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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 74
Febbraio 2006
Editoriale:
I morti guarderanno la strada
È questo verso di Alessandro Rivali
una sintesi "antropologica" del senso della storia: quella
che dà profondità al nostro esserci, oggi (ma non tutto
può essere ridotto al diem, non possiamo evitare lo sguardo degli
antenati che ci portano sulle spalle). Una poetica con un taglio civile
(legata quindi anche a un'analisi della contingenze storico-sociali)
è quella di Vincenzo D'Alessio, poeta che non
teme la denuncia dei mali e trova anche in una natura cosmica, riflesso
di un percorso spirituale, l'indicazione, per i passi dell'uomo che
non voglia autodistruggersi. I versi di Daniele De Angelis
ci offrono una spaccato di periferia "tra autobiografia e osservazione"
(come dice Davide Nota). I racconti e le poesie di Giovanni
Tuzet mettono in stallo la lingua. "Per strade diverse stiamo
tutti salendo la stessa montagna" ci ricorda Silvano
Galli dal Togo. Il poeta è vicino alle cose, come si evince
dal corposo saggio di Chiara De Luca su Massimo Morasso.
Ci riportano infine alle opere e ai giorni due poesie di Giuseppe
Callegari.
Su
La riviera del sangue di Alessandro Rivali (Mimesis, 2005)
di Alessandro
Ramberti
La voce di questo poeta ha una incisività con rare
sbavature, una forza equilibrata che si fa espressione di un sguardo
asciutto e preciso. La memoria è intesa non solo come una teoria
di eventi individuali, ma come storia, che è un po' la memoria
di una città, di un popolo, dell'umanità. La Riviera
del Sangue si articola in cinque sezioni: Benedicta (su fatti
di guerra dal '43 al '45 nell'entroterra genovese), Ianua, Finis Europae,
Iohannes scriptor, Otranto (su una razzia turca del 1480).
Nella prima poesia troviamo forse una chiave importante per immergerci
nella poetica di Rivali: "Penso si sia infilata così //
– come un taglio nel sentiero – la spina tormentata della
memoria."
Il ricordo è una ferita anche della natura: "Come riprendessero
a sanguinare / quelle fitte dorsali boscose / mentre ci inoltravamo…"
(p. 12); "Dicono che lassù / sulla piaga del sentiero /
nelle tormente d'inverno / lacerino il fogliame…" (p. 16);
"la casa insidiata dall'edera / nella tregua concessa dalla radura.
/… / lo scalzo camminare delle croci…" (p. 20).
Le prossime due citazioni, sempre appartenenti alla sezione Benedicta,
esemplificano la notevole capacità dell'autore di trasmettere
l'orrore della guerra con un'efficace strategia di understatement: "Toccarono
il fondale / coi polsi sigillati" (p. 24); "La salita s'inerpicava
/ e la materia si spegneva. // Tutti trasparenti, / senza accorgeresene"
(p. 26).
Più legata a situazioni intime, famigliari, è la sezione
Ianua, in cui si condividono con la consueta tecnica "oggettiva"
anche profondi dolori e lutti: "I morti guarderanno la strada"
(p. 38); "Sei condannata al peso delle lenzuola" (p. 39);
"e i colpi di tosse dello zio / caduto in uno strappo di vento"
(p. 40); "Le ciglia cucite da un pensiero, / sulla fronte la piega
/ di una bruciatura" (p. 42); "sei quel diffuso bagliore /
– la scalfittura sul vetro dell'orologio –" (In
ricordo di Paola, p. 45).
Per la sezione Finis Europae trovo emozionanti questi passi: "Pensavo
alla terra / dove aveva corteggiata / una donna nobile e già
matura, / a quella conca d'aranceti / illuminata dal mare" (Presso
la tomba di Federico II, p. 61); "Forse sapremo se fu spezzato
/ dal delirio dell'assideramento. // E il nome della donna / che gli
tremò in bocca, / prima che la sua anima / si slacciasse nel
gelo" (Soldato della «guerra biancha», p.
67).
In Johannes scriptor abbiamo una sintesi di echi biblici in questo distico:
"Ti abbeveravi di Dio / come una locusta al sole" (p. 75).
Infine l'ultima intensa sezione Otranto: "Sulla lastra del mare
nacquero gorghi / che annunciavano l'epilogo" (p. 81); "Lo
baciarono sulle palpebre / con una lama rovente / e candida come la
neve / perché non potesse più vedere / il sole o la schiena
di una donna" (p. 87); "Con le orbite ormai incollate / iniziò
a ritagliare il presente: / le parole perforarono la roccia / sostando
in ogni piega del male" (p. 89).
Raramente ho letto versi così scabri e così riverberanti
di (tragica) umanità, una umanità che oggi non sembra
considerare la storia maestra di vita e tende a illudersi in un presente
che oscilla fra nulla e deliri di onnipotenza.
Alessandro
Rivali è nato a Genova nel 1977. Sue poesie sono uscite sulle
riviste Atelier, ClanDestino,
La Clessidra, La Mosca di Milano. Un suo testo è stato pubblicato
nel volume collettivo Premio Lerici Pea (Agorà, 2000). Una sua
silloge è uscita nell'antologia Quattro poeti
(Ares, 2003).
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Su
Versi di lotta e di passione di Vincenzo D'Alessio
di Alessandro
Ramberti
"Settembre mi dorme dentro / come un bambino / guarda
il mondo / i faggi / piegano ai tarli neri / il secolo delle iene"
(p. 5): così si apre questa raccolta che già dal titolo
si dichiara combattiva: l'autore c'è, si pone in questo nostro
oggi con la forza di chi ha attraversato molte strade sapendo "soffrire
nelle mani sole / che prendono il largo / per sentirsi nuove" (p.
6) e sapendo anche che ci sono "troppi uomini e pochi / poeti a
sanare il dolore / del mondo. Ricordano / le donne i figli che il fuoco
/ ha consumato sotto l'urlo / dei cannonni nel pianto" (p. 7).
Come si vede una poesia civile, a volte forse un po' lirico-descrittiva
ma con momenti di grande efficacia epigrammatica: "l'infinito è
Dio e il nulla / si scolora nell'anfratto delle paure" (p. 8);
"Il dolore dei poveri / fa sorridere il mondo" (p. 9); "Il
male non ha secoli / vince anche il futuro" (p. 10); "Viviamo
giorni senza / pensare al ritorno" (p. 20); "i sassi tra le
foglie affiorano / aguzzi al passo veloce" (p. 27). Alcune poesie
sono gridi di condanna di una certa classe politica, delle ingiustizie
sociali, delle diseguaglianze: "Povertà nascosta al mondo
/ dei furbisuperbi di ricchezze / e ipocrisia politici colmi / di energia"
(p. 33); una condanna che D'Alessio esplicita nell'Introduzione alla
Valigia meridionale (plaquette pubblicata nel 1975
e qui riprodotta in appendice al volume): "… la cieca fede
nella scienza quale superamento della morte; l'eutanasia, la paura che
la natura e le sue risorse non bastino all'accresciuta necessità
sociale; l'ecologia; il desiderio di nuove scoperte; la crisi religiosa;
il meccanicismo; e tanti altri esempi non sono forse l'evidenza di un
secondo illuminismo?" (p. 38). In questa raccolta giovanile l'elemento
autobiografico si riflette nei paesaggi e nella natura con echi pascoliani
e leopardiani. Segnalo questi versi per per la loro intensità:
“non credo : che in queste pietre / troverò la forza di
rivivere” (Monologo, p. 43); “ché l’unica
sciocchezza, tra i rovi, / è lasciarsi coprire lentamente”
(Castello, p. 48). Come qui anche in altre poesie la voce di
D’Alessio vibra di verità con venatura autoironiche che
ci sembrano particolarmente felici.
Vincenzo
D'Alessio è nato a Solofra (AV) nel 1950. Ha pubblicato La
valigia del meridionale (1975), Un caso del sud (1976),
Oltre il verde (1989), Lo scoglio (1990), Quando
sarai lontana (1991), L'altra faccia della luna (1994),
Costa di Amalfi (1995), La mia terra (1996), Ippocampo
(1998), D'amore e d'altri mali (1999), Elementi
(2003). Vive a Montoro Inferiore (AV).
