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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 88
Aprile 2007
Editoriale:
La Bellezza del Sacrificio
Vesna Andrejeivic ci augura buona Pasqua
(che estendo di cuore a tutti i lettori) con un bel racconto
giocato sul valore non solo etico ma anche estetico della carità,
cioè dell'amore oblativo e capace di sacrificio. Maria
Rosa Panté ci offre una nuova affascinante lettura del viaggio
di Ulisse, Luca Ariano continua la sua efficace produzione
di poesie immerse nella storia, Luigina Bigon ci dona
una riuscita poesia religiosa, padre Bernardo M. Gianni
un'intesa omelia sul mistero della Trinità e Andrea
Parato una "scientifica" coppia di poesie sui serbatoi
di simboli trans-nazionali.
Ultimi giorni per parteciapre a Prosapoetica.
Buona lettura.
La
bellezza salverà davvero il mondo?
di Vesna Andrejevic
Nel mondo d’oggi in cui mancano cronicamente la
comprensione e la volontà di condividere le emozioni pure con
il nostro prossimo, figuriamoci poi con i lontani e gli sconosciuti,
un mondo in cui il nostro egoismo sta sterminando quotidianamente e
alla velocità della luce ogni tipo di relazione e comunicazione
fra quello che è rimasto delle persone, in questo mondo che è
il nostro e l’unico che abbiamo ora e qui crescono sistematicamente
le distanze e il silenzio in cui si annulla ogni parola. E siccome l’unica
certezza è proprio quella del “dramma”, cioè
la cognizione che ogni cosa ha il proprio inizio, culmine e fine, una
volta scomparsa la parola, cosa succederà? Chi proclamerà
il mondo muto? Sarà il silenzio assoluto e universale a interrompere
l’ultimo atto del teatro umano rendendolo immobile in modo quasi
“filmico”, quindi con e senza “fine”? O solo
con un’unica fine “sospesa”? Chi allora potrà
dire: “E alla fine fu il silenzio!”?
Persino allora dovremo “imparare” a comunicare pur essendo
muti, se non per bisogno, per quella legge secondo cui la storia si
ripete, almeno la pensano così tutti quelli che la scrivono.
E se tutto questo è vero, ne risulta che sarà un’altra
volta la stessa cosa a smuovere il mondo, a ricomincar a parlare per
tutti noi ammutoliti. Sarà di nuovo l’immagine o meglio
dire il silenzioso linguaggio della beltà ossia dell’arte
che sta dietro, dentro e davanti a tutta la storia umana, a superare
i limiti trogloditici del silenzio umano. Ma la storia può ricordare
il suo primo passo dopo migliaia e migliaia d’anni? O almeno la
sua prima gattonata? O la sua prima caduta? È poco probabile,
però immaginiamo almeno uno degli scenari possibili. Ecco, dopo
“la grande e assoluta esplosione del silenzio” che ha inghiottito
il mondo, sono sopravvissute solo due “immagini” casualmente
scelte: una tela ed un affresco. E insieme a loro è rimasto vivo
e vegeto il curioso ed insaziabile desiderio umano, ora un po’
ammutolito, di intercettazione dei colloqui altrui. E così, sole
e sperdute, le nostre due “beltà” sono costrette
prima a guardarsi e poi a incontrarsi. Tutto il resto che di solito
segue quando si riconoscono i pensieri, anime, avvenimenti, persone,
momenti gemelli, è il merito dell’infallibile e sempre
benintenzionata misura che governa pure il nostro piccolo mondo.
“Sembra che siamo rimasti solo noi due in questa landa. Ci siamo
incontrati forse prima? Io sono ‘La nascita di Venere’.
E tu chi sei?”
“Io sono ‘L’angelo candido’. ”
“L’angelo candido?! Mai sentito. È
stato Andrea Mantegna a dipingerti? O qualcuno della bottega del Bellini?
Gentile? Giovanni? Guarda, mi sembri familiare, ma d’altra parte
sei così strano… Perugino? A no, no, non porti il suo timbro.
Direi che apparteniamo alla stessa generazione, però tu sembri
un po’ più maturo, scusa se te lo dico…”
“Io sono un affresco, sono stato coperto da un altro affresco
per parecchio tempo.”
“Ah? Non sei riuscito bene al primo tentativo? Guarda che succede,
pure i maestri più celebri sbagliano qualche volta…”
“Ma furono costretti a farlo! Era l’unico modo in cui potevano
salvarmi. Il mio monastero fu saccheggiato dai turchi un paio di volte.”
“Turchi? Monastero? Quale monastero?! Ma tu non sei agli Uffizi?!”
“No, io sono del monastero Mileseva presso la citta di Prepolje.”
“Pre… Pre?!”
