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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 67
Luglio 2005
Editoriale:
Risvolti vitali
A dodici anni dalla nascita, Fara esce con una antologia
poetica in qualche modo atipica: 21 poeti di età e poetiche diverse
si presentano nella Coda della galassia il cui filo
conduttore e forse quello di presentare versi che affrontano la vita,
la realtà, insomma recuperano in po' l'etimologia della parola
poesia come un fare non meramente solipsistico o un superficiale gioco
linguistico, ma come un fare capace di cambiarci. In questo numero trovate
opere dai risvolti vitali particolarmente evidenti (in quanto ci pongono
in modo diretto nella verità delle cose): Dino
di Drazan Gunjaca, Alcune poesie di Piergiorgio Viti,
Con applicatore di Flavia Piccinni, Infinito
spessore dei segni di Ardea Montebelli, QQ quasi quotidiana
di Carmelo Calabrò. Vi ricordiamo, sempre per restare in argomento,
che sono appena usciti i romanzi Pinocchio
non abita più qui e Il
Primo Pensiero, il romanzo breve L'isola
continentale, il Poema
dell'esilio con versione albanese a fronte e la silloge Seni
di cristalli. Per l'estate avete solo l'imbarazzo della scelta!
Buona lettura.
La
coda della galassia
a cura di Alessandro
Ramberti
Questo libro è un’avventura a cui hanno partecipato
21 autori (cliccando sui nomi saprete qualcosa di loro):
Luca
Ariano
Roberta Bertozzi
Monica
Borettini
Andrea
Campanozzi
Caterina
Camporesi
Chiara De Luca
Pietro
Federico
Raffaele Ferrario
Gianmaria Giannetti
Gëzim Hajdari
Sergio
La Chiusa
Gianfranco Lauretano
Nicola
Molon
Alessandro
Nannini
Luca
Nannipieri
Davide Nota
Adeodato Piazza
Nicolai
Domenico
Settevendemie
Christian
Sinicco
Giovanni Tuzet
Teresa Zuccaro
il progetto covava da tempo, ma ha ricevuto uno stimolo
dalla lettura di un libro bello e intelligente curato da Gian Ruggero
Manzoni: Oltre il
tempo. Undici poeti per una metavanguardia (Diabasis 2004). Davide
Rondoni, Martino Baldi
sono poi intellettuali impegnati su più fronti che mi sono stati
vicini con la loro amicizia e competenza.
La scelta degli autori è comunque imputabile unicamente al curatore:
diversi gli stili e le poetiche, diverse le età e le visioni
del mondo. Alcuni poeti li conoscevo da tempo; altri sono conoscenze
“virtuali”, recenti, occasionali; altri mi sono stati consigliati.
Difficile dunque trovare un fil rouge, se non un soggettivo gusto personale:
credo però che tutti loro intendano la poesia non come un gioco
di citazioni, di mera bravura letteraria, di sfogo per le personali
frustrazioni, ma come un dare voce all’oltre, un dare suono al
senso, un interpretare (anche con una valenza profetica) la realtà
del mondo e delle relazioni umane all’inizio del terzo millennio.
Il titolo dell’Antologia si ispira a questi versi del curatore:
Sulla coda della galassia
Con grandi percussioni il cosmo cambia
i buchi sono fori tautologici
vi cade e vi sparisce l’energia
non ne sappiamo nulla
se nuova forma o vacuo
universale vi si addentra –
guardami le gengive, i denti
fanno luogo a ponti –
accoglimi con i miei vuoti
meno pericolosi degli spigoli
sommersi: non navighiamo a vista?
Mònitora il radar con lentezza
quando sei fragile e chiudi il cuore
i banchi toccheranno il pelo
dell’acqua e forse si incaglierà
la prua della ragione.
Resta con me al timone
e la spirale di questa piccola
galassia saprà soffrire
assieme ai suoi pianeti
che hanno raggruppato nella volta
le figure di una sapienza antica:
sono i progetti che fanno un po’ terrestre
il nostro cielo, più cosmico il margine
di spazio terra-terra.
