Pensa a quelli che lavorano in miniera
o nelle piantagioni!
– Proprio perché ci penso non riesco a essere sereno, ma
cos'intendi per stare bene? Non desideri un altro tipo di vita,
ti senti realizzato come uomo?
– Intendo in futuro aprire uno studio tutto mio!
– Non capisci ancora, la mia vera domanda è se davvero
vuoi passare tutta la tua vita in uno studio a spiegare a clienti alienati
come risparmiare più soldi possibile, e contare ogni tre mesi
i soldi delle tasse, o parlare a vanvera con un burocrate dell'Ufficio
delle Entrate: che senso ha tutto ciò?
Il collega aggrottò la fronte:
– Ma che cavolo dici? Il senso è che servono i soldi perché
se no, non mangi amico, e chi paga le bollette? Inoltre il cellulare
chi pensi che me lo paghi?
– Già, ma tralasciando il fatto che tutto questo iperlavoro
sta quasi diventando una scusa per non occuparci più di noi esseri
umani, ci trovi ancora gusto nella vita? Ascolta, guadagniamo e compriamo
cose inutili perché questa è l'unica cosa che ormai
sappiamo fare: lavoriamo, compriamo, lavoriamo e parliamo soltanto di
cose inerenti al lavoro o di stronzate, capisci? Ormai la gente il sabato
va a fare shopping o a comprare roba all'Iper perché…
per Dio… perché ci stiamo rimbecillendo!
– Rimbecillendo? Amico, la società va avanti, è
sempre più high tech ormai, con Internet possiamo fare la spesa
da casa senza dover muoverci nemmeno, e le conquiste mediche? Ci manca
un pelo così e diventiamo immortali!
– Non sono d'accordo nel tessere troppo le lodi della tecnologia:
il computer è una scatola che si guarda, noi ci limitiamo a spingere
i tasti, non capisci che tutto quello che fa lui noi lo perdiamo? Stiamo
diventando delle macchine che governano macchine, freddi come quelle
scatole e pieni di merda. Cazzeggiamo quando il telegiornale ci mostra
la miseria più agghiacciante, quando gli uomini muoiono come
cani in Palestina e in Israele, quando un “folle” spara
in un ufficio e anche quando un tizio dirotta un aereo e trasforma mille
uomini in fango. Distruggiamo la terra che ci ospita da eoni e lasciamo
correre, pur sapendo benissimo che, a causa di questo selvaggio sistema
economico, qualcuno sfrutta i bambini facendoli lavorare come bestie:
a noi di queste cose ci frega il cazzo, basta che il campionato non
si fermi perché allora sì che ci sono incazzature e polemiche!
La verità è che questi sono tutti segni che la società
è marcia, malata e alienata; stiamo tutti male perché
qualcuno, o qualcosa ha strappato l'anima agli uomini. Con questo
non voglio dire che siamo cattivi, ma che abbiamo perso il senso del
vivere: siamo troppo coccolati dalle stronzate per aver solo la voglia
di ritrovarlo. I poveri, invece, vogliono quello che non hanno perché
tra le poche cose che hanno ci sono la malattia e la fame; quando uno
è nella merda, e se nella merda ci sta da molto, da generazioni,
e non ha altro da perdere che la merda, può essere disposto ad
attuare qualunque pazzia.
Dopo questa arringa il collega rispose:
– Tutte masturbazioni mentali, è così perché
è così, quelli che si fanno saltare in aria sono dei pazzi
come quelli che sparano negli uffici con i fucili! Punto e basta!
– Non si può ragionare così, bisogna che il mondo
si fermi a riflettere, che L'ONU convochi un consiglio generale
per capire che ne vogliamo fare di questo pianeta, per capire se questo
sistema economico è buono, per capire perché alle volte
sento il bisogno di autoeliminarmi… non ci vuole molto per rimediare,
ma bisogna averne la volontà!
Il collega alzò la radio ed esclamò:
– Basta puttanate, senti che bella questa canzone nuova di Alexia,
cavolo non vedo l'ora di vedere il Festivalbar stasera! Ma shhhh…
sta arrivando il capo.
(da Chicken breast,
cap. 6)
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Il cuore della colomba
di Paolo Galloni
(vedi anche Donal
d'Irlanda)
Chat Room
Per me Folìa è il luogo dove le cose diverse possono
stare insieme, dove diversi modi di pensare possono diventare intercambiabili
C'è davvero tanta capacità di accoglienza?
