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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero
57
Settembre 2004
Editoriale:
La politica non è solo economia
Sembrano essere più anonimi di un tempo gli statisti.
Con il crollo delle ideologie anche i politici (ma anche gli anonimi
membri di movimenti e associazioni che sembrano perseguire solo "uno"
scopo) sembrano essersi accantucciati in un particulare privo di eccessive
ambizioni. Sembra che si vada avanti per inerzia, attenti più
al piccolo cabotaggio che alle questioni di impatto generale, forse
ormai al di fuori del "controllo" dei politici, almeno a livello
della singola nazione. Eppure la deontologia di un uomo o donna che
si dedica alla politica dovrebbe spingerlo/a fuori dal guscio, per dare
ai cittadini prospettive nuove, meno anguste, e per aiutarli a sentirsi
parte di una comunità più grande dei confini amministrativi.
La politica dovrebbe tornare ad essere il non-luogo dell'utopia, cioè
di un progetto da attuare, anche se magari non ci si riuscirà
completamente, con l'entusiasmo di chi si dedica a cose grandi. In questo
Faranews abbiamo raccolto alcuni scritti "politici" in senso
lato perché ci parlano (magari con ironia) dei piccoli grandi
problemi che ci assillano nel quotidiano ma con un occhio attento alle
più ampie e sottese questioni del rapporto individuo-società.
La letteratura può difficilmente dare soluzioni politiche, ma
può fornire analisi utili ad interventi politici. Questo Faranews
ci propone: un racconto sui lavori estivi di Fabrizio Bolivar,
un breve saggio su creatività e desiderio di Caterina
Camporesi, due poesie di Adeodato Piazza Nicolai,
un intenso scritto postbellico di Drazan Gunjaca, due
riflessioni sul carcere di Vincenzo Andraous, due poesie
di Bianca Giocolieri, una di Antonio Valeriano
Pulimanti, e alcuni siti. Vi ricordiamo i concorsi
per racconti e poesie Pubblica
con noi e IIIM
(quest'ultimo con la nuova formula che prevede l'invio di un brevissimo
racconto a cui abbinare una poesia di max 12 versi) e l'uscita del reportage
filippino del grande poeta Gezim
Hajdari.
Come
l'inferno
di Fabrizio
Bolivar
Mi appiopparono quattro insufficienze e mi bocciarono
senza pietà. Lì per lì la cosa non mi disturbò
granché, in compenso disturbò i miei. Se vuoi andare al
mare devi guadagnarti i soldi, mi dissero in coro. A quel punto la cosa
iniziò a disturbare anche me.
Il giorno dopo presi la mia bicicletta e andai a cercare lavoro nei
campi. Presentati qui domani mattina alle sette in punto, mi disse un
tizio con un ventre da balena e con gli stivali di gomma. Sarò
puntuale, gli dissi. Il lavoro consisteva nel raccogliere cocomeri in
un campo e lanciarli ad un tizio che, dal rimorchio di un trattore in
movimento, li prendeva al volo e li sistemava in casse.
Alle sette in punto ero alla cascina. Il tizio con il ventre da balena
era già sul trattore, altri due uomini erano seduti sul rimorchio.
Salii anch'io e partimmo per il campo di cocomeri. L'inferno non poteva
esser tanto diverso. Sollevai il primo cocomero e lo lanciai senza sforzo.
Un giochetto da ragazzi, pensai. Il terzo era già più
pesante, il decimo era un cocomero di piombo. Alzai lo sguardo verso
l'orizzonte, ce n'erano ancora un milione di miliardi, di cocomeri da
alzare, ed erano le sette e trenta del mattino. Puttana troia, cosa
cazzo ci faccio qui? mi chiesi. Verso metà mattina ero clinicamente
morto: le braccia, la schiena e le gambe erano diventate insensibili,
come se appartenessero ad un altro corpo. La vista mi si appannava e
il cuore mi batteva nelle tempie. Alzai lo sguardo verso l'orizzonte,
ce n'erano ancora un milione di miliardi di cocomeri da alzare. Vacca
merda, andate a fare in culo angurie del cazzo! dissi a denti stretti.