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Dino
di Drazan
Gunjaca
Non ho scritto nulla da mesi. A dire la verità,
non ricordo l’ultima volta che mi sono messo a scrivere. Dapprima
scrivevo per riflettere sulla realtà in cui vivo, più
tardi, è stata la stessa realtà a riflettersi su quello
che scrivevo, il che raramente può finire bene. Purtroppo, non
sono stato un’eccezione a questa regola mai scritta, anche se
ho cercato di esserlo… Come ho detto in uno dei miei libri, le
eccezioni confermano la regola, ma per quando agguanto lo status di
eccezione, mi avranno già distrutto.
Comunque, questa non è la mia storia. Non è neanche un
racconto. È… non ho la più pallida idea di cosa
sia. So soltanto che stamattina non ho bevuto il solito caffè,
senza il quale non connetto, non funziono. Non funziono nemmeno ora.
Dunque, mentre ero seduto a un tavolo sulla terrazza del solito bar,
aspettando con ansia il mio primo caffè, ho assistito a una scena
di fronte al bar superata soltanto dal destino stesso.
Conosco Dino da parecchio tempo. Dino è parte dell’inventario
di questo bar e dei negozietti circostanti. Tanto che nessuno lo nota
più. Gira sempre intorno a noi, qualche volta gli paghiamo da
bere, scambiamo qualche frase senza senso… Nessuno sa precisamente
quanti anni ha. Probabilmente venticinque o ventisei. Dino è
cerebroleso. Dalla nascita. Una forma “leggera”. Di quelle
che non ti costringono su una sedia a rotelle. Dino sorride sempre,
anche se nessuno sa perché. Ma poi, già che abbiamo perso
l’ottimismo, è bello vedere una faccia sorridente, anche
se non sappiamo cos’è che lo mette di quest’umore
poco comune. Dino è… Dino.
Come ogni mattina, Dino era qui anche questa volta. Accanto a noi. Quasi.
Stava seduto una decina di metri più in là, accanto all’edicola,
sullo sporco ripiano di cemento, e piangeva. Piano, sotto voce, con
un’espressione strana… un dolore che nessuno capisce. Nessuno
sapeva perché stesse piangendo. Ho aspettato che smettesse, che
mi sorrida, per poter finalmente bere quel caffè che era sul
tavolo da un bel po’… Inutile. Dino continuava a piangere.
Poi ad un tratto, unì le mani come se stesse pregando…
Il primo sorso del caffè ormai freddo mi andò di traverso.
Mi alzai. Tra una decina di minuti avevo un’udienza in tribunale.
Fratello e sorella, ambedue anzianotti, querelano per 4 metri quadrati
di cortile… gran cortile. Una di quelle cause assurde che ti fanno
arrivare alla pensione. Appena finita l’udienza, tornai allo stesso
bar. Non lo so perché. Dino non c’era più. Nessuno
sapeva dove fosse andato. Alla mia domanda tutti scuotevano la testa
disinteressati.
Senza prendere niente al bar mi incamminai verso l’associazione
cittadina dei cerebrolesi gestita da un mio amico. Dovevo raccontare
tutto questo a qualcuno. Mi squadrò con compassione, e il sorriso
mi ricordò qualcuno…
Dino ha soltanto vent’anni e nessun amico. Dino vuole bene a tutto
intorno a lui, ma… Dino vuole bene persino a una ragazza accanto
alla cui bancarella passa ogni giorno, ma lei non nota nemmeno la sua
esistenza. Dino non vivrà mai i primi baci, quella passione sconosciuta
che sale dal profondo dello stomaco e colpisce dritto in testa…
Non avrà mai la patente di guida per guidare una di quelle automobili
veloci che guarda sfrecciare accanto a quel ripiano di cemento…
Non avrà mai… Dino ha tentato di suicidarsi già
un paio di volte.