Sì. Il prezzo da pagare è un certo isolamento dalla città.
Se tu sei il tipo di persona che si stanca di vedere sempre la stessa
gente ti potrebbe venire voglia di scappare. Cosa che nessuno ti impedirà
di fare. Come nessuno ti impedirà di tornare
Cioè, una ci può venire in vacanza e poi riavvicinarsi
alla città
A patto che non ci scambi per un centro New Age. Avrebbe sbagliato posto.
Qui si va ad amicizia non a pagamento.
E funziona?
Probabilmente funziona perché siamo pochi. Per gli altri siamo
come i sogni che a volte disturbano a volte fanno piacere, ma in tutti
i casi sono irrealizzabili
Sai, io mi rendo conto che i rapporti umani sono aridi, è come
se avessi una seconda pelle, una pelle interna che sta seccando, ma
non sono in grado di cambiare le cose; né io né tanti
ragazzi che conosco
Folìa è nata per reagire al consumismo dei sentimenti,
dell'usa e getta applicato ai rapporti umani. Anche la nostra
chat con il love-chip serve a raccogliere emozioni facendo a meno dei
legami e della stessa presenza dei corpi. C'è troppa paura
mascherata. Sono la solidarietà e la complicità delle
persone in carne e ossa che proteggono dalla paura. Dall'insicurezza,
dal panico del fallimento, dall'incapacità di scegliere,
dalla noia, dai consulenti e dagli esperti non ci salva lo shopping,
non ci salva il consumo di beni e relazioni. Ci salva l'amicizia
E almeno un poco di tenerezza no? Io vorrei tenerezza, non dimostrazioni
di forza. Tenerezza sobria. L'amicizia non so, tutti pensano solo
a chiedere qualcosa in cambio
Il mio amico Marco, l'archeologo delle parole, insiste sul fatto
che se amicizia e amore cominciano per “am” non è
per un caso, è perché nascono dalla stessa radice
Com'è questo Marco, pensi che potrebbe piacermi?
Adesso vuoi ingelosirmi, se non sapessi che stai scherzando…
Cosa mi faresti?
A te niente, al massimo una sculacciata, ma a Marco gliela farei vedere
Scusa, dimenticavo che sei il Persuasore, non volevo mettere in dubbio
Ecco, brava
Un limite della chat è che non puoi sapere se civetto con qualcun'altro
Be my lover, Emma, stop chat now stop frivolezza, metti il vestito da
sera, il profumo migliore, chiudi gli occhi e immagina il mondo come
finalmente vorresti che fosse
(da Il cuore della
colmba, pp. 65-66)
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Sogni d'emergenza
di Michele
Ruele (vedi anche Storie
di frate Amodeo)
Una quasi-città di provincia come Sanguineto, addossata
alla montagna, sedotta dall'illusione di apertura degli orizzonti
nella valle in cui l'ha cresciuta un invasore dopo l'altro,
dal quale uno dopo l'altro ha creduto di essere indipendente,
è come un prigioniero che non sa darsi pace nella gabbia, eppure
continua a convincersi di essere migliore di quelli che gli girano intorno
guardandolo con meraviglia. Altri, peraltro, che non sono meno prigionieri
di lui.
È un luogo feroce, geloso, vendicativo come sanno esserlo le
quasi-città, come ce ne sono molte, e la provincia. Chi le ha
abbandonate paga in diversi modi il suo tradimento. Chi ci è
rimasto, presume di abitare l'ombelico dell'universo.
Se ne legge l'autoritratto nelle pagine quotidiane dei giornali
locali. La stanca celebrazione di una piccola popolazione che contempla
e appaga sé stessa. Una serie di piccoli notabili che non perdono
occasione di mettersi in mostra. Una scena rissosa.
I giornali di provincia. Normalmente, ai giornali si rivolgono le varie
forze dell'ordine, i politici e i mitomani, con poche eccezioni.