Dopo una mezz'ora mi si presentò davanti il cocomero più
grande che avessi mai visto, una specie di supermegacocomero obeso venuto
dallo spazio o da chissadìo dove. Non sarei stato in grado di
spostarlo di un millimetro nemmeno facendo leva con un palo. Feci finta
di niente, raccolsi quelli più piccoli lì attorno e proseguii
lasciandomi alle spalle quel cocomero da un quintale. Dopo qualche metro
il trattore si fermò, il tizio con il ventre da balena si voltò
e mi disse Senti un po', ma quello lì non lo carichi? Quale?
chiesi all'ombra del cocomero gigante. Quello lì dietro di te,
il più grande, disse lui. Ah, dissi io, non l'avevo visto. Tutti
si misero a ridere.
Il giorno dopo mia madre mi svegliò alle sei e trenta. Io ero
supino e immobile, completamente imbalsamato dalla fatica. Quando realizzai
che mi attendeva un altro milione di miliardi di cocomeri da alzare,
misi in pratica il mio vecchio piano: lasciai scivolare la lingua in
un angolo della bocca e piegai leggermente la testa sulla spalla. Muoviti,
mi disse mia madre, e smettila con questa messa in scena dell'ictus!
Puttana troia, era da quando avevo sei anni che cercavo di ingannarla,
ma vigliacco se c'era cascata una volta.
Mamma, voglio morire, le dissi chiaro e tondo fissando la scodella piena
di latte. Non dire scemenze, disse lei. Tu non sai che razza di cocomero
ho visto ieri, le dissi, era grosso come un baule, mamma, renditi conto,
la campagna è un posto terrificante! Un po' di fatica non ti
farà certo male, disse lei. Mamma, rassegnati, tuo figlio non
è portato per l'agricoltura, le dissi. Promettimi che non mi
spedirai mai all'ospizio, disse lei cambiando tono. Te lo prometto,
le dissi. Non è che non voglio crederti, ma per sicurezza firma
lì, disse lei indicando un foglio già compilato sul tavolo.
Io firmai senza indugio e tornai a letto.
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Creatività
come trasformazione del desiderio
di Caterina
Camporesi
La psicoanalisi, avendo come campo di indagine la dimensione inconscia
e misteriosa della psiche umana e del suo funzionamento, si è
rivelata particolarmente idonea ad occuparsi di quella che fra la funzioni
umane è la più interessante: la creatività. Freud,
consapevole del contributo che la psicoanalisi poteva dare alla comprensione
della creatività artistica, nel 1930 in occasione del ricevimento
del Premio Goethe, così si esprimeva: "La psicoanalisi può
apportare chiarimenti che non è possibile ottenere per altre
vie e mostrare così nuove connessioni nella trama meravigliosa
che si stende tra le disposizioni pulsionali, le esperienze e l'opera
di un artista."
Il processo di creazione, tuttavia, è un processo complesso ed
intricato dove entrano in gioco molteplici fattori e non si può
pretendere che l'approccio scientifico conduca un'analisi esaustiva
del suo funzionamento. Freud consapevole dei limiti della scienza da
lui avviata riconosce "alla poesia e all'arte in genere un fascino
al quale è bene arrendersi, e agli scrittori e agli artisti un
sapere che anticipa quello della scienza".
Freud si mette al riparo da qualsiasi critica di banalizzazione e di
riduzionismo, quando considera gli artisti degli alleati: "essi,
dice, sono degli alleati, essi sono soliti sapere una quantità
di cose fra cielo e terra che la nostra sapienza scolastica neppure
si sogna (...), poiché attingono a fonti che non sono aperte
alla scienza."
Abbiamo un Freud che si dichiara apertamente sedotto dal piacere estetico
e quasi arreso al mistero della creatività. Quasi arreso appunto,
perché poi egli si avvicina intorno a questo mistero.
Si avvicina con gli strumenti che ha a sua disposizione e in qualche
modo fa un'analisi e dà una spiegazione del processo di creazione.