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Su
Evidenze di Daniele De Angelis
di Davide
Nota
Tra i giovanissimi poeti italiani che iniziano a farsi distinguere,
nonostante i polveroni alzati dalla guerra antologica in corso, Daniele
De Angelis (Ascoli Piceno, 1981) merita senza dubbio un po’ più
di attenzione.
A scanso di equivoci: conosco Daniele da molti anni, e a legarci non
è solamente la direzione de La
Gru, ma una vera e propria amicizia.
Conosco bene, quindi, anche l’habitat che ha visto nascere i suoi
versi, ben educati alla descrizione e alla narrazione di eventi.
Si tratta in gran parte dell’area periferica di Ascoli Piceno,
Monticelli per essere precisi, il quartiere dormitorio dove entrambi
siamo cresciuti e viviamo: dalla vita d’appartamento alle strade
dei palazzi: "La pedonale dai palazzi come serpe / biforcuta, striscia
fino all’ospedale; / davanti alla fioraia i fiori in vista / i
tossici prendono il sole, aspettando il metadone."
La Salaria, poi, vecchio stradone che conduce al mare e alle campagne
circostanti, via di fuga estiva dall’afa e dal tedio della provincia:
"Con questo / nen è che scatarre ne lu piatte, / dico solo
provincia, strada che costeggia / un fondale d’industria; un’ultracittadina
linea / di qua del fiume, di là da esso e in mezzo / verde sopravvissuto
e falsato (…)."
Questo è lo scenario reale dentro cui si svolgono gli episodi
in versi della sua prima raccolta inedita, Evidenze,
tra autobiografia e osservazione. Una poesia tendenzialmente narrativa,
di azioni umane e di dialoghi, rallentati però, sospesi, in una
sorta di rarefazione temporale descrittiva.
Voglio dire che la descrizione lirica di ambienti naturali o cittadini,
costeggiante ogni capitolo di questo poemetto, costituisce una vera
e propria antitesi stilistica a quel primo movimento verso il basso
quotidiano, tematico e linguistico, di cui parlavo.
Nella poesia di Daniele si svolge uno scontro, nascosto nell’uniformità
metrica, e nel tono riflessivo che non cede quasi mai a sbalzi melodrammatici,
tra due esigenze di scrittura: una lirica, nell’osservazione silenziosa
del paesaggio, l’altra realistica, nella rappresentazione dell’azione.
Tra due lingue, quindi: una poetica alta, interiore, l’altra neo-volgare,
costituita da un gerghetto post-dialettale ben assimilato: "Dalla
parete scende fino al pavimento / di piastrelle spaccate, una crepa
nera / come un segno impreciso di matita, ruvida / dove sbreccia l’intonaco
in fragili scaglie. // Dice il contadino del casolare accanto / che
la casa s’ crolla a fa’ passà ‘n anne / che
lu spacche è prefunne, ce se po’ ‘nzaccà /
nu curtielle ‘ndiere; nisciù l’è ‘ccommodata
/ in tutte stu tiembe, manghe nu laveritte / e l’acqua quande
piov ‘ngima la collina / la terra resmove e chesta se ne cala."
Forzatura etica all’azione, shock culturale dell’io lirico
che si infrange nella storia; scioglimento della tensione in una nuova
forma di canzone popolare che attenui attraverso la forma metrica lo
sgomento della scoperta visiva (come avviene, ad esempio, anche in alcune
cose di Enrico Piergallini, mutuate entrambe forse da Pavese).
In Daniele vi è inoltre una volontà, forse più
giovanile (ma anche per questo interessante) di sfogare questa condizione
di frustrazione storica e geografica: "… in un sorriso furioso
/ che da lingua e dai denti, dalle labbra vuole / questa disperazione,
sputare."
O di trasformarla, come molti suoi coetanei, in virtù di appartenenza:
"E così sul pedale passo a circoscrivere / un habitat ristretto
in qualche metro, / dove si abita senza tetto."
Degno veramente di nota è poi il secondo capitolo della raccolta:
“Il diario dell’altro”, vero e proprio poemetto d’azione
che ha per protagonista un ragazzo (altro dall’autore) alle prese
con i suoi problemi quotidiani: il suo rapporto d’amore con una
giovane impiegata di provincia, la malattia senile del nonno, la desolazione
del quartiere che lo circonda.
Insomma, credo che Evidenze sia un lavoro da ascoltare,
e la voce di Daniele De Angelis fra le più mature e interessanti
fino ad ora venute fuori dal limbo dei giovanissimi, cioè dei
nati nei primi anni ’80.
Spero che questo autore, e questo suo primo lavoro, possano ricevere
da oggi in poi un po’ più di attenzione e interesse sia
da parte degli editori e critici che degli stessi poeti.
Per contattare l'autore: dnggpp@iol.it
Daniele
De Angelis è nato ad Ascoli Piceno il 17/04/81, studente
all'università di Lettere e Filosofia, indirizzo conservazione
dei beni culturali, a Perugia. Ha vinto il concorso "Colli del
Tronto", presieduto da Franco Loi.
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Severamente
- Pericolosamente e Poesie musive
di Giovanni
Tuzet
SEVERAMENTE
Ogni giorno infrango la legge. Esco di casa, attraverso,
e mi trovo un cartello che dice: “È severamente vietato
il passaggio di pedoni e mezzi di qualsiasi tipo”. Ma in quel
piazzale ci passano tutti. Io fra l’altro ho un valido motivo:
ci vado per prendere la corriera. C’è un passaggio per
i pedoni più in là, potrei fare un giro più lungo…
ma insomma, addirittura ci parcheggiano in quello spiazzo.
Lungo il viaggio non leggo niente, mi dà fastidio. Penso a quello
che capita. Un giorno, mentre partivamo, ho pensato a quel cartello,
è davvero curioso. È una specie di vecchio spaventapasseri
con gli uccelli sopra. “È severamente vietato il passaggio
(eccetera)”. Tanta severità… dov’è finita?
Se lo togliessero non cambierebbe niente.
Un giorno il controllore ha trattato male il mio ex che era senza biglietto.
Sarà che non mi è piaciuto quel modo, era anche un po’
ubriaco (il mio ex, non il controllore). Sarà che quel cartello
comincia a infastidirmi. Ho pensato: che senso ha vietare qualcosa “severamente”?
Vuol dire che in altri casi si può chiudere un occhio? Forse
è così. Mi sarebbe piaciuto dirgli, al controllore: scusi,
visto che avere il biglietto è “obbligatorio” e non
“severamente obbligatorio”, lei potrebbe lasciar correre…
Ho finito per accorgermi che di cartelli simili ce ne sono un po’
dappertutto. “È severamente vietato fumare”. “È
rigorosamente proibito parlare al conducente”. “È
assolutamente vietato spostare i mobili”. Che strana logica c’è
sotto?
Ho avuto un’illuminazione: gli avverbi fanno una bella differenza.
Se un ragazzo mi dicesse “Ti amo temporaneamente” farebbe
sì una bella differenza. Forse è proprio questo il punto.
Gli avverbi modificano qualcosa, perbacco. Ma che cosa? Cosa cambia
fra un imperioso “È severamente vietato fumare” e
un laconico “È vietato fumare”? Senza avverbio non
c’è il divieto? Certo che no! Eppure gli avverbi modificano
qualcosa, anche se non mi è chiaro come.
Ora ogni volta che vedo un divieto guardo se c’è un avverbio
o un’espressione curiosa. Ma chi li scrive? Saranno dei burocrati
pallidi, molto devoti, che ripetono le formule trasmesse. In casi eccezionali
un dirigente coraggioso o scriteriato, che decide di cambiarle. Con
questi risultati brillanti.
E perché non mettono gli avverbi ai permessi? Vorrei chiederlo
al controllore. Perché non ci sono cartelli come “È
rigorosamente consentito il passaggio a chiunque”, oppure “È
assolutamente permesso il consumo di alimenti”? Un amico che studia
legge mi ha detto che le chiamano così: norme permissive. E perché,
gli ho chiesto, non mettono gli avverbi alle norme permissive? Non mi
ha saputo rispondere.
Forse, mi dico io, perché i permessi sono… più vaghi.