La percezione del mondo elaborata da chi ci lavora può essere
molto allontanata dalla vera realtà delle cose: chi descrive
la cronaca quotidiana di alcune decine di migliaia di quasi-cittadini
di provincia ha a che fare con criminali di piccolo cabotaggio, presidenti
di associazioni sportive, gestori di ristoranti, promotori di petizioni
sul traffico o sulla valorizzazione delle tradizioni locali (solitamente
le più false o fantasiose; le altre resistono da sé, senza
bisogno di sostegni pubblici, oppure con naturalezza scompaiono), vari
tipi di scontenti cronici, industriali ricchi e invadenti, un petulante
sottobosco di piccoli attivisti della politica, assessori prepotenti
dal pesante accento paesano. Non è una bella realtà quella
che filtra nelle redazioni di provincia, sulle scrivanie stanche di
redattori annoiati, moderatamente e nervosamente assillati dal dover
riempire tre pagine ogni giorno e dal timore di “bucare”
le notizie a favore del giornale locale avversario.
La quasi-città sopravvive, si accontenta di essere viva, non
avendo nessun altro scopo, così, se non morire. Eppure è
dotata di una bellezza struggente, che esce dai profondi scantinati
delle vecchie case del centro, dai cortili nascosti dietro ai portoni
serrati, scivola sulle vecchie piazze, inonda le poche facciate delle
case sopravvissute alle costruzioni e ristrutturazioni e al naturale
pasto del tempo.
Per nulla moderna, la quasi-città non sa fare i conti con il
suo passato.
Per me, è un luogo dove tornare – io che non sono capace
di fuggire. È l'Itaca che non so lasciare.
Due giornalisti annoiati dalla routine, per sottrarvisi, fecero una
serie di servizi sulla vita notturna di Sanguineto. Intervistarono tassisti,
guardie giurate e autisti di corriere di linea in servizio alle cinque
di mattina. Conclusero che nemmeno di notte succedeva niente a Sanguineto.
Questo, la notte che una prostituta ammazzò il suo pappone con
un coltello e altri due uomini ubriachi in un locale abbandonato. I
tre morti rimasero a putrefare tre mesi prima che li ritrovassero.
Avevo pensato, per qualche tempo, che esistesse chi avesse voglia di
partecipare a una sorta di grande seduta di autoanalisi della quasi-città,
così mi ero inventato il ruolo di una sorta di testimone dell'identità
di Sanguineto, con i miei pezzi in cronaca. Anche con la cronaca nera,
per nulla infrequente e comunque estremamente valorizzata dai giornali
locali. Ma una quasi-città non è capace di autodefinirsi,
né di capirsi. Forse non c'è niente da capire.
A ogni modo, i pochi che avrebbero qualche parola decente da proporre
tacciono o si rifugiano nell'ombra, nella quasi-città,
dove dominano le parole mal pronunciate.
Via via sempre più deluso, mi sono rifugiato nelle cronache sportive,
nei miei articoli impossibili, nei colloqui con i pochi buoni che sopravvivono
all'oblio.
Ho creduto di rifugiarmi in questa zona di confine, ho pensato che fosse
un atto volontario, ma poi ho constatato, con orrore e lucida consapevolezza,
di essere stato spinto gradualmente ai margini del mondo delle parole
e della stanca vita quasi-cittadina da una serie di forze potenti e
invisibili: opportunismo, avidità, cinismo e moderazione esibita
e perfino esasperata, oppure, nel migliore dei casi, una smisurata considerazione
di sé e un enorme senso del reale sono le componenti richieste,
in vari gradi e sfumature, per rimanere al centro delle quasi-città,
che respingono ai margini chi non si adegua, pur, a volte, celebrando
le vittime designate con le più ampie attestazioni pubbliche
di stima e rispetto.
(da Sogni
d'emergenza, cap. 8)
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Fuori dalla metafora
del volo
di Fabio Cavallari e Ottavio
Brigandì
Fante: … se dovessi esemplificare la mia idea di
bellezza penserei, stavolta, non al lavoro umano né all'arte,
ma alla tonda perfezione di una mela.
Tuono: Una mela?
Fante: Sì. La bellezza è incontro col frutto prima ancora
di addentarlo, avvertimento distante di un forte profumo che tende l'attesa,
ammirazione per una gratuita, naturale perfezione. Grande pienezza nascerebbe
dal materiale nutrimento, il desiderio è già tutto proteso
a questo… ma se il senso di bellezza si insinua e sospende, la
porta è socchiusa perché si introduca quella furba e sincera
gratitudine che non consuma, si ferma e contemplando gode. Si ribalta
la dinamica dell'aforisma di Wilde: l'unico modo di cedere
ad una tentazione è resistergli. Una bellezza commossa genera
infatti rispetto, come quando, di fronte ai segni concreti del volto
dell'amata, subentra quell'effimero giudizio di riconoscenza che
precede, conduce ed innerva la passione. Nella bellezza vi è
un consumo dell'ideale che, al contrario di ogni brama, non esaurisce
né corrompe l'oggetto a sua volta. Abita ovunque, basta
cercarla; pur partendo dalle forme, è una dimensione prettamente
mentale.