La creatività è il risultato di un processo di sublimazione,
che ha alla base la rimozione delle pulsioni sessuali infantili ed ha
una dimensione individuale. Mentre per Jung la dimensione è collettiva.
Dobbiamo all'inventore della psicoanalisi la scoperta che il pensiero
si avvale di due processi, quello primario e quello secondario. Il primo
utilizza l'energia libera, non conosce le categorie di spazio e tempo,
ed è governato dal principio del piacere, e quello secondario
che usa energia legata e sottostà alle leggi della grammatica
e della logica, essendo governato dal principio di realtà.
La creatività è il perfetto impasto dei due processi.
Quando la creatività di un artista raggiunge un certo grado di
qualità, acquisisce un suo inconfondibile segno, un marchio che
lo distingue da tutti gli altri, questo marchio lo chiamiamo stile.
"Lo stile è l'impronta di ciò che si è in
ciò che si fa," dice con una definizione felice René
Daumal.
Lo stile è il punto d'arrivo di un lungo e laborioso processo
di trasformazione. Ma quale è la materia prima da trasformare?
È l'energia, la forza istintiva, la pulsione sessuale, la libido.
La creatività che diventa arte è il risultato di un lavoro
psicologico che l'artista compie al suo interno. Questo lavoro comporta
un incontro e scontro di forze: quelle innovative e quelle conservatrici.
Il processo creativo per svolgersi ha bisogno della disposizione a costruire
come quella di distruggere, di unire e disunire, di rimuovere e di fare
emergere. La creatività permette all'autore di deporre nel testo
le tracce di quello che egli è attraverso un infinito gioco di
travestimenti, trasferimenti, di trasgressioni, di negazioni, di allusioni,
ecc…
Ogni artista ha il suo modo peculiare di trattenere, organizzare e trasformare
la sua energia e i suoi desideri.
Per non perdere tuttavia né lo statuto della comunicazione né
quello dell'originalità, deve sottostare a dei limiti, che sono
quelli di non avvicinarsi troppo alla lingua naturale della comunicazione
comune e cadere così nell'anonimato del banale ma non allontanarsene
neanche troppo per non rimanere confinato nella dimensione privata o
addirittura autistica.
Dice Goethe: "L'uomo non può trovare nascondiglio migliore
che l'arte come non può trovare elemento connessione con il mondo
più forte dell'arte."
La parola ha la capacità di contenere l'ansia e allo stesso tempo
riesce a rappresentare idee fortemente investite d'affetto e di desiderio.
Senza trasformazione non può esserci arte; la metamorfosi è
la legge della vita.
Non c'è letteratura senza artifizio e finzione e come dice Pessoa:
"Il poeta è un fingitore. Finge così completamente
che arriva q fingere che è dolore il dolore che prova."
Lo stile rende un servizio alla comunicazione, spostando e trasportando
ciò che è soggettivo e privato dai piani bassi a quelli
più alti attraverso l'utilizzo di processi di trasformazione
sempre più elaborati e sofisticati.
Questi processi hanno ha che fare con la capacità di contenere,
di incanalare, di censurare, di spostare, di elaborare le pulsioni istintive,
i desideri. L'energia non può restare chiusa al nostro interno
né uscire di getto nel mondo esterno senza provocare danni nell'uno
e nell'altro caso. Pertanto le funzioni atte ad arginare, ad imbrigliare,
a frenare l'energia sono indispensabili.
Dice il poeta Auden in una sua composizione: "Benedette tutte le
leggi metriche che vietano risposte automatiche: ci costringono ad una
riflessione, liberando dalle pastoie del Sé."
Caterina
Camporesi è nata nel 1944 a Sogliano al Rubicone (Fo). Svolge
attività di psicoterapeuta e vive tra Rimini, la Garfagnana e
Roma. Ha pubblicato tre raccolte di poesia (la più recente, Duende,
con Marsilio) e collabora a riviste con recensioni e saggi inerenti
ai rapporti tra creatività e psicoanalisi.
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Sonetto,
all'aperto - Satura
di Adeodato
Piazza Nicolai
Sonetto, all'aperto
mentre mangiavo pane e gorgonzola
una mosca forse golosa s'è appollaiata
sulla mia mano. L'aveva attirata un
profumo smoderato? Non credo, non so.