“Cara mia Venere, adesso ti spiego tutto. Si tratta di uno dei
monasteri serbi più antichi e famosi, dove venne custodita la
salma del primo nostro archivescovo, ovvero dell’illuminatore
e del fondatore della chiesa ortodossa serba. Lui, inoltre, fu il padre
della letteratura serba e il figlio del grande zupano Stefano Nemanja,
il fondatore della prima dinastia reale serba…”
“Ma allora, tu non sei uno di noi?”
“Beh, dipende, sembra che ora siamo tutti diventati ‘dei
nostri’. Inoltre, gli altri non ci sono più, no?”
“Ma tu hai una presenza così bella, non posso proprio credere
di non aver sentito mai parlare di te! Sei così speciale! Come
se fossi uscito proprio dal catalogo dell’UNESCO!”
“Ma è vero, mi hanno messo in quel catalogo, come lo chiami
tu. Sinceramente non ho mai chiesto di esserci, a dire il vero nessuno
mi ha chiesto il permesso. Però penso proprio che la mia età
già avanzata abbia dato un bel contributo alla facenda. E così
mi sono trovato insieme a coetanei, ma noi stiamo sempre un po' da parte.
Ecco perché non ci siamo incontrati prima.”
“Va bene, capisco, però avremmo potuto conoscerci da bambini.
Scusa, ma tu quando sei nato?”
“Ah, questo, non me lo ricordo più. Sono proprio ricordi
lontani. Nacqui nel Duecento, almeno così dicono. In quell’epoca
vennero i famosi meaestri da Costantinopoli e Salonicco a adornare il
monastero e la tomba del nostro protettore, però io, purtroppo,
l’immagine di mio padre, non l'ho impressa nella mente.”
“Allora, tu sei più vecchio di me?!”
“La cosa non importa, cara mia Venere. La nostra casa è
sfortunatamente all'incrocio dei Balcani e ogni passante pensava di
avere ragione e diritto di prendere qualcosa da essa. Abbiamo resistito
ai turchi, preservando la scuola e la copisteria, le uniche nel paese,
e difeso la salma del nostro più grande santo, certo, quanto
sapevamo e potevamo. Ci riuscimmo per tre secoli interi, ma poi i turchi
fecero bruciare il corpo e le reliquie di San Sava, già cannonizato
da oltre di due secoli, cercando di reprimere l’insurrezione popolare
che si estendeva in modo fulmineo. Lo fecero per rappresaglia e vendetta,
volendo cancellare ogni traccia e ricordo di San Sava e della nostra
cultura. Credevano di uccidere lo spirito insieme al corpo. Il giorno
che bruciarono il suo corpo, piangevamo pure noi affreschi, e da quel
giorno lo spirito del nostro popolo fu rafforzato in modo tremendo,
perché vedi, Venere, l’immenso dolore e il grande sacrificio,
ma quello vero ed autentico, che possono fare solo i veri santi ed illuminatori
del proprio popolo, superano ogni martirio. Loro sono le guide o le
insegne che mostrano le vie umane verso bontà, amore e pietà.
Per questo non mi importa se mi hanno inserito in un catalogo, bensì
mi interessa custodire i tratti che ho ricevuto con la mia nascita,
e salvare ogni anima sperduta e sofferente che incontravo.’
“Che storia interessante! Eppure è molto triste. Insomma,
tu hai sofferto in modo tremendo! Ma dimmi, è successo qualcosa
di bello nella tua vita?”
“Tutta la mia vita è stata bella perchè è
stata regalata agli altri essseri umani.”
“E tu, che cosa hai ricevuto in cambio?”
“Gioia, gratitudine, fede e speranza altrui.”
“Che cosa ne hai fatto con tutto questo?”
“L'ho raccolto e custodito come rimedio per i giorni di tempesta
che inondano sempre il nostro mondo.”
“È il rimedio che ci indichi con l’indice?”
“Sì, Venere, indico il rimedio eccelente e sublime che
attende già da duemila anni che l’umanità lo riconosca.
Sotto il mio indice si trovava per un paio d’anni il lenzuolo
candido in cui Giuseppe di Arimatea avvolse il corpo di Gesù
dopo la deposizione dalla croce. Dopo uno dei saccheggi dei crociati,
il lenzuolo, assieme con il calice o la coppa in cui Giuseppe avrebbe
raccolto il sangue di Cristo crocifisso, fu nascosto nel mio monastero,
ma dopo un po’ dovette proseguire il suo cammino negli altri monasteri,
nelle altre chiese, fra altra gente. E vedi, Venere, per far guarire
la gente da questo pericoloso mutismo, sei dovuta comparire proprio
tu. È proprio il destino che ci ha fatto incontrare!”
“Ma che c’entro io con tutta questa storia?!”
“C’entri, eccome! Nemmeno il buon Dio poteva fare tutto
da solo. A un certo punto ebbe bisogno di un’altra metà,
proprio quella umana, per mostrarci la strada. Per questo ora abbiamo
bisogno di te. Ma tu piuttosto dimmi, sei o non sei la Venere di Botticelli?
“Certo che lo sono!”