A volte sono degli assegni in bianco. Mentre sui divieti e gli obblighi
bisogna essere precisi. Anche se poi lo sanno tutti, dal catechismo
o l’asilo, che ci sono mille modi di aggirare i comandi, anche
quelli più precisi.
Ricordo che quando andavo a confessarmi non volevo dire tutto al prete.
Ma non volevo neanche mentire. Gli dicevo solo una parte dei peccati
e alla fine confessavo: “Ho detto delle bugie”. Così,
in qualche modo, gli dicevo di non averli detti tutti. E mi sentivo
in pace.
Se un giorno qualcuno mi dirà che è vietato il passaggio,
gli dirò che è severamente permesso non ascoltare gli
impiccioni e i cretini.
PERICOLOSAMENTE
C’era un autobus fermo oggi, mentre attraversavo
la strada alle 7:10, proprio sotto il cartello “È severamente
vietato il passaggio di pedoni e mezzi di qualsiasi tipo”. Era
fermo e l’autista girava il volante per fare un’inversione
a V, e andare verso la rotonda. Era il 455, conosco di vista l’autista,
è un uomo sulla cinquantina. Quando ho cominciato ad attraversare,
coperta dall’ombrello, l’autista stava ancora girando il
volante. Non guardava a destra, guardava solo a sinistra. Io volevo
andare dalla parte del cartello, alla sua sinistra, per non passare
in mezzo al piazzale. Di solito gli autobus vanno dall’altra parte…
invece oggi aveva la freccia a sinistra, ma l’ho visto solo dopo:
l’autobus era di traverso e uscendo dal portone non vedevo bene
il fianco di sinistra. Appena mi sono trovata in mezzo alla strada mi
sono accorta che l’autobus aveva cominciato a venirmi contro con
un manovra strana, un giro su se stesso. Avanzava, forse non aveva guardato
dall’altra parte prima di partire, ma adesso mi stava guardando.
Ho pensato: “Sono in mezzo alla strada, si fermerà, è
appena partito”. Invece ha continuato a dare gas, come se volesse
venirmi addosso. Ho fatto due passi veloci indietro, in mezzo alla strada
scivolosa, senza avere il tempo di guardare se arrivasse qualcuno, o
se ci fosse un buco. Due passi non bastavano. Continuava a venirmi addosso,
senza fermarsi. L’angolo di manovra era stretto, le ruote giravano
sotto l’autobus e la testa del mezzo mi veniva incontro con un
movimento centrifugo, sbandava e veniva verso di me velocemente, lo
sportellino aperto del carburante sventolava in fuori, il cartello non
si vedeva quasi più, stava per scomparire. Per un attimo non
ho saputo dove andare. Poco prima che l’autobus sbandasse nella
curva, avevo pensato: “Mi vedrà, mi lascerà passare,
sono in mezzo alla strada, forse potrei fare una corsa veloce e togliermi
di qui, andare sul marciapiede, e passare sotto quel cartello, correre
a prendere il mio autobus”. Ma quello mi stava venendo in piena
faccia e l’autista mi guardava alterato. Ero più piccola,
ero in mezzo alla strada, ma lui non si fermava. Mi stava deliberatamente
investendo! Era evidente, era una prova di forza per lui. Io ero in
mezzo, lui aveva fretta e doveva andare. Ero io che dovevo farmi indietro,
non avevo scelta. Potevo cadere nel tentativo di fuga, potevo scivolare,
potevo essere investita da un altro mezzo, potevo fare un grosso sbaglio,
fare male i miei conti, le mie supposizioni, e cercare di raggiungere
la riva, il posto sicuro, quel pezzo di marciapiedi che finisce, che
muore proprio sotto il cartello. E lì morire anch’io.
Per un attimo avevo pensato di attraversare svelta, ma non avrebbe funzionato
perché l’autobus non stava badando a me. Prima non ha guardato,
quando era fermo, poi quando è partito ha guardato, mi ha vista,
si è irritato dalla mia presenza, ha deciso di accelerare, di
affrettare di più quella sua strana manovra contromano. Io sono
scattata indietro, ho corso all’indietro in mezzo alla strada.
A questo mi ha costretta quel bastardo, quel verme, e mentre lui ruotava
via veloce sulla traiettoria, io lo guardavo, e realizzavo che lo sentivo
imprecare contro di me. Non passerò mai più da quella
parte della strada né dentro il piazzale, oltre il cartello “È
severamente…”. Meglio rischiare di farsi investire sulle
strisce. Lì sopra la vita ha un valore, anche per un cane di
autista, se fossi stata lì, avrebbe inchiodato.
POESIE MUSIVE
i pesci scivolati nell’asciutta
carta nel libro, liscio testamento
ci guatano con occhi di scialuppa,
curiosi, già forse trasfigurati
i taciti pesci negli abissi
negli armenti marini rivelati
ricordi Giona, in grembo d’animale
sparito aspirato,
rilasciato il terzo giorno sulla spiaggia?
chiedi che il pesce ti divori,
come Giona, l’aspettato rigettato
fra gamme d’uva, d’oro gramma
acque iconiche vita d’acqua,
iridi nel cuore del mare
i taciti pesci negli abissi
i pesci fissi copie del Dio
Nota – Cfr. Giona, nell’Antico Testamento, tra i Libri
profetici. Gesù ne indica il segno: la resurrezione. (Cfr. Mt
12, 38 ss.; Lc 11, 29 ss.). Il pesce inghiotte Giona e lo rigetta, dopo
tre giorni e tre notti; il pesce è d’altra parte simbolo
iconografico del Cristo; il pesce, mobile in un mobile elemento (l’acqua),
si fissa dunque in scrittura, nel libro. (Una precedente versione è
pubblicata in i pesci fissi, Pulcinoelefante 1998)
chiesa d’Aquileia
ascose a mosaico antiche cose
acque iconiche, vita d’acqua, acquavite
i filosofi analitici possono dunque oculare –
non solo alla balena: Giona
in pancia d’oceanico serpente
rotolava; poi away sputollo,
satollo, l’animale; collocollo l’onde
su l’isola felice, cinta d’icone a scampo,
gamme di granzeole, configurazioni anguilline:
i filosofi anal-ittici distinguano le specie,
fini le tessere e dolci i tralci gialli,
cena di Giona, aspettato-espettorato.
*
granchi ingigantiti
visione d’un curato bevuto
rispetto al vero v’era in Talete
di più vero; così pel prete nero,
gravido di grappe e prove dei
astro-scampi (arci-astici mega-gamberi);
– proli di mari mirabili
ch’apici d’omini levano:
tengono tirano teste, sbucciano
con chele corpicini d’omini.
(da 365-secondo, Liberty House 2000)
Laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di
Ferrara, Giovanni
Tuzet ha svolto attività di ricerca in Filosofia del diritto
e Filosofia della conoscenza presso le Università degli Studi
di Torino, Parigi, Losanna. Ha pubblicato: Suggestioni di poesia,
Officina Grafica S. Matteo, S. Matteo della Decima 1993; 365-primo,
Liberty House, Ferrara 1999; 365-secondo, Liberty House,
Ferrara 2000. Sue poesie e prose sono state pubblicate in diverse riviste
e antologie, fra cui: Nodo Sottile 4, a cura di V.
Biagini e A. Sirotti, Crocetti, Milano 2004; La
coda della galassia, a cura di A. Ramberti, Fara, 2005; Atelier
(n. 38), 2005. Ha curato il volume Simboli in versi,
Editreg, Trieste 2004.
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Tabaski
di Silvano
Galli
Sabato 14 gennaio 2006
Martedì 10 gennaio era la Tabaski, la grande festa
dei Musulmani: il sacrificio a Dio di Ismaele da parte di Abramo. Il
giorno dopo si condivideva l’agnello offerto. Ho avuto anch’io
un cosciotto. È il papà del fabbro Affo Goma, detto El
Adji che me l’ha inviato. Mi preparo per scendere al villaggio
e ringraziare. Arriva una delegazione di Atchibodo con il direttore
della scuola. Mi portano una richiesta di aiuto per costruire la scuola.
Hanno già estratto dal fiume diversi grandi mucchi di sabbia.
Domenica vogliono continuare. Sono venuti a dirmi di andare al pomeriggio
per la messa. D’accordo, poi faremo una riunione per la scuola.