Può darsi sia stato soltanto il destino
ad incrociarci. Mi sento indelebilmente
ignorante di quella magia magnificata dal canto
di un cardellino che arresta il mio pranzo.
L'indecifrabile sua melodia
cancella per sempre le mie parole maldestre,
meschine. Come trascrivere il vento, la notte
le mie Dolomiti? Dovrei cancellarle, ma
qualche forza mi piega, mi spinge.
Sapessi almeno sillabare una preghiera...
(Vigo di Cadore, 12 agosto 2004 – ore 19,20)
Satura, ancora
Piove, sgocciola dentro il mio sangue
la bipolare tristezza senza misura
senza confini. Mi schiaccia come una mosca
sotto il suo pugno. Non so cosa fare.
La lotta infuria ogni minuto, distrugge
il coraggio. Non intravedo il minimo raggio
e dispero. Perché questa notte infinita
senza riposo? L'orrore infierisce, la fine
mi opprime eppure ancora incalza la vita.
Eppure non basta l'oltraggio del merlo
che scivola dentro la nebbia, e la mia
rabbia ingabbia un frammento di sole
sfuggito alla morsa del temporale. Non
m'è tanto dolce quel tuo naufragare,
voglio la sopravvivenza: infelice
inattesa e più dura dell'onnipresente
dolore. L'arsura sembra più grassa
se sai tollerare l'arcigna frattura.
(Vigo di Cadore, 13 agosto 2004 – ore 8,35)
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Petar
di Drazan
Guniaca
“Si dice che l'uomo sia stato creato a immagine
di Dio, che Dio lo abbia creato a propria immagine... ma l'uomo
gli ha restituito quest'immagine...” (Voltaire)
Petar non è mai stato parte della media, per quanto
questo termine di tanto in tanto possa variare in questi luoghi aspri
dei Balcani. Da ragazzo era uno degli alunni migliori, uno dei pochi
che potevano imparare qualsiasi materia con facilità, ma era
anche un bambino molto timido. Dicevano che era perché i genitori
avevano divorziato molto presto e lui fu tirato su dalle nonne e da
altri familiari vicini o lontani. Finì il liceo e poi l'università,
e poi arrivò la guerra. Si arruolò volontario per difendere
il proprio paese, almeno così si dice, anche se alcuni dicono
che una notte, in un momento di disattenzione l'hanno semplicemente
portato via e gli hanno fatto indossare un'uniforme. Stranamente,
in guerra è stato persino decorato con alcune medaglie al valor
militare: un fatto che, mano sul cuore, nessuno si sarebbe aspettato.
Dopo la guerra lo stato ha rinunciato ai propri eroi e cavalieri in
fretta, e lui ha finito per ritirarsi in sé stesso sempre di
più. Poco tempo dopo, all'alba di una triste giornata d'autunno
nel monolocale al decimo piano del condominio malridotto in cui viveva
e dal quale non era uscito per giorni, eseguì da solo la propria
sentenza. Con uno sparo alla tempia.
Conoscevo Petar da tutta una vita, e lo ricorderò per le parole
della sua lettera d'addio che, con mia costernazione, è
arrivata nella mia cassetta della posta alcuni giorni dopo il funerale.
L'ho girata tra le mani per dei giorni cercando il momento giusto per
leggerla. Non esistono tali momenti per lettere del genere.
« Caro amico,
La prima cosa che mi viene in mente sono le parole di Svjetlana Alilujeva,
la figlia di Stalin, che considerava l'amicizia una pazzia e un
male, un fenomeno che è un peso ed un danno per le persone. Mio
Dio, è spaventosa l'influenza dell'ambiente, in questo
caso del suo caro papà. Ho visto mio padre solo un paio di volte
e, a quanto ricordo, non aveva un'opinione precisa al riguardo.