Tuono: Infatti il petrolchimico di prima per Lei era bello.
Fante: Sì, ma non in una pia illusione, bensì sulla base
di quanto oggettivamente suscitato. L'assurdo di un mostro che può
piacere non è altro che una delle reazioni ragionevoli al tipo
di bellezza vigente. Forse la nostra società ci aliena perché
da un lato fornisce bellezze tanto immediate e abbacinanti che non consentono
di ritornare su di loro, dall'altro perché non insegna a fronteggiare
la bruttezza che partorisce; si sorvola, come noi con questo aereo.
La bellezza vera rilancia invece un problema di conoscenza, di metodo:
come attingervi alla fonte? In che direzione guardare? Come reinventarla?
Tuono: A partire da un petrolchimico o da una mela!
Fante: È possibile. Certo, con una mela mi pare meglio.
Tuono: Una mela! Riecco il prorompente velo romantico dell'uomo
dall'animo puro. Con tutta sincerità, dopo questa risposta,
non posso accusarla di essere né conformista, né tanto
meno il suo opposto. L'uno avrebbe risposto magnificando “le
sinuose e prorompenti forme dell'ultima modella immortalata nel
nuovo calendario”, o tutt'al più esaltato “la
statuaria arditezza del Michelangelo”, mentre l'altro avrebbe
potuto stupirci elogiando le “perfette simmetrie di una casa popolare
della periferia milanese” oppure le “graziose movenze di
una nutria nell'Arno”.
Fante: Cos'è una nutria?
Tuono: Un topo di fogna […].
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Tirumala
di Marco Taffi
(il diario completo in www.taffi.it/people/india)
Per me resterà una città di cartongesso.
Tirumala è costruita su una rigogliosa collinetta verde, immersa
fra le siepi ed il profumo dei mille fiori disposti sulle vie di accesso.
Si entra o si esce da Tirumala a mezzo di un trenino diretto da Tirupati,
oppure in autobus, attraverso venti chilometri di tornanti a due corsie,
asfaltati di fresco e con i cordoli rosso e bianco. Di tanto in tanto,
arrivando, una struttura a ponte saluta in caratteri indiani: "benvenuti
a Tirumala", e ogni cinquanta metri un cartello avverte: "Luogo
Santo, non consumare alcolici e droghe, non urinare o defecare in pubblico",
questa volta anche in inglese. Ogni cento metri sulla salita è
disposto un serbatoio per l'acqua per quei radiatori in difficoltà,
e all'ingresso della strada per Tirumala c'è il primo posto di
blocco. Alla fine, c'è un secondo checking point e una seconda
formale ispezione da parte dei soldati indiani.
Qui tutto è Santo, il traffico funziona, la criminalità
non c'è, punti d'informazione, poliziotti e vigili sono ad ogni
angolo. Ci sono i cartelli che spiegano cosa fare, e sono troppi.
E a Tirumala oggi ci sono un centinaio di migliaia di persone, arrivano
da tutta l'India coloro che possono permetterselo, ma anche quelli che
sacrificano volentieri qualche piatto di riso pur di poter arrivare.
Viaggiano sui treni, sugli autobus, qualche fortunato sull'auto personale.
Vengono per: "Vedere il Dio Venkateswara; è meraviglioso
trovarsi improvvisamente di fronte alla verità suprema",
mi dice il segretario degli scout che sono in centinaia impegnati come
volontari nell'enorme apparato dell'ordine e del coordinamento. Laura,
la mia amica missionaria vicentina di stanza a Tirupati: "Non puoi
non sentire l'energia di quel posto: ci devi andare". Seguono il
suo consiglio quarantacinquemila persone in media ogni giorno.