Avverto che ho trovato il camion per la sabbia. Martedì sarò
da loro con il camion e il direttore della cooperativa. Li informo che
il Novara Center ha accolto la loro micro agricola: concime per i campi
di mais.
Se ne vanno e scendo al villaggio a salutare e ringraziare. Passo dal
campo sportivo: un brulichio di gente e di banchetti. Grande aria di
festa. È la tabaski che continua. Ci sono soprattutto giovani.
Un match è in corso. Il presidente del gruppo dei giovani e il
figlio del capo villaggio si avvicinano e mi salutano. Dopo lo scambio
di auguri: gnana tale, gnana wesini, gnana djingare: buona festa, lunga
vita… li invito a sensibilizzare i giovani per pulire le tre vie
di accesso al villaggio. Devono andare dal capo villaggio ad avvertirlo
che i giovani sono decisi a fare qualcosa per il villaggio e…
non comandare al suo posto! Me lo aveva lasciato capire qualche tempo
prima: “Sai, adesso con la storia della democrazia ognuno dice
quello che vuole e vogliono comandare loro”, mi aveva detto il
vecchio capo Amidou Akondo.
“Una buona idea, riconosce Assarou, il presidente, dobbiamo proprio
fare una riunione e parleremo di questo”. Il figlio del capo villaggio
annuisce. Alla fine del mese c’è la grande festa annuale
dei lebbrosi, e il villaggio deve essere in ordine.
Vedo Kirim, il gestore della cabina telefonica di Kolowaré e
lo informo che siamo riusciti a far funzionare antenna e telefono alla
missione. Avevamo fatto tante prove insieme, ma sempre negative. Adesso
funziona benissimo. Mi dice: “Devo venire a provare il mio telefono
con la tua antenna.”
Affo Goma è nel gruppo. Mi accompagna dal vecchio padre. Le strade
del villaggio sono quasi deserte. Passiamo accanto al grande albero,
dal fogliame maestoso che c’è al centro del villaggio.
“È stato piantato quando è nato il villaggio, mi
dice, Affo Goma. “E noi oggi godiamo tutti della sua ombra”,
aggiungo io. Arriviamo nel cortile: sua madre e sua moglie sono sedute
accanto al focolare. Entro in una cameretta dove il vecchio Alfa Suru
mi accoglie. Senza una gamba e quasi cieco, è seduto accanto
al suo letto. Affo mi fa accomodare su di un divano. È commosso
dalla mia visita. Non credeva che sarei ritornato. Anche altri pensavano
la stessa cosa. In diversi me lo hanno detto. Dice: “Se sono qui
è grazie a te, se ho dei figli è grazie a te”. Non
capisco bene cosa voglia dire. Continua e il figlio Affo traduce: “A
noi lebbrosi non era possibile avere una moglie, eravamo relegati fuori
del villaggio, poi siete arrivati voi, ci avete curato, e avete detto
a tutti che anche noi potevamo avere una moglie, sposarci, avere dei
figli che non sarebbero stati ammalati. Ed eccomi qui con i miei figli:
gnana doke: grazie per averci sostenuto”. Entra anche la moglie
e si siede accanto a noi. Facciamo insieme una preghiera evocando la
saggezza di Dio che come una nube copre tutta la terra. Per strade diverse
stiamo tutti salendo la stessa montagna, e un giorno arriveremo tutti
sulla stessa vetta. Intanto, come dicono i Kotokoli, per strada, cerchiamo
di gettare qualche seme di bene: la kifembi, nsi cere: fa qualcosa di
buono, è un seme per domani. Come quell’albero che c’è
al centro del villaggio che qualcuno un giorno ha piantato.
Padre Silvano
Galli
B.P. 36 SOKODE (Togo)
Tel. 00.228.997.75.30
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Giusto sul Bordo delle
cose. Sulla poesia di Massimo Morasso
di Chiara De Luca
1. La svolta decisiva del linguaggio
Nell’annuario manacordiano 2004, Mauro Ferrari scrive che Massimo
Morasso è "portatore di un linguaggio depurato senza
pari, che si pone come tale di fronte al nulla, all'insignificanza,
al male dell'essere residuo insignificante, e ne esce vincitore abitando
poeticamente tale mondo larvale, proprio affermando la spietatezza di
questo mondo con il coraggio di osservarlo attraverso la lente di ingrandimento".
L’aggettivo utilizzato da Ferrari per definire la lingua poetica
di Morasso mi rimanda agli scritti filosofici di Walter Benjamin sulla
lingua, in cui il grande filosofo tenta appunto di fornire un "concetto
depurato di lingua, per quanto imperfetto sembra essere ancora"
(W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino
1995, p. 70). E mi sembra che la ricerca di Morasso vada proprio nella
stessa direzione di quella benjaminiana. La lingua poetica di Morasso
è infatti sfrondata da orpelli e abbellimenti, tutta tesa all’essenziale,
eppure con poche pennellate riesce a descrivere e a rappresentare agli
occhi del lettore bellissimi paesaggi, di cui arriva a cogliere anche
l’infinitamente piccolo, ciò che può sembrare all’apparenza
irrilevante, restituendogli la sua dignità di elemento costitutivo
della rappresentazione, di perno attorno al quale ruota la molteplicità
dell’esperienza. Proprio come una lente d’ingrandimento,
l’occhio del poeta si posa sulle cose, la lingua ne delinea con
essenzialità i contorni, come in una bozzetto, piuttosto che
una fotografia. E come un (precisissimo) disegno di prova, la parola
poetica presuppone un lavoro di riempimento, che il poeta non completa,
ma lascia in gran parte alla sensibilità del lettore. In questa
poesia è paradossalmente sempre presente una assenza, un tu lontano,
cui il poeta tenta di porsi al fianco, da cui il poeta pare sollecitare
risposte. È una poesia che interroga, che com-prende per capire,
pur nella consapevolezza di una impossibilità, di un gap imprescindibile
di conoscenza.
Dietro la ricerca di Morasso, dietro il tentativo di carpire e restituire
il linguaggio segreto di ogni cosa, mi pare soggiacere l’idea
benjaminiana che "Non vi è evento o cosa nella natura animata
o inanimata che non partecipi in qualche modo della lingua, poiché
è esenziale per ogni cosa comunicare il suo contenuto spirituale",
al punto che "non possiamo rappresentarci in nessuna cosa una completa
assenza di linguaggio" (ivi, 53). Il linguaggio è dunque
insito nella cosa stessa, il cui essere spirituale si comunica
nella lingua e non attraverso la lingua, la cui essenza diviene contenuto,
non medium del contenuto, così che "l’essere
linguistico delle cose è la loro lingua" (ivi, p. 55), quella
che siamo in grado di comprendere.
Morasso sembra in parte rifarsi all’ideale romantico della compresenza
dell’uno nel tutto, del frammento nella molteplicità e
della molteplicità nel frammento. Ogni cosa è vista nella
sua unicità, eppure come riflesso di un qualcosa d’altro,
di più grande, che va al di là, e resta sempre in parte
inconoscibile. Le singole cose si ingrandiscono a rappresentare un tutto
di esperienza, cui il poeta chiede di partecipare, riconoscendovi la
propria, o addirittura sostituendola ad essa.
Ma la poesia di Morasso – che, si definisce "sedicente teo-alogante
post / romantico poeta" (La notte salva, inedito) –
abbraccia le teorizzazioni romantiche, per andare oltre, e avvicinarsi
più a quel solitario slancio hölderliniano che è
anelito alla congiunzione con il tutto, alla fraternità con le
cose, esperite come alterità e, al contempo, come rispecchiamento
del proprio intimo. Quello di Hölderlin era infatti uno spirito
capace di sentire profondamente la natura con la quale cercava un legame
di intima comunanza, di corrispondenza confinante con la dissoluzione,
con la perdita dell’individualità nel cuore immenso del
reale, visto come ricettacolo del divino. Ed è proprio dall’assidua
ricerca di una identità totale con la natura e il divino che
dentro e non al di là di essa si manifesta,
che nasce in Hölderlin la disperante consapevolezza della sconfitta,
dell’impossibilità di realizzare la completa corrispondenza
dell’Uno con il Tutto.