Almeno non si era mai espresso pubblicamente, anche se da alcune sue
reazioni e pensieri si poteva capire che non era poi così lontano
da Svjetlana. L'amore succede, le amicizie si creano, diceva sempre
mia nonna defunta. Con molta fatica e dal nulla. L'amicizia è
una di quelle rare perline preziose sulla collana spinosa chiamata vita,
piena di ostacoli, difficoltà e ansia, che ogni giorno più
stretta, preme gli spini sempre più profondamente nel tuo tessuto
indifeso. Le amicizie aiutano affinché non si stringa completamente
e non ci soffochi…
Sono stato in guerra. A prima vista suona così superficiale e
patetico. Le guerre sono superficiali e patetiche nella loro essenza,
denudate da grandi parole ed idee. In guerra mi sono fatto un paio di
amicizie. Oneste e profonde. Gli amici non ce l'hanno fatta, ma
le amicizie sì. Gli altri, risparmiati dalla guerra, sono stati
travolti dalle dificoltà della pace. Che ironia, non trovi? Queste
amicizie. Superano tutte le difficoltà della guerra, persino
la morte, ma non ce la fanno quando arriva la pace. Qual è il
segreto dell'amicizia? La paura? Di che?
Ricordi quella volta che ho passato due mesi in prigione per aver involontariamente
ucciso un civile? Te lo ricordi, naturalmente, mi hai difeso in tribunale.
Alcuni sostengono che non ci siano omicidi involontari, e se ci sono,
non si trovano sicuramente in guerra. Forse hanno ragione. Due mesi
in cella con una lampadina sporca sempre accesa, dove anche quel minimo
collegamento con la realtà si perde sotto quella luce fioca,
mi hanno liberato da tutte le paure. Allora ho capito per la prima volta
cosa vuol dire essere in balia del destino. Solo, senza visite, senza
amici… Fu lì che ho finalmente perso me stesso. O almeno
quello che è rimasto di me dopo la guerra. Qualsiasi cosa sia
stato.
Dopo ho tentanto di adattarmi, di socializzare. Adattarsi significa
individuare le esigenze della società in cui vivi e coordinarle…
Ho capito molto presto che non sapevo a cosa dovevo adattarmi. Quali
erano questi valori sociali ai quali avrei dovuto adattare il mio mondo
interiore? Nella Costituzione di ogni paese, quindi anche nella nostra,
si scrive chiaramente nell'introduzione di quali valori si tratta.
Ho tentato di riconoscerli nella realtà e mi sono ritrovato in
una zona oscura. Ho trovato senza problemi altri "valori"
di cui nella costituzione non si parla. Ho rinunciato alla Costituzione
ed ho preso la Bibbia. La fede. Devi pur credere a qualcosa, non è
così? Dopo la seconda lettura ho finalmente capito che il problema
non è nella mia alienazione individuale, nel mio mancato adattamento,
un fatto che molti mi hanno rimproverato per tutta la vita, ma bensì
nel fatto che semplicemente non ho più niente a cui adattarmi.
È stata proprio questa realizzazione, assieme a quello a cui
sono riuscito ad adattarmi, a portarmi a questa lettera. Chi l'avrebbe
mai detto che tutto questo poteva essere così logico.
Il tuo amico Petar
P.S.
Probabilmente ti starai chiedendo perché l'ho mandata proprio
a te. Una volta mi avevi detto che quella mia cartella era ancora aperta.
È arrivato il momento di chiuderla, finalmente, ed io cercherò
di spiegare a qualcun altro come e perché ho sparato… Anche
se non ci riesco, lì dove sono diretto il perdono non è
una pena come qui.»
Con mano stanca ho scritto a/a sulla cartella e vi ho
messo dentro la lettera. Poi ho preso la lettera, la Costituzione e
la Bibbia ed ho portato tutto nello stanzino dove tengo le cartelle
archiviate e dove vado raramente. Siano almeno loro a riposarsi un po'
da me, giacché io non riesco a riposarmi da loro.
Drazan Gunjaca
(1958, Croazia) è autore di numerose opere contro la guerra,
di cui le più conosciute sono il romanzo Congedi
Balcanici ed il dramma Roulette
balcanica, tradotti in molte lingue e vincitori di numerosi premi
letterari.