Nella vicina Tirupati, in stanze tre per due di topaie-alloggio, perché
gli alberghi veri sono tutti pieni, si fermano per un paio di notti
le famiglie di pellegrini in transito e diretti al Tempio. I più
fortunati affittano un posto letto, o una stanza, o un grazioso bungalow,
direttamente a Tirumala; i più poveri prendono a prestito un
lucchetto, una cassetta di sicurezza ed un paio di metri quadri di dormitorio-palestra
o di porticato.
Accomuna molti fedeli la testa rapata: "chi deve chiedere qualcosa
al Dio Venkateswara offre la sua capigliatura in sacrificio", mi
spiegano. E a quanto pare la offrono in sacrificio anche i bambini ed
i poppanti. A rendere riconoscibili le diverse classi sociali, o caste
di appartenenza, dei fedeli, ci pensano i diversi ammontare di coda
d'attesa che vengono loro assegnati. Ci sono code per tutto: per il
lucchetto o per la casa; per gli autobus (che pure a Tirumala sono gratuiti)
e per i depositi ciabatte, per bruciare le offerte sui Fuochi Sacri,
ma soprattutto per entrare nel tempio al cospetto del Dio Venkateswara.
Paratoie si aprono e si chiudono, e deviano code e fiumane di gente
rapata da una all'altra parte di Tirupati. Cartelli indicano sempre
il da farsi. Sportelli chiedono soldi e rilasciano permessi: più
si paga, e più è lecito scavalcare parti di coda. I poveracci
(quelli che all'alba si sono svegliati sotto alla tettoia), ora si intasano
all'ingresso dell'edificio "delle code". Dalle cui finestre
e dalle cui porte di sicurezza, per sicurezza sprangate, si intravede
solo una cosa: code. Code parallele e code che si congiungono e che
non si capisce mai da quale altro ingresso arrivino, sempre e solo:
code.
"Certo, ma oggi questa gente potrà godere oggi della visione
del Dio Venkateswara, come confrontare tempo e rupie con un'esperienza
senza prezzo?", mi spiega il segretario scout. Approposito, per
saltare tutte le code basta essere scout ed aver richiesto una tessera
da volontario giù a Tirupati (cosa che a me manca). Ma questa
faccenda delle code, dei cartelli, sommata alla presenza dei cestini,
che per la prima volta in India ci sono, ma a forma di pinguino o di
coniglio, è conferma per me, per nulla permeabile all'energia
divina di questo posto, di essere finito per la verità in un
formidabile parco giochi. "Questo tempio ha quattrocento anni",
mi dicono, ma le costruzioni intorno devono averle costruite dopo.
Centri commerciali, negozi, alberghi, ancora negozi, dove Dio Venkateswara
è in vendita circondato da diodi led luminosi, o dove cappellini
finto-Nike sono a disposizione dei fedeli rapati meno orgogliosi della
loro offerta cutanea agli dei.
A testimoniare però la tradizione millenaria del Tempio, e dell'induismo
tutto, fa testo l'enorme fede di queste persone. Un indiano prega e
percorre a mani giunte e senza posa i venti metri di perimetro attorno
ad un obelisco; un altro, costernato di fronte ad un tempio secondario,
medita roteando senza posa su sé stesso. Ai Fuochi Santi i fedeli
sfiorano prima le fiamme e poi la fronte ed il cuore, con le mani. Poi
spezzano noci di cocco sulle pietre e le depongono nei bracieri Santi.
Io vengo additato perché nella foga di una foto mi avvicino al
Fuoco con i sandali ai piedi, e mi affretto a rimediare; ad ogni modo
la mia fotocamera fuori dal Tempio è bene accetta, anzi richiesta
da tutte le parti.
Un bambino fa la pipì in un tombino; è l'unica trasgressione
che trovo a Tirumala, ma sicuramente è pipì Santa; ed
è l'ultima immagine che mi rimane prima di avviarmi ad intraprendere
anch'io, unico bianco fra i neri, unico osservatore straniero e giornalista
presente, la lenta ascesa che mi porterà finalmente a conoscere
il Dio Venkateswara.
"Il secondo più grande luogo di pellegrinaggio al mondo
dopo Roma; il terzo contando la Mecca, ma quella non la contiamo perché
i musulmani non fanno mai niente di buono", dice il segretario
degli scout.
Coda. Gioco tutti i jolly di cui sono capace. Cento rupie, uno scout
come guida, e soprattutto la pelle bianca, mi aprono la "coda Vip":
tre ore. Prima, alcuni soldati mi perquisiscono: "No camera",
dicono. Ma la mia ora è al sicuro sotto chiave. Poi, si entra
a piedi nudi e, ovvio, pantaloni lunghi.