Giro in macchina per le strade della città, senza meta, ascoltando
il notiziario alla radio. Lo speaker parla con voce da automa della
volontaria italiana rapita in Afghanistan… L’hanno rapita
per far liberare gli amici dalle prigioni locali, amici criminali. Già,
i criminali non hanno problemi con gli amici. Lo speaker parla della
possibilità che la volontaria sia stata uccisa… Perché
faceva del bene. Spero tanto che sia ancora viva. Almeno questo. Se
no, dovremmo togliere tutte le targhe con i nomi delle vie che onorano
i vari capi militari conosciuti o meno, e rimpiazzarli col nome della
volontaria rapita. E di altri come lei. Per far sì che queste
targhette insignificanti che in genere ignoriamo, ci ricordino almeno
qualche volta che siamo solamente esseri umani e che un giorno potremmo
aver bisogno di quelle persone che sanno quanti anni ha Dino e…
Mio Dio, in che razza di mondo viviamo. E quanto è colpa nostra
se è ridotto così.
www.drazangunjaca.net
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Alcune
poesie
di Piegiorgio
Viti
Congedo
Sul pavimento, orme scontornate
–
quale virtù serviva?
Il cielo, robusta assenza
bagliore
che resta appeso
trattenuto, come dalla bocca:
l’ammalarsi del tuo nome.
***
La realtà è la baracca di tutti gli orefici
il tuo specchio un ovale
che non mi riflette
l’amore, mio capoluogo difficile.
***
Estate
l’edera smangia l’ arenaria
fissa azzurrità
una luce di anni
anni luce nelle cortecce
e una suora alla soglia
(nella sua tunica nera
riconosco l’infanzia)
parola che risveglia.
***
Vivendo di fede:
il paesaggio, altri profili,
vicino che aspira al lontano,
glabra ustione.
***
i pini screpolano la riviera
l’orizzonte taglia e cuce le biciclette
fa freddo, è mezzogiorno:
non lasciare il mio cuore
incustodito.
Piergiorgio Viti è
nato nel 1978 a Sulmona. Vive a Monte Urano (AP). È presente
in antologie, riviste specializzate, siti internet.
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Con
applicatore
di Flavia
Piccinni
“La fortuna si accanisce sempre sui più deboli”
mi dice Mario.
“Eh?” rispondo, istintivamente come se non ci fosse altro
da dire. Come se proprio quel “Eh?” scandalizzato e arrabbiato
fosse l’unica risposta valida: l’unica accettabile.
Mario adesso sta zitto e si tocca gli occhiali grandi e con le lenti
riflettenti. Hanno un bel graffio sulla lente sinistra, ma lui probabilmente
non se ne è ancora accorto. O, semplicemente, non gli interessa.
Fa freddo oggi, anche se è aprile. Fa freddo non come a dicembre
quando ti vuoi infilare una giacca e poi un maglione e poi seppellirti
sotto il piumone accanto alla stufa. Fa un freddo condito d’imbarazzo.
Come quando sei in chiesa e tutti piangono, per il funerale, e recitano
in coro il Padre Nostro mentre tu te ne stai zitta e preghi solo che
nessuno si accorga che tu non credi e che la Messa finisca presto. Fa
freddo con il sole e con un vento che ti trascina i capelli e tu che
parole non ne hai, anche se servirebbero. Eccome se servirebbero. Perché
le parole non ti vengono mai nei momenti in cui sono necessarie e inizi
a parlare a vanvera solo quando dovresti chiudere la bocca e far parlare
gli altri. Ascoltare, insomma.
Fatto sta che oggi fa freddo. Che accanto a me sta Mario. Che Mario
ha due occhialoni graffiati e che dice “la fortuna si accanisce
sempre sui più deboli” mentre il vento mi stravolge i capelli
e quelli dietro di me, lei tacchi a spillo e trucco da Moira Orfei,
lui giacca di velluto e capelli ingelatinati come una sanguisuga, bisbigliano.
Non capisco cosa si dicano. Ma c’è lui che le tiene una
mano sulla schiena e lei che, a tratti, appoggia la sua testa sulla
spalla di lui. Poi c’è sempre lei che gli dice qualcosa
all’orecchio. Lui che annuisce. Poi, ancora: il silenzio.