Non è una realtà "altra" che Morasso cerca,
non è il "divino", romanticamente inteso come afflato
poetico rivelatore di una realtà seconda, sita al di là
e al di sopra del conoscibile racchiuso nella realtà empirica,
bensì la magia insita nella natura stessa. È proprio alla
realtà oggettiva nella sua nudità che Morasso pone le
sue domande, è nella realtà oggettiva che cerca conferma
della propria presenza, eco della propria voce poetica. Il poeta non
è il Mittler tra l’umano e il divino, di cui arriva
a cogliere i segreti più riposti per restituirli – in forma
mediata – alla gente. Il poeta è piuttosto qualcuno che
pone alle cose le stesse domande di tutti, che coglie la trascendenza
nel contingente, nella realtà a tutti esperibile. Il "divino",
o piuttosto il misterioso, sta dentro, non oltre le
cose, è visibile sulla loro superficie, avvicinandosi lentamente,
con umiltà, abbassandosi, osservando a lungo, ingrandendo.
Morasso pare abbracciare l’idea benjaminiana che l’essere
spirituale dell’uomo non si comunichi mediante i nomi
che dà alle cose, ma in essi, che cioè uomo e natura siano
posti sullo stesso piano, come emittente e ricevente di un messaggio,
e arrivino a coincidere con l’essenza linguistica del messaggio
stesso, il nome. Più che di una antropomorfizzazione della natura
e di una naturalizzazione dell’uomo di stampo romantico, per la
poesia di Morasso possiamo piuttosto parlare di una aderenza alla poetica
della Sachlichkeit, nel senso inteso da Rilke, poeta che Morasso
ha amato, ha studiato, e con cui ha dialogato a lungo anche in versi,
in un bell’inedito dal titolo Rilking. Nelle Lettere
a un giovane poeta (R.M. Rilke, Briefe an einen jungen Dichter.
An Franz Xaver Kappus, in R.M. Rilke, Von Kunst und Leben,
Schriften, Insel, Frankfurt/M-Leipzig 2001, p. 147), Rilke
invita Franz Kappus a non dolersi della negata familiarità con
gli uomini, e a cercare di "essere vicino alle cose", che
non lo abbandoneranno, perché "ci sono ancora le notti e
i venti, che soffiano tra gli alberi e su molte terre; tutto, tra le
cose e presso gli animali, è colmo di un evento cui Lei può
prendere parte". Le cose sono cioè viste nella loro oggettività,
sono ascoltate. Il poeta le scruta finché esse non gli restituiscono
lo sguardo, rivelando da sé il proprio profondo senso. Così
l’anima del poeta tenta un contatto con l’anima delle cose,
non tanto attraverso un disvelamento di stampo novalisiano (cfr. Novalis,
Die Christenheit, oder Europa, in Romantik I, Reclam,
Stoccarda 1996, pp. 161-181), quanto piuttosto attraverso una presa
di coscienza della loro oggettività, di quanto è empiricamente
esperibile, e una accettazione del loro silenzio colmo di significati,
come lo è quello della "bambole" rilkiane ("Taceva
essa allora, non per superiorità, taceva perché era quella
la sua perpetua scappatoia, perché era costituita di un'inutile
materia affatto responsabile – taceva e neppure le saltava in
mente di vantarsene, benché le dovesse servire molto a darsi
importanza in un mondo in cui il destino, anzi Dio stesso si son fatti
famosi anzitutto perché ci fronteggiano col silenzio. In un tempo
in cui tutti ancora si affannavano a risponderci sempre rapidamente
e rassicurandoci, fu essa, la bambola, la prima che ci avvolse di quel
silenzio più grande della vita, che poi sempre tornò ad
alitarci dallo spazio ogni volta che in qualche luogo giungevamo ai
confini della nostra esistenza. Di fronte a lei, come ci fissava, provammo
noi la prima volta (o m'inganno?) quel vuoto nel sentimento, quella
pausa del cuore, dove uno trapasserebbe, se poi l'intera natura procedendo
oltre soavemente non lo sollevasse, come una cosa inanimata, a valicare
gli abissi.", Rilke-Baudelaire-Kleist, Bambole, giocattoli
e marionette, Passigli, Firenze 1999, p. 27). La misura non sono
dunque l’arabesco di Schlegel (cfr. F. Schelgel, Über
die Französische Revolution, in Romantik I, Reclam,
Stoccarda, 1996, p. 169., la bolla di sapone di Brentano (cfr. C. Brentano,
Gespräch über das Romantische, Reclam, Stoccarda 1996,
57-62), né il prisma, o lo specchio di Hoffmann (cfr. E.T.A.
Hoffmann, Zusammenhang von Poesie und Alltag, in Romantik
I, Reclam, Stoccarda 1996, pp. 275-285), bensì l’occhio
del poeta. Il filtro, il Mittler non è l’afflato
divino presente in tutte le cose e nel poeta stesso, quanto piuttosto
lo sguardo fisico, deformato dall’esperienza e dalla consapevolezza
individuale. Il processo della creazione artistica non è nominazione,
né romanticizzazione, ovvero rielaborazione alchemica
della realtà (cfr. Novalis, Die Welt muß romantisiert
werden, in Romantik I, Reclam, Stoccarda 1996, p. 57),
quanto piuttosto oggettiva esplorazione minuziosa. Le cose non sono
piegate alla soggettività della morale interiore individuale,
ma restituite nella loro dimensione, fisica, eppure trascesa mediante
l’ingrandimento del particolare a mezzo della parola che si fa
strumento ermeneutico, più che veicolo di una superiore e oscura
conoscenza. La parola stessa è simbolo carico di molteplici valenze
iconiche, più che involucro in attesa di essere colmato di senso.
Non è tanto la realtà che chiede alla parola di rappresentarla.
È la parola che cerca il suo corrispondente nella realtà.
Non sono le cose a chiedere di essere nominate, quanto i nomi a cercare
le cose cui aderire, ottenendone la propria intrinseca giustificazione.
Il poeta non chiama dunque in aiuto la cifra, il simbolo, il "fiore
blu" di Brentano per descrivere la realtà, e la compresenza
di opposti che la abita, perché la parola è già
di per sé simbolo, significante e significato aperto a molteplici
letture. Per dirla con Benjamin, il nome è "l’essenza
più intima della lingua stessa. Il nome è ciò attraverso
cui non si comunica più nulla e in cui la lingua stessa e assolutamente
si comunica. Nel nome l’essenza spirituale che si comunica è
la lingua" e "ogni natura, in quanto si comunica, si comunica
nella lingua, e quindi in ultima istanza nell’uomo" (W. Benjamin,
op. cit., p. 57).
In Nel ritmo del ritorno, prima parte della trilogia
edita da L’obliquo, è forte il senso di una natura animata
in ogni suo aspetto, di una natura che si fa linguaggio, da cui si attendono
sorprese che ne infrangano la convenzionalità: Ci sono certe
notti che il paesaggio / sembra muoversi con circospezione, / disporsi
di nuovo cautamente / in un chiarore pieno di presagi / si attende a
lungo / fuori di metafora / la svolta decisiva del linguaggio.
La metafora non è qui intesa tanto nella sua accezione retorica,
quanto piuttosto nel senso lato di valenza metaforica e potenzialità
iconica insita nella parola stessa, in ogni parola, ovvero di ogni elemento
del paesaggio incarnato in parola. L’osservatore attende dunque
al di fuori del paesaggio, al di fuori del significato che la consuetudine
accorda al significante, attende che in una svolta decisiva il paesaggio
si dica diversamente, incarnando un senso nuovo nelle parole consumate
dall’uso.
Poi l’osservatore si avvicina, giungendo al confine tra la superficie
delle cose e il significato ad esse conferito da una stratificazione
di sguardi, umani e animali, sedimentatasi nel tempo: Al crollare
della parete / giusto sul bordo delle cose / era giunto l’epilogo.
/ Ce n’erano stati tanti di passaggio / nella antica torre / soprattutto
mendicanti all’apparenza / oppure bestie, scarafaggi. / Davano
tutti la loro testimonianza e poi sparivano (M. Morasso, Nel
ritmo del ritorno, Ed. L’obliquo, Brescia 1997, p. 47).