Un altro controllo. Cercametalli per me, detector da aeroporto per la
mia borsa con i biscotti e l'acqua (indispensabile qui a 40 gradi centigradi
all'ombra). Poi ancora coda. Un'altra coda è parallela, siamo
nella gabbia che circonda il muro esterno del Tempio; altre code si
introducono dai lati, qualche parola vola al vento per chi non le rispetta.
Ci sono piccole risse e bambini che piangono, altoparlanti con musiche
sacre ed un punto d'acqua con a disposizione volontari ed alcuni bicchieri.
Sotto una passerella un bambino ci ricorda di essere ancora in India,
tiene il barattolo delle elemosine con la bocca perché gli mancano
entrambe le braccia.
Poi, cortile interno, coda. Il mio lupetto guida è arzillo, e
stanco di aspettare, il suo pass e qualche parola in lingua telegu aprono
passaggi segreti e lucchetti. Sto per avvicinarmi al Dio Venkateswara,
mi riprometto di salutarlo (sono cristiano) con un segno di croce. Odore
di incensi. Ultimo tratto di coda: come fosse aumentata la pressione,
la coda è più veloce, volontari ci spingono ai lati per
non lasciar creare pericolose ostruzioni fra la folla, siamo come acqua
in un tubo sottile, entriamo dentro al tempio, le grosse pareti sono
scure, buie, un ventilatore è al soffitto nella stanza di dieci
metri quadri, passiamo una grossa campana alla sinistra, la gente mormora,
urla, predica: "Ooondaaa", "Ooondaaaa", "Oooondaaaaa",
tutti spingono per vedere il Dio Venkateswara, in fila indiana passiamo
un grosso portone, "Oooondaaaaa", due metri e siamo al Suo
cospetto, un secondo, un segno di croce, due secondi, ci spingono, subito
sono catapultato fuori dalla folla lungo la coda che porta lenta all'uscita,
fra fedeli in estasi per la visione, fra sguardi che mi incrociano e
che mi interrogano, nell'abbaglio della luce nuovamente ritrovata nel
cortile interno e dei riflessi dorati delle gabbie e delle colonne che
mi circondano, e subito ci sono quattro vetrine con dentro venti persone
che siedono e contano soldi. Stirano banconote, le contano e le ripongono,
le ricontano. Ma subito via, attraverso un'altra coda, e questa volta
c'è odore di miscuglio di riso e brodaglia e mi fa nausea, ci
danno un piattino in foglia di banano, con del riso, forse per farsi
perdonare per la delusione provata. Poi all'uscita finale il biglietto
d'ingresso si rivela anche convertibile in dolcetto.
Quello che mi ricordo della visione del Dio Venkateswara: ad almeno
sei metri, oltre ad un altro spesso cancello intarsiato, al termine
di un buio corridoio che si andava stringendo, c'era una scura immagine
del Dio Venkateswara dalla pelle nera, con il grosso dindu rosso incastonato
fra gli occhi e che ne è simbolo, e circondato da una luce rossastra
e dai riflessi di qualcos'altro indefinito.
Quello che ho scoperto poi a proposito della conta dei soldi: sono gli
interessi che il Dio Venkateswara paga al Dio Kubera, per il denaro
e l'oro che questi aveva prestato al Dio Srinivasa per permettergli
di celebrare il suo matrimonio con la Dea Padmavati.
Intanto nei templi secondari e nel tempio di Tirupati un bramino strappa
con una mano i biglietti speciali che alcuni fedeli gli porgono, e che
sono costati 20 rupie, e con l'altra compie riti per la richiesta agli
dei di grazie particolari, agitando al ritmo delle proprie cantate:
fuoco, fiori ed acqua.
Quello che ho imparato io: che non si viene fulminati dagli dei Hindù
per un segno di croce in loro presenza, che non mi convertirò
all'induismo, che ogni popolo ha una propria rappresentazione del divino,
assolutamente reale, importante, e limitatamente umana, come risposta
alla necessità di definire un ultraterreno ed un significato
per le cose. "Un grande spreco di tempo e di risorse; la potenza
di questo posto Santo è diventata lucro e vanto per le istituzioni,
ma io che ci posso fare se non subire?", mi dice un ragazzo di
sedici anni, appena tornato nella sua camera dell'albergo topaia.