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Una
fune sull'abisso
di Vincenzo
Andraous (responsabile Centro Servizi Interni
Comunità Casa del Giovane, Pavia)
Inutile nasconderlo, la prigione non riesce a piegarsi
a nessuno scopo sociale condivisibile, essa sequestra i bisogni-desideri,
e stabilisce quando questi debbono essere soddisfatti, persino decidendo
quando e dove sarà possibile realizzarli.
È in questa dinamica che la mente finisce in un anfratto remoto,
in un angolo dove non è più possibile vedere niente.
Penso che fino a quando non si comprenderà che in carcere si
va perché puniti e non per essere puniti, questa non dimensione
spingerà il detenuto privato della libertà a sedersi a
tavola con la morte, decidendo di guardarla in faccia e sfidarla. Senza
però tenere in considerazione che la morte quasi sempre vince.
È una prova questa, che indica la paura del potere della morte,
ma ugualmente il carcere continua a rimanere un luogo non autorizzato
a fare nascere vita nè speranza, non rammentando che l'uomo privato
della speranza è un uomo già morto.
Momento dopo momento, giorno dopo giorno, anno dopo anno, in compagnia
del solo passato che ricompone la sua trama, e passato, presente e futuro
sono lì, in un presente che è attimo dove non esiste futuro,
e allora riconoscere i propri errori è un'impresa ardua.
Le analisi sistematiche a questo punto servono poco, per rendere più
umano l'inumano: dalla mia ridotta specola sono più propenso
a credere che occorre convincersi dal di dentro, della possibilità
di raggiungere dei traguardi e degli obiettivi, per ritornare a volersi
un po' bene, per riuscire a essere persone e non solo numeri usati per
la statistica.
Finché i ragionamenti saranno un'estensione degli atteggiamenti
negativi, le rappresentazioni mentali si trasformeranno in eventi negativi.
Il carcere è ancora, ancora e ancora quello che ben sappiamo,
ma chi vive in quest'agglomerato umano ha il diritto-dovere di ritrovare
fiducia in se stesso e negli altri, e ci riuscirà solamente comprendendo
che l'intorno non parla, perché noi non parliamo, e peggio non
siamo capaci di aprirci.
Eppure gli altri sono i mille pezzi che a noi mancano, che a noi sono
sempre mancati, e finchè noi continueremo a pensare di sopravvivere
senza il bisogno dell'altro, nel lungo tempo ci ritornerà questo
annichilimento con la stessa intensità e precisione.
Ciò che noi diventeremo è ciò che ci siamo incisi
nella mente, l'immagine di noi stessi che ci siamo costruiti si riprodurrà
con un fatto concreto.
Ecco perché sono dell'idea che finchè il carcere, ma meglio
dire tutto il consorzio sociale, non si attiverà consapevolmente
con il suo interessamento produttivo e non pietistico, e non si predisporrà
ad aiutare chi è nell'errore a ritenersi capace di essere in
costante e continuo miglioramento, ebbene, questa indifferenza e questo
disinteresse collettivo continuerà a seppellire quei “dettagli”
che invece servono per migliorarci tutti.
Quel cappio al collo (a Sulmona)
Qualche tempo addietro scrissi dei tanti suicidi e dei troppi silenzi
che circondano il carcere… Ricordo la risposta indifferente.
Mi sono chiesto spesso qual è il volto nascosto dietro le righe
di una notizia. Qual è il volto e la storia dell’ultimo
uomo scivolato in “scacco matto” in un carcere.
Quanto quest’ennesimo suicidio risarcisce in termini di umanità,
al di là della mera notizia?
Penso a quell’uomo, l’ultimo della serie che s’è
impiccato o asfissiato. A quel volto, a quel cappio al collo, e intravedo
l’importanza di demolire i ghetti mentali, di per sé espressione
di quello spirito umano… spesso incatenato.
Non conosco il volto strozzato in quel carcere, ma comprendo la difficoltà
dell’accettazione del dolore, il che in una parola sottenderebbe
assenza di saggezza.
So bene quant’è difficile agguantarne l’orma, e quanto
a volte ciò sembri lontano, sebbene così straordinariamente
vicino, al punto da non vederne neppure l’ombra.