Quel silenzio che vorresti quando sei sul mare a guardare le onde. Il
silenzio di persone che pensano e che ringraziano che non sia toccato
a loro. Che ringraziano di essere solo spettatori, seduti, in piedi.
Spettatori paganti. Spettatori che osservano con attenzione il tuo dolore:
non è toccato a me – pensano mentre chiudono gli occhi.
Mentre abbassano lo sguardo. Mentre sanno che domani tutto sarà
passato. Per me, almeno, lo sarà.
“E’ uno spettacolo indecente” mi continua a dire Mario,
come se oggi di cazzate ne avesse dette poche. Dice qualche altra idiozia,
masticando nervosamente le parole. Poi basta. Si tira su gli occhiali,
come a fermare quei brutti capelli crespi che si ritrova, e guarda quelli
che chiudono la tomba. In silenzio, anche loro.
La tomba è una di quelle a muro che costano poco. E’ un
piccolo buco in un muro alto più o meno quattro metri. Un buco
centrale, circondato da altri due loculi già pieni dove le lettere
scure con la pioggia hanno lasciato un segno verde che è colato
giù. Stanno scritti i nomi, le date di nascita, di morte. Ad
una in bella mostra c’è una fotografia: una vecchia con
gli occhiali grossi e il sorriso a mezza bocca. Non è bella,
la vecchia, ma come dice Zia Marcella non si può parlare male
dei morti. Anche se sono i peggiori esseri dell’Universo, secondo
lei, una volta morti, meritano il Paradiso. Io al Paradiso non ci credo
così finisce che parlo lo stesso male di suo marito, l’abusivo,
perché prima di lei aveva sposato una bella negra del Camerun
che dopo un paio di mesi lo aveva lasciato per il figlio del concessionario
che vende le auto Fiat usate sulla tangenziale. Controllo sempre che
lei non mi stia a sentire, la farei soffrire a vuoto e poi non la sopporto
quando mi dice che devo portare rispetto ai morti.
Un muratore tossisce e dice all’altro qualcosa. I due stanno infagottati
in gilè arancioni, come quelli che portano gli spazzini dell’Amit.
Stanno lì non curanti degli sguardi di tutti: noi, poveri scemi,
che vediamo mettere davanti ad una bara mattoni e cemento. Cemento e
mattoni. Con la figlia e la moglie che guardano la scala appoggiata
al muro e quei due avvolti in gilè fosforescenti che, come fosse
nulla, gli portano via, per sempre, il compagno. Mario adesso sta zitto.
E anche io non ho di che parlare. Sento freddo anche se il sole mi batte
in faccia e me la illumina, come fosse giugno. I due dietro di me si
abbracciano. Lui la stringe da dietro. Lei si mangiucchia le unghie
della mano destra. Le foglie della siepe, quella che separa il cimitero
dal mondo, si muovono. Il fruscio è lento, solo a tratti veloce.
Il rumore impercettibile, ma continuo.
Alzo gli sguardi e vedo le facce intorno a me. I sorrisi di quelli che
godono della sfiga altrui e come rapaci aspettano di poter raccontare
quanto è umile la tomba e quanto erano maleducati i due becchini
Le facce di persone che vorrebbero andare via, a fare le loro cose,
e che scocciate si chiedono quando finiranno di mettere cemento e mattoni.
Le lacrime di quelli che piangono perché non hanno altre maniere
per partecipare alla situazione. Gli occhi fissi, gonfi e tremanti.
Gli sguardi, sinceri, di quelli che non sono lì per sbaglio.
Ma solo per starti vicino, perché è brutto, cazzo se è
brutto, perdere un padre a diciott’anni e renderti conto che non
hai nessuno se non un paio di compagne di classe che si fingono amiche
e neanche hanno avuto il buon gusto di vestirsi di nero. Simona, quella
che crede di essere alternativa, si è presentata con una maglietta
rosa che le fascia i chili di troppo. Fa la fila dietro la squadra di
pallavolo, mentre finge di trattenere le lacrime. Federica, quella che
ci sei andata in Grecia d’estate e non ha trovato uno straccio
di ragazzo, benché sia riuscita a fare conquiste anche Anna -
ottantadue chili per un metro e sessanta, ha la felpa verde pisello,
i jeans bucati e le scarpe con i lacci rossi: neanche dovesse andare
ad un rave.