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da L'HOTEL
MADHIA BEACH
di Adeodato
Piazza Nicolai
Tramonto
Alle mie spalle
il graffio del mare.
Di fronte un sole
stanco tramonta.
Avanti e indietro
per più di mezz'ora
la nuotatrice nella
piscina non si sofferma
ma sfiora la superficie
turchese metodicamente.
Sembra il non/tempo
senza confine o misura.
S'incrociano qui due
culture: greco/romana
e mussulmana.
Il mare funge da ponte.
Mozart e il Mediterraneo
Una ragazza filo-tedesca
tuffa lo sguardo sull'onda
insabbiata dai ritmi di Mozart.
Spalanca le braccia, sembra
preghiera d'amore
e d'abbandono: capelli biondi
profferti al ponentino.
Un bimbo le sfiora una mano.
Estasiata, lei si allontana.
Uniti entrano il mare...
(05/06/03 / 9:35 sulla spiaggia di Mahdia)
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Versi
di Claudia Pretto
Cecità
Ferisce
Lo sguardo
Di chi
Non sa vederti,
si ferma li', sulla porta
e tu…
tu sei per quello sguardo
solo pelle, ossa
solo un corpo
materia, cosa.
In chiaroscuro
Qui scende leggiadra la neve…
Laggiù cadono fitte le bombe…
Qui candido silenzio di poesia,
Laggiù rosso pianto di dolore: Antinomie dell'umana giustizia!?!…
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Concorso IIIM
2003
Art. 1 Fara Editore indice la III edizione del concorso
IIIM (Terzo Millennio) al fine di stimolare una produzione letteraria
di qualità e dotata del pregio della "brevitas".
Art. 2 Le opere dovranno essere inviate entro il 5 luglio 2003 preferibilmente
al nostro indirizzo elettronico fara@kaleidon.it o al nostro fax 0541-377660
in un'unica copia con la dichiarazione di paternità e breve CV
(v. punto 5.). Per info:
Fara Editore via dei Martiri 5
47900 Rimini (RN)
tel. 0541-377660.
Art. 3 Sono previste due sezioni:
a. Un racconto breve (massimo due cartelle per un totale di 3.600 battute)
a tema libero;
b. Una poesia di massimo 30 versi a tema libero.
Art. 4 È richiesto l'acquisto (con lo sconto del 30% più
1 euro di contributo spese) di due nostri libri a scelta del partecipante.
I libri dovranno essere ordinati direttamente all'editore.
Art. 5 È possibile partecipare a entrambe le sezioni ma con una
sola opera (una poesia e/o un racconto). L'autore dovrà dichiarare
che l'elaborato è inedito e di sua paternità e allegare
un breve curriculum vitae con indirizzo e recapito telefonico e di posta
elettronica. Le opere non saranno restituite.
Art. 6 Per le tre opere considerate più meritevoli a prescindere
dalla categoria racconto o poesia, sono previsti i seguenti premi:
- Primo premio 15 titoli Fara scelti dall'editore.
- Secondo premio 10 titoli Fara scelti dall'editore.
- Terzo premio 5 titoli Fara scelti dall'editore.
Art. 7 Il giudizio verrà operato insidacabilmente da Fara Editore
ed eventualmente da intellettuali e scrittori di sua fiducia. I risultati
verranno comunicati via posta elettronica a tutti i partecipanti (inutile
contattare quindi l'editore prima della data indicata nell'Art. 8 qui
sotto). Qualora si ritenesse non soddisfacente il livello delle opere
pervenute, i premi potranno non essere assegnati.
Art. 8 Le opere vincitrici ed eventualmente altre ritenute meritevoli
verranno pubblicate senza alcun obbligo di remunerazione dei diritti
d'autore nel nostro bollettino elettronico Faranews. I risultati
verranno resi noti entro il 5 agosto 2003.
Art. 9 La partecipazione al concorso IIIM di Fara Editore implica di
fatto l'accettazione di tutte le norme indicate nel presente bando.
Art. 10 Ai sensi della legge 96/675 i partecipanti al concorso consentono
a Fara Editore il trattamento dei dati personali ai fini della gestione
del premio e per comunicazioni editoriali. Resta inteso che potranno
in ogni momento richiedere di essere cancellati dalla nostra banca dati.
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L'Avocetta
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