Finché infine Giunto dall’altro lato della natura,
l’appartato guardava come da sopra le spalle indietro alla torbiera,
ci posava accanto una manciata di nomi, si allontanava (ivi, p.
17). L’appartato, il Wanderer solitario giunge dunque
"dall’altro lato delle natura", quello che Friedrich
Schubert, in un saggio fondamentale per le teorizzazioni romantiche
sulla natura, definì la "Nachseite der Naturwissenschaft"
(F. Schubert, Nachseite der Naturwissenschaft, in Romantik
I, Reclam, Stoccarda 1974, p. 71-75), dove Naturwissenschaft
non è la scienza della natura intesa nel suo senso comune, quanto
piuttosto la scienza dello sguardo, quella facoltà interiore
che giunge a cogliere l’identità tra l’uomo e la
natura, che è dunque anche, paradossalmente, scienza dell’inesprimibile.
La Nachseite non è (come è stato spesso erroneamente
tradotto) "il lato oscuro", quanto piuttosto "l’altro
lato", il "retro", quello che comunemente resta fuori
dalla portata dello sguardo, ma diviene visibile con un cambio di traiettoria,
seguendo il percorso della svolta decisiva del linguaggio – ovvero
il dirsi della natura stessa -, alla ricerca della "fusione tra
un essere contingente, ed un essere futuro, più alto", per
ricreare "il più antico legame tra l’uomo e la natura"
(ivi, p. 72), che consenta di gettarvi una manciata di nomi, lasciandoli
liberi di cercare da sé le cose cui aderire, o meglio, lasciando
le cose libere di incarnarsi nel linguaggio.
Raggiungere "l’altro lato della natura" significa andare
al di là della superficie delle cose, di quell’involucro
che le condanna alla fissità, per carpirne il nucleo, l’essenza,
e riconoscervi la nostra:
L’altro lato della nostra natura Fermiamoci
a guardare gli animali imbalsamati / con quelle bocche semiaperte /
e gli occhi fissi in una eternità terribile / (presentirono il
colpo, c’è da credere) che è / come una specie di
presente che non muta / in cui svuotato il dentro / resta il di fuori
della cosa, un’immortale / buccia del vivente, un esemplare /
artigianale di carcassa. / Inoltriamoci osservando nell’altro
/ l’altro lato della nostra natura / o cultura della caccia che
sia. (La notte salva, inedito)
Così nella seconda parte della trilogia: Distacco alla fine
è questo / folgorato rovello di esattezza. / L’esperienza
restituita nei dettagli / che legano il disordine apparente. / O il
movimento lento dell’occipite, / un lungo sguardo a ritroso /
dato alle cose / che chiedono, / per esserci, / parola (Distacco
in M. Morasso, Distacco, Ed. L’obliquo, Brescia 2000,
p. 24).
Il distacco diviene dunque l’arte di sapersi allontanare
per gettare uno sguardo a ritroso, acuito dall’esperienza,
nobilitando, rilkianamente, le cose, e accordando loro il diritto a
parlare, di sé, e dell’osservatore stesso:
Distacco Ho sempre pensato necessario scrivere
/ qualcosa sull’arte del distacco. / Interrogarmi / e ricordare,
e ricordando, / affidarmi alle parole, / a un gesto estremo di pietà.
In un processo dialettico, il dire le cose, e il contemporaneo dirsi
delle cose, il gesto umano di spargere una manciata di nomi
e quello, cosale e divino, di incarnare i nomi stessi, divengono reciproco
gesto estremo di pietà, insito nel pieno riconoscimento
dell’alterità, nella piena consapevolezza, da parte del
Wanderer, che Scrivere sembra sempre più difficile
/ quasi come quando si dice / è difficile nominare / per esempio
il colore dell’ardesia / la mano che accarezza / la muta speranza
condivisa / l’idea stessa della tradizione / e dietro di lei i
miei passi che ricalcano / le poche orme buone di un secolo / troppo
a lungo tramontato, / già crollato da dentro (memoria,
ivi p. 23).
Per restituire dignità alle cose, per ottenerne il riconoscimento
della propria alterità, occorre che l’immagine,
ovvero la raffigurazione fisica catturata dallo sguardo, nel tempo si
trasformi (ancora rilkianamente) in figura, ovvero in cosa
in sé, concretizzazione dell’essenza mediante un’incessante
metamorfosi:
XIII Pazienza, ci vuole, e il gusto dell’attesa
/ perché le immagini raccolte dallo sguardo / nel ritmo del ritorno
si risolvano / in figure (ivi, p. 27).
2. Bruciarsi a poco a poco dentro il buio. Le
poesie di Vivien Leigh
Il nuovo libro di Massimo Morasso si presenta come una tappa importante
del suo percorso poetico, in cui convergono temi e soluzioni stilistiche
familiari al lettore dalle raccolte precedenti, e al contempo si aggiungono
nuovi stimoli, come l’espediente dell’io lirico fictionale
e la forse ancor maggiore oggettivizzazione del linguaggio, che portano
ancora avanti la ricerca inesausta di Morasso di una di una parola che
sia anche cosa, che aderisca sempre più alle cose, cioè
non si limiti a nominarle, bensì tenti di incarnarle.
Nel suo complesso la raccolta si presenta come un percorso che va dalla
luce all’oscurità, attraverso un incessante alternarsi
di chiaroscuri, a segnare la parabola esistenziale di una donna
d’anima e di pena, che culmina nell’oscuramento della
malattia e della follia.
Il percorso ha inizio nella luce, "una sera d’estate del
'64, in un giorno afoso come il fiato di un estraneo", quando,
mentre "I grandi sono intenti a piccole cose" "dai finestrini
una ragazza insegue la luce (…)" (M. Morasso, Le poesie
di Vivien Leigh. Canzoniere apocrifo, Marietti, Milano 2005).
Anche nelle poesie che seguono domina la luce, una luce intensa, Ci
sono stanze dove il sole esplode (ivi, p. 12). L’occhio del
poeta si sofferma: Le papere la sera / in specchi d’acqua
/ calicanti, la palude / che scintilla fra le lamine / del sole. I topi
/ (…) (ivi, p. 13)
In queste prime poesie c’è un senso di attesa, di quella
pazienza di cui necessitiamo perché le immagini raccolte
dallo sguardo / nel ritmo del ritorno si risolvano / in figure.
E mentre si attende la vita, già si fanno strada i primi
indizi di gelo che portano nomi, cose da dire (ivi, p.
14). La luce comincia a macchiarsi, a contaminarsi, perdendo
la limpidezza dello specchio d’acqua in cui nuotavano le papere,
che s’intorbida, confondendo le figure, anticipando il senso di
non poter restare: Le effimere, l’icona nella stanza, /
le radici che (si dice) penderebbero dal cielo. / Sulle tegole /
crepate in rosso come da dentro / rimbalza i suoi riflessi la campagna
/ oltre la luna e le nuvole e le cose / e questi buffi segni sopra il
muro / puntellato di luce adesso / che il mondo intero è fatto
d’acqua, / è pioggia fitta, inabitabile (ivi, p. 23).
A questo punto alle immagini di luce subentrano l’ombra, che prelude
all’oscurità, il grigio, che sfuma e confonde le immagini
del reale, il senso del mistero, prefigurato dall’immagine minacciosa
del bosco, e quello dell’intorbidamento della ragione (il fango)
che si rapprende attorno alla vita (le foglie) per fagocitarla: (…)
Del bosco si disegna a malapena l’ombra, /
la nebbia sfuma ogni dettaglio, / oltre il cancello foglie si intrecciano
col fango. / (…)
Ecco allora che la scena cambia radicalmente, dall’estate attraverso
il graduarsi dei chiaroscuri, fino al calare del buio, giunge all’improvviso
l’inverno.
Ma è come se fosse stato sempre lì, a minacciare la luce:
l'inverno viene / come un antico assedio che ci chiama / all’obbedienza
di sempre (ivi, p. 17).
La nebbia è ciò che da un lato nasconde e opacizza, dall’altro
svela, ma solo parzialmente, ed è l’elemento dal quale
Vivien Leigh era già emersa all’immaginazione del poeta
ne Le storie dell’aria: (…) A un angolo dai vecchi magazzini
della riva sud /
ci appare il primo ponte, più in là ci aspetta Waterloo
/ con la ragazza dal cappello viola e la borsa di vernice, / ti dico
il fantasma di Vivien Leigh portato dalla nebbia. / Arriva a ondate
brune la nebbia sulle strade, / qualcosa sale in nuvole di fumo. E si
infittisce / il buio oltre gli squarci dei lampioni a Covent Garden.