In un carcere è difficile perforare quella superficialità
che è corazza a difesa, il “muro di niente” contro
cui cozziamo e moriamo.
È davvero difficile raggiungere quella falda profonda a nome
interiorità, navigando tra anse e anfratti, scogli e derive per
arrivare a quell’essenza che può dirci di cosa siamo capaci,
e addirittura svelarci il significato da dare alla vita.
Nei riguardi del carcere non credo che tutto ciò che vi accade
sia arbitrario, illegale, ingiusto, forse è solo il risultato
del nulla prodotto, appunto, per mancanza di un preciso interesse collettivo
o meglio della sua comprensione sensibile.
Forse sarebbe il caso di ripensare davvero alla possibilità di
un carcere a misura di uomo, anche dell’ultimo degli uomini.
Perché in carcere, oltre alle ben note etichette, stigmatizzazioni
e umiliazioni, va di moda la flessibilità, non quella
del lavoro né della pena: umana, dignitosa, condivisa.
Si tratta di flessibilità nel risolvere i problemi endemici che
soffocano l’ Amministrazione Penitenziaria, la quale pare muoversi
come la nostra evoluta società, che cresce, si educa, si realizza
pari passo con l’imbarbarimento dei sentimenti e dei valori, scambiati
per medaglie e successi da conseguire a tutti i costi.
In galera ci si perde per sempre, perché è un luogo
separato davvero, da una società che corre all’impazzata
al supermercato delle suggestioni, degli ideali venduti a buon prezzo,
della fede che non è amore che libera, ma fatica di pochi momenti.
In carcere è morto un altro uomo? I mass-media hanno sparato
a zero sul sistema, hanno detto che si è suicidato, per l’invivibilità
della prigione, per il peso del proprio reato, per la solitudine imposta…..
Ho l’impressione che occorra quella coerenza che riporta al centro
l’essere umano, con partecipazione per chi subisce il
dolore dell’offesa tragica, e con l’attenzione sensibile
che non è accudente, né giustificante, ma un preciso interesse
collettivo, affinché l’uomo possa migliorare e trasformarsi.
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Occhi
scuri - Bianco d'agosto acuto
di Bianca Giocolieri
Occhi scuri
I mari profondi
sepolti dopo due occhi a zero
i tuoi
non riescono a non vibrare
onde silenziose
in corsa verso un la di tramonto
hai quasi detto tutto
e neppure ti va di dire
occhi bui dentro
dissanguano le tue colline
cerchiate di nulla.
Bianco d'agosto acuto
Il mio fiuto impazzisce
di tutta questa ora
insopportabile
elettrico
bianco
succhiato intorno al sole
lo rinfaccia
acre
contaminando
e l'aria pure
l'anima
fino all'estenuazione che non dura
su queste mura screpolate allora
scrivo il mio nome
a non morire d'afa
(da La tempesta nell'uva, Lalli Editore,
Poggibonsi, 1980)
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Er
sogno
di Antonio Valeriano
Pulimanti (trovata dal figlio Mario)
L'antra notte, quanno dormivate,
c'era silenzio solo nella casa,
m'appare 'na faccia rossa de cerasa,
ch'arisvejava in me cose passate.
Vino sabino, Brighella colla fresa,
file de vite, amici e carognate,
lontano, fra li soni de la Chiesa,
arberi, frutta, sole, scampagnate.
'Na rondine fa er nido su li tetti,
ner cielo quarche nuvola ormai rada,
sur prato fra le gocce de ruggiada
'na gatta partorisce li micetti.
Io, regazzino, a Nonno stò vicino
de là ce stà puro zì Navina
seduto accanto un cane che stà chino
io scappo an tratto sporco de farina.
"Nonno!" Strillai arzannome de botto,
apersi l'occhi e nun vedetti gnente
quer viso co' la bocca soridente
nun c'era si guardavi sopra e sotto.
Un desiderio d'abbracciallo forte,
solo silenzio e buio nella mente,
l'odore de la notte e de la morte
e de quer sogno nun me rimaneva gnente!
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