Ma loro sono le amiche, quelle che ti dovrebbero stare vicine e invece
non ti seguono neanche in bagno durante l’ora di greco, quando
esci piangendo, perché non vogliono smettere di prendere appunti.
Perché, la classe è un microcosmo. Con le persone false
e bugiarde come nei piccoli borghi, come nelle metropoli: come il cimitero.
Dove vai a portare i fiori non perché ti fa piacere, ma perché
non è bene che la tomba stia così, senza neanche un fiorellino
che la adorni.
“Questo funerale mi fa schifo” esplode Mario adesso. Lo
dice a voce alta, mentre la fila per abbracciare la figlia orfana si
allunga e le persone iniziano a spazientirsi. In parecchi si girano.
Lo guardano male, ma lui sembra non accorgersene. Si mette in disparte,
tenendo in mano la giacchina di camoscio. Appoggia un piede su una tomba
dal bell’angelo con le ali che svolazzano e guarda l’orologio.
Sono in tanti, quelli che continuano a guardarlo. Qualcuno, lo vedo
da come lo fissa, vorrebbe dirgli qualcosa: che no, non si sta così
ai funerali, che bisogna portare rispetto ai morti.
“Che rispetto avete voi?” dice poi, mentre mi sto cercando
una sigaretta nella borsa. Lui è uno di quelli che non riescono
a non fare polemica. Per lui la polemica o c’è o c’è:
è obbligatoria. Nessuno risponde, solo sguardi sdegnati. Qualche
scossa di testa. Qualche mano passata fra i capelli. Continuo a cercare
la sigaretta: il pacchetto è finito sotto il cellulare e si è
incastrato con la cerniera della tasca interna. Mi serve tutta la maestria
che possiedo per prenderne una. Adesso non mi resta che rintracciare
l’accendino e trovare un nascondiglio per accendere. Mi sto allontanando
con disinvoltura quando sento Mario che mi comanda: “Vai da Serena”.
Vorrei dirgli che l’abbraccio glielo posso dare dopo ma che la
sigaretta è un bisogno impellente, che no, non posso proprio
rimandare che se non me ne fumo una ogni mezz’ora svengo, ma lui
mi fa cenno con la mano. Non mi resta che infilarla in tasca, sperando
che non si spezzi, e abbracciare Serena.
Io Serena in cinque anni di scuola non l’ho mai abbracciata. Non
perché mi faccia propriamente schifo, no. Solo perché
io abbraccio quelli a cui sono legata con un vincolo affettivo fortissimo.
Mamma, papà, fratello (raramente), cugina, il ragazzo del momento:
nessun altro. Poi, abbracciare le donne mi fa senso. Soprattutto quando
sono comuniste che sembrano sempre sporche e ho paura di prendermi qualche
malattia. Fatto sta che Serena mi prende e mi stringe. E allora sento
il suo dolore come mio. E non mio per sbaglio, ma mio davvero. Vedo
la faccia bianca, senza trucco. Gli occhi rossi e il naso gonfio. Le
tasche piene di fazzoletti, che qualcuno gli è pure caduto. Mi
passa la mano sulla schiena un paio di volte. Io le dico che se ha bisogno
non si deve fare problemi, che io ci sono. Lei dice che lo sa e io mi
sento la coscienza a posto. Almeno in parte. Perché, in fondo,
è questo quello che vogliamo tutti: fare bella figura, con gli
altri come con noi stessi. Tranne Lorenzo che è venuto dieci
minuti, ha respirato odore di Chiesa, non si è neanche preoccupato
di farsi vedere e se n’è andato. A preso la sua Fiat Punto
bianca con impianto stereo da discoteca, ha messo una musica dance ed
è andato a Viareggio. Che là c’è sempre il
sole. E fa caldo. E non ci pensi che una che è in classe con
te adesso non dirà più la parola papà, se non associata
a imperfetto e ricordi remoti.