(…) (M. Morasso, Le storie dell’aria, Ed.
L’obliquo, Brescia 2000, p. 24).
Anche nel Canzoniere, alla nebbia si aggiungono acqua
e buio, che intervengono a spezzare la quiete dello stagno (poco prima
in piena luce), su cui comincia a calare gradualmente l’ombra:
Verso sera incominciava la pioggia / finalmente sul bordo del laghetto,
e sul canneto / cadeva l’ombra degli ontani (…)
La ragazza che cercava la luce è ancora al riparo, avvolta dal
bagliore artificiale della lampada e dal riverbero del fuoco nel camino,
a serbare i nomi delle cose, pur sapendo che ogni suo sforzo sarà
inutile a dire lo splendore di una rosa (M. Morasso, Le
poesie di Vivien Leigh. Canzoniere apocrifo, op. cit, p. 18). Ma
ripetere i nomi delle cose significa sottrarle al silenzio, tenerle
vive, preservarle dall’oscuramento, che tuttavia è inevitabile,
perché la logica dello sguardo viene dall’inverno, viene
dalla realtà esterna, su cui già cala il crepuscolo: (…)
e dentro, nell’alto ardore dei lumi / e del camino c’ero
io, / che mi appuntavo seria tutti i nomi: / delle felci e dei pruni,
/ dell’oca selvatica tardiva, / dei tre bambini con l’ombrello
rosa (ivi, p. 15).
All’interno della casa, e nella mente della donna d’anima
e di pena, si combatte il conflitto tra il reale e l’ideale,
tra la grazia e la condanna riservata alla bellezza e all’amore,
che parevano potersi sottrarre alla caducità, all’avanzare
dell’ombra:
L’inverno è una menzogna, e la mia bocca / che morde
nell’azzurro /
aspetta segni non comuni, / una diversa mano dell’alba che raccolga
/ ogni divelto fiore e questo strazio / renda al miraggio della mia
bellezza / quando l’amore era una favola / e ogni roseto prometteva
lunga permanenza / in quel posto d’estate dove gli anni / sono
per sempre uguali / e se si recita si recita nel sole / e non si cade
mai / e se si cade non ci si fa male (ivi, p. 20).
Nelle poesie che seguono, e fino alla conclusione della prima sezione,
sono ancora le immagini di luce a prevalere, e anche il freddo diviene
luminoso, come quella luce ferita dell’inverno
che si mostra in Le storie dell’aria (M. Morasso,
Le storie dell’aria, Ed. L’obliquo, Brescia 2000,
p. 25).
Così sul laghetto, dove penombra, fango e gelo parevano essersi
insediati, esce nuovamente il sole, e in luogo delle papere compare
un cigno, a simboleggiare il perdurare della bellezza, pur di fronte
all’incipiente calare della sera: Stasera è uscito
il sole: un cigno (Le poesie di Vivien Leigh. Canzoniere apocrifo,
op. cit., p. 23).
Ma il cigno è anche simbolo della metamorfosi incessante che
si realizza nella natura, nelle cose, e nel poeta stesso, che –
nell’identificazione con Vivien Leigh, e al di fuori di essa –
insegue il sogno di una metamorfosi:
Il sogno di una metamorfosi Guardo tutto il verde
oltre la porta / come si guarda, spesso, uno spettacolo / cioè
stando dall’altra parte, / fra il pubblico, in platea. / Mi provo
a esercitare l’attenzione / sui dettagli, registro, per esempio,
i chiaroscuri / visibili sull’erba sull’invisibile groviglio
che sta sotto, / e appunto ciò che chiamo, per adesso, l’ansia
dei pini, / condenso in un’idea l’informe / cupola del tozzo
albero nano dei vicini, / ma mi accorgo che in realtà non mi
interessa / l’erba in sé, / né il singolo elemento
di quel verde, / e neppure l’insieme che mi chiama / a nominarlo.
// Guardando /
Inseguo il sogno di una metamorfosi / che sconquassa il mio corpo in
verticale / precisamente come il filo d’erba sotto il sole / a
malapena dritto, a quanto vedo, dentro il verde. (La notte
salva, inedito)
Il sogno della metamorfosi viene dal desiderio di congiungimento con
le cose, di fusione in esse, nel tentativo di uscire dal ruolo di spettatore
che sta dall’altra parte delle cose, per dvenire parte della scena,
e dalla consapevolezza dell’impossibilità di nominare l’informe,
ciò che costantemente soggiace a una segreta metamorfosi, che
la rende altro dalla manifestazione empirica della realtà a noi
accessibile: (…) come potrei non dico nominare /
ma anche soltanto immaginare questi / quattro ciottoli che portano al
rifugio / gli argini il pontile la cascatella il masso / o le altre
cose viste per un attimo / in quell’intensa voluttà che
sento / appartenermi più del cosiddetto vero. (La notte
salva, inedito)
Con l’allontanarsi dell’inverno chissà perché
le pietre danzano col sole (ivi, p. 24). Anche la primavera
ha lavorato a scolpire l’aria: / ora le foglie hanno strani bagliori,
le api impazzano / e forse basterebbe così poco / per sentirci
felici (ivi, p. 28).
L’ape, nella poesia di Morasso, simboleggia l’estrema libertà
di movimento, la possibilità di fruire fugacemente della bellezza,
la repentina e intrinseca mutazione, la possibilità di dissolversi
e svanire nella luce:
Duplice è la natura dell’ape / che tra un istante e
l’altro può scartare /
correre lungo fili invisibili / come deve da una rosa a un’altra
rosa / ormai figura del lontano o quasi / sa nascondersi dentro bolle
di luce / nell’azzurro dei cieli che bisbigliano (M. Morasso,
Nel ritmo del ritorno, Ed. L’obliquo, Brescia 1997, p.
45).
È del rianimarsi della natura dopo l’inverno che lo sguardo
si nutre, mentre l’osservatore si riconosce nell’opera della
natura, e vi si dissolve e consuma: Mi sento viva, felice / Rimarrei
per secoli a fissarle, come una che vede / sé da un qualche altrove
/e resta lì, invisibile, a guardare / l’opera del mondo
/ bruciarsi a poco a poco dentro il buio (Le poesie di Vivien
Leigh. Canzoniere apocrifo, op. cit., 29).
Bruciarsi piano, nel buio, avvertendo il proprio consumarsi: è
questo il destino di Vivien Leigh. E bruciarsi non significa morire,
bensì abbandonarsi alla consunzione di un sentire che accende
di una luce potente un cuore condannato per sua stessa natura all’inferno
della passione per la vita, che consuma se stessa di un ardore che chiede
l’annientamento dell’io nell’oscurità, affinché
esso possa risplendere: (…) Io non riesco a sognare / oltre
la nostra piccola notte / e tu lo sai che questa, sulla terra, / è
la mia sola triste eredità: / un cuore all’inferno, / un
orizzonte che consuma spalancato in nessun luogo (ivi, p. 34).
La parabola esistenziale di Vivien Leigh è segnata da una continua
metamorfosi, prefigurata anche dal suo mestiere di attrice, che la porta
a impersonare ruoli sempre differenti, donando loro una parte di sé,
e al contempo assumendo qualcosa di altro: O, invece, / recitare
Blanche. Tutta la scena / della lampada, il terrore, quel modo // già
sommerso di guardare. / Quando dice perché, / vi supplico, sono
solo una bambina / piccola e ho paura. // La mia bocca, e la memoria
che confonde le figure. / Oppure, dopo, quando riesce a pensare di dire
/ non andartene, bellezza, non tenere / lontano l’amore. Nessuno
/ mi conosce. Più buio. // Ma adesso la mia bocca è inquieta
/ e le parole ormai sembrano suoni / raggianti che mi ascoltano
(ivi, p. 38).
Impersonare tanti ruoli, lasciarsene "impregnare", a tratti
contaminare, la condanna ad una sorta di finzione, ad un buio che nasconde
la vera identità, confondendo identità e personaggio,
al punto da renderli inscindibil e ugualmente inconoscibili. Soltanto
bruciando nel buio, consumandosi nel dolore inteso come essenza vitale
del sé, Vivien può arrivare a
identificarsi e riconoscersi: (…) Non c’è pace
in questa metamorfosi /
e dove cresce in me il dolore / incontra come in sogno un’altra
immagine / di sé, più vera (ivi).
La metamorfosi, vissuta nell’impersonare mille volti e mille ruoli,
porta paradossalmente a smarrire la propria identità, ad essere
soltanto passione che muove, e dolore: Blanche sono io. Cioè
un nessuno / che pure ha amato: follia / che stringe in me il dolore
/ di altra vita. Guardo / la schiribilla e i cigni inzaccherati / in
mezzo al fango e non so dire / se al verde clima un giorno sciameranno
/ nel giardino che odora di lillà… (ivi, p. 40)
L’immagine del cigno nel fango del laghetto non è nuova
nella poesia di Morasso, e simboleggia da un lato il succedersi delle
stagioni della vita, percorse dalla metamorfosi come principio disgregante
e al contempo uniformante, l’avvicinarsi dell’inverno e
della follia, il contaminarsi della bellezza e la perdita dell’amore
(come principio assoluto) cui essa è congiunta, ma anche la piena
identificazione dell’io lirico con la voce di Viven Leigh: (…)
la metamorfosi / è incessante, non lo senti?, buca stagioni e
stagioni: / adesso sono il cigno in mezzo al fango del laghetto / e
fu un miracolo, ti giuro, tipo la Dafne di Bernini… (La
notte salva, inedito).
Mentre la metamorfosi si compie, portando il corpo verso la dissoluzione
che prelude alla fusione con la luce (l’assoluto), le parole si
distaccano dal loro senso, non lasciando di sé che un vuoto involucro,
l’inverno e il buio conquistano sempre più spazio all’interno
e all’esterno della donna, che tuttavia continua a cercare la
luce: Io sillabo parole / senza peso questa notte / converto in
aria il corpo e spargo / le mie membra al firmamento. Nel vino / che
trabocca dal bicchiere / vedo riflettersi la luna / in piccole corone
sfavillanti / e non riesco a dormire (ivi, p. 41).
Da questo punto in poi le immagini di buio si moltiplicano, l’oscurità
si espande, fagocita la realtà esterna, strappa l’io da
se stesso: Quando la notte è la notte non riesco più
a dormire, / (…) / Quando la notte è la notte
sento le cose scomparire / e sento me inseguirmi come un matto / che
ha perso il suo coltello, e non sa più chi insegue (ivi
p. 43).
Festeggiando il suo male come un’epifania, l’io
ha raggiunto l’altro lato delle cose, dal quale si spia con occhi
altrui, con occhi di dolore e di follia che prelude al silenzio e all’ottundimento
delle passioni:
Ne ho visti, all’ospedale /
(…) /
Mi ricordo di certi /
che infuriavano come uno sciame di insetti /
dentro agli occhi, /
spiavano ottusamente /
me dalla parte chiara del vetro, /
senza più parole (ivi, p. 44).
Ma il silenzio, la sospensione della ragione è anche condizione
a che l’io si annulli del tutto, divenga cosa, che comunica con
le cose nella loro lingua, impercettibile alla ragione.
Dopo aver assunto mille volti che non le appartengono, Vivien si osserva
avanzare verso l’ignoto, si osserva come una sconosciuta che abbia
perduto ogni contatto con la realtà consueta. La torturante nostalgia
della luce, dell’infinità del cosmo, crea una rispondenza
tra l’animo che arde nella metamorfosi e l’immensità
dell’universo. Una piccola coscienza si oppone alla distanza
e all’oscurità, e al contempo teme il silenzio che avvolge
lo spirito al di fuori della concretezza del corpo: Ho bisogno di
cosmo questa sera / la mia nostalgia è un abito infernale / quali
saranno le prossime frontiere / della mia costellazione più intera
mi chiedo / se dentro al cuore il mondo si genera e compone e cresce
/ annullando distanze, sfidando baratri i buchi neri i quasar / Larry
mi affido alla mia piccola coscienza / ma sulle strade del silenzio
ho paura di incontrarmi / nell’ampio dove i corpi mancano ai corpi
/ e c’è una sconosciuta che avanza nel terribile (ivi,
p. 49).
Ma la donna che cerca la luce non si arrende all’oscuramento del
dolore e della follia, al precipitare della metamorfosi nella dissoluzione
del sé. In lei c’è una forza che vuol tornare
a esistere (ivi, p. 51), e cerca un finale guizzo liberatorio:
Non mi rassegno al pensiero della notte / la mia dissoluzione il
mio / non esserci / Dal fango del laghetto / ho visto alzarsi in volo
un’anatra. / Dietro alle canne / sentivo correre i miei cani,
ansanti. / Luce, luce (ivi, p. 52).
Il sogno della metamorfosi non si spegne nel sonno della coscienza,
ma proietta nel futuro la possibilità di assumere nuova forma
e nuova vita, come le stelle che cadono verso un ignoto buio: Non
ho atteso nessuno, / e la notte è la notte, / una coscienza che
frana. / Ma verso dove cadono / le stelle, a quale sogno d’alba
/ affidano la terra, / e con la terra un’altra me, / disfatto
anemone pulsante / che torno ogni mattina a nuova vita / tutto accogliendo,
tutto a un nuovo giorno / rimettendo (ivi, p. 53).
Finché Vivien da disfatto anemone ancora pulsante
di passione è costretta ad abbattersi sfinita, mentre la luce
stessa, pur non spegnendosi, diviene dolente, impotente di fronte all’estendersi
del buio: Viste da sotto le stelle / sembrano mani, piaghe dell’aria,
finestre / da spalancare. La sofferenza / delle lucciole, della lanterna
in cui balugina il cristallo / dove s’abbatte, sfinita, una falena
(ivi, p. 54).
Resta a Vivien un cadere nel buio, anche se in lontananza la luce si
tiene salda, resta in in lei la consapevolezza di non essere destinata
al silenzio, che ogni nome ha da cercare ancora la sua lingua
(ivi, p. 57), che restano parole cui aggrapparsi, nell’urgenza
di Esistere. Testimoniare, perché Non / si va molto
lontano col silenzio (p. 53). Occorre dunque abbandonarsi alle
parole e alla fiducia nel linguaggio, lasciarsi scivolare lungo
le parole, come se potessero tenere lontani il buio e il silenzio
che inghiottono la luce, pur nella consapevolezza che il desiderio d’infinito
opposto all’orrore del buio resterà comunque insaziabile
e inesauribile: Qualcosa sta cadendo nel buio, / sarà il
traghetto con la gente appesa alle ringhiere, / la linea della costa,
il faro, un’altra cosa salda, / lo strepito del vento / in questa
notte di un perso novecento che dilaga / sibilando dentro le parole
/ come se potesse scivolare / felicemente lungo le parole / e viaggiare
dentro a una natura bambina / stretta alla spola dei versi / (Fosse
capace a estinguere l’orrore / non le basterebbe estinguere l’orrore.)
(ivi, p. 55).
Chiara De Luca
ha pubblicato con noi La
collezionista e una silloge nella Coda
della galassia.
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Due poesie
di Giuseppe Callegari
Il bagliore di una voce
L'urlo di un sorriso
Terra mossa che illumina il cielo
e oscura il cammino
Colibrì inconsapevoli.
Architetti del mare.
Passi ineluttabili.
Mete irraggiungibili.
Confini oltrepassati.
Speranza onnipotente
di nascodnere il già perso.
***
Ciak 1: Primo piano
Una Mela
Bella
Invitante
Vestita di rosso
Sgargiante
Ciak 2: Dettaglio
La buccia riposta
Macchie gialle
Messa a fuoco solarizzante
Cancro metastizzato
Bisturi impotente
Ciak 3: Controcampo
Un uomo
Luci accecanti
Fiori su sepolcri di assenze
Ipocrita e disperata illusione
di un corpo morente.
Giuseppe Callegari
ha pubblicato con noi L'amore
si sporca le mani e Messa
a fuoco manuale.
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