Poi Mario. La stringe. Le tocca i capelli, vedo che gli annusa. Dovrei
essere gelosa, ma non lo sono. Un ricciolo gli si infila fra le vitine
degli occhiali. Quando si separano un paio di capelli rimangono intrappolati
e lei sorride. Lui maldestramente si toglie gli occhiali: le tira i
capelli. Si salutano e lei dice, come un automa, grazie. Lui inclina
la testa poi si avvicina a me e:
- Ma infondo, a noi che ci frega?
- Come che ci frega?
- Sì, che ci frega?
Io allora me ne sto zitta. Queste sono quelle domande che non vanno
mai fatte, perché non hanno risposta. Cerco un aforisma da utilizzare
per non sembrare imbarazzata e ignorante. Per non sembrare come sono.
Missione impossibile. Mi prendo la sigaretta dalla tasca: è spezzata.
Prendo la parte con il filtro e l’accendo. Dura un paio di aspirate.
Poi la tiro per terra, fra i sassi e le erbacce. La pesto. Sento un
sapore amaro in bocca e la gola raschiata.
Devo smettere di fumare mi dico, mentre mi viene in mente che quello
è morto di cancro ai polmoni.
Torna all'inizio
Infinito
spessore dei segni
di Ardea
Montebelli
Infinito spessore dei segni
luce che visita l’anima
nel dire umano
di celeste memoria
congiunge e nutre.
Viene il Santo Spirito
viene quieto.
Rinnova la somiglianza con l’eterno
alita un soffio di vita,
nella carne benedice.
Luce dell’anima
che non ti rassegni
scuoti a piene mani
in povere cose
contempli l’eterna promessa.
Luce Santa
scintilli nell’infinito ascoltaci,
avvolgi la nostra nudità
all’anima smarrita rivelati
voce interiore
che inviti al Mistero.
Veni Creator Spiritus
torna consolatore
alla tua unica fonte,
dona all’anima
una memoria di luce.
(Solennità di Pentecoste 2005)
Torna all'inizio
da
QQ quasi quotidiana (silloge inedita)
di Carmelo
Calabrò
Proprietà
Non appartengono le cose
Figurarsi la luce degl’occhi
Il gesto perpetuo delle mani
L’andare e il ritornare
La libertà del corpo
Mosso da pensieri incessanti
Sono la vita che non muore
Amare è immaginarla muti
Se lontana, stringerla forte
Quando si stringe a noi
Marina di Vecchiano
L’onda colore del ghiaccio
Il cielo marmo, basso
La spiaggia piatta di vento
Le minime arselle viola
Meriti un po’ di felicità?
Il tuo lavoro
La mattina arrivavo presto
Sotto il glicine i giornali
E la gente che va e viene
Quante volte t’ho vista
Passare tra le domande
Di clienti rapidi
Ora il giornale
Lo leggo a casa
Di clienti non ce ne sono
Il caffè lo bevo da solo
Ma il glicine lo sento
Sfiorarmi sotto il soffitto
Il viaggio
Il viaggio lungo
Lascia in testa un ronzio
La sensazione fisica
Di una consumazione
Il corpo ha percepito
Più ancora del cervello
L’usura aspra del tempo
L’ombrello
Il loto in giardino
Rosso sotto la pioggia
Tutt’intorno l’autunno
Fuori dalla porta c’è
L’ombrello poggiato al muro
Non lo prendo, lo guardo soltanto
Dovrei andare ma resto
Versi
I versi che ho scritto per te
Non sono un dono d’amore
Bensì un prestito, il genio
Del mio egoismo gracile
Sono pensieri che tu
Continuerai a dedicarmi
Carmelo Calabrò,
messinese, ha pubblicato nel 2004 la raccolta Cinquanta,
edita da Fara. La poesia è una passione coltivata da tempo, che
si concilia con il lavoro di ricercatore in Storia del pensiero politico
presso l‚Università di Pisa.
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