“Allora sei nata proprio dalla schiuma del mare e spinta da Zefiro
e Borea verso la spiaggia di Cipro dove ti attendeva l’Ora per
avvolgerti in un bellissimo manto?”
“Proprio così, angelo mio!”
“E cosa sei allora, Venere? Perché sei venuta alla luce
di questo mondo?”
“Io sono, angiolino mio, solo la dea dell’amore. Niente
di più. Inoltre, non so proprio quanto sia riuscita a rendere
la gente felice con la mia nascita.”
“Tu sei qualcosa molto più: oltre all’amore, sei
la bellezza, ma prima di tutto, sei il motore dell’universo. Sei
proprio l’immenso e ingentilito amore divino che muove il nostro
mondo. Solo attraverso te, la tua bellezza e pienezza, si può
aspirare all’ascesa verso la virtù e il sommo bene, verso
il nostro Creatore! Verso la felicità! Senza di te, Venere, sparisce
ogni traccia del genere umano, senza di te, compare il silenzio pietrificato
nei cuori degli esseri umani.”
“Ma questo è già successo, angelo! Sei cieco? Non
vedi che siamo soli io e te? Hai visto bene che cosa ho generato?!”
“Proprio per questo ci siamo incontrati, Venere: tu se la mia
e io sono la tua indivisibile essenza e solo uniti possiamo muovere
il mondo. Non vedi che il silenzio si restringe sempre di più
davanti ogni nostra parola?”
Ed è proprio così. La Bellezza e il Sacrificio salveranno
il mondo, perché la radice del sacrificio più sublime
è l’immenso amore per il nostro prossimo, per un altro
essere umano, per noi stessi, per l’intero mondo che rinasce sempre
dal nuovo germoglio della nostra bontà. Proprio quella bontà
che ci aspetta da duemila anni sotto il lenzuolo dipinto di amore e
di sacrificio.
Buona Pasqua a tutti!
Vesna Andrejevic
si occupa di traduzione multimediale a Belgrado. È professoressa
di lingua e letteratura serba e di letteratura internazionale e fresca
neolaureata in lingua e letteratura italiana. Fra i vari riconoscimenti:
la segnalazione al concorso Pubblica con
noi (2005), il II posto al concorso Artistico Internazionale “Amico
Rom” (2005) e il Premio ICON (2006). Scrive narrativa, traduce
film e i libri e coltiva i suoi sogni e aspirazioni letterari.
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Il
ritorno di Ulisse
di Maria Rosa Panté
Ulisse torna ad Itaca, dopo vent’anni di lontananza,
così ci narra Omero. Ma non è l’unico finale possibile
della vicenda dell’eroe, infatti Dante nel famoso canto dell’Inferno
narra che Ulisse non è mai tornato, ha continuato a viaggiare
fino agli estremi confini del mondo, fino a vedere la montagna del Purgatorio
e poi ha dovuto arrendersi all’ennesimo e fatale, questa volta,
naufragio.
A queste due visioni esemplari si sono rifatti tutti coloro che, in
seguito, hanno scritto d’Ulisse. In realtà il ritorno è
problematico, infatti ci si chiede se per Ulisse la fine del viaggio
fisico sia anche la fine del viaggio intellettuale, di conoscenza.
Ulisse, per tutto quello che rappresenta, può tornare? Può
smettere di viaggiare?
Un altro greco, ma del XX secolo, Alexandros Panagulis, inizia così
una sua lirica, intitolata “Ulisse”: Quando sbarcasti
a Itaca / quale infelicità avrai provato, Ulisse, / se altra
vita avevi dinanzi / perché arrivare tanto presto?
Pare proprio che per gli autori del '900 il ritorno di
Ulisse sia o improbabile o una terribile perdita. L’uomo-Ulisse
è destinato a tornare continuamente, ma a ripartire sempre. In
più, avendo rifiutato Ulisse il dono dell’immortalità
da Calipso, c’è una partenza definitiva e ineludibile:
la morte.
Interessante è il punto di vista di Alberto Savinio, che scrive
un saggio e un testo teatrale Capitan Ulisse. Odisseo pare
imprigionato in un ruolo che rifiuta, quello di eroe; infatti per essere
eroe gli manca il requisito essenziale: “l’intelligenza
del bue”. Ulisse è stanco perché ha vissuto la vita
di tutti meno la sua propria. “Diamo a Ulisse il necessario riposo”.
Ulisse, secondo Savinio, è protagonista sempre d’un ultimo
viaggio che poi sempre si rivela essere il penultimo. “Era necessario
dare un porto a questo navigatore senza porto, un termine al suo viaggio,
una morte alla sua vita”. Così il testo teatrale si conclude
con Ulisse che non ascolta più i richiami né della moglie
né della dea Atena, sua protettrice, ma se ne va verso il fondo
della sala insieme ad uno spettatore.
Il cenno di Savinio a Penelope introduce l’altro grande protagonista
del ritorno: la moglie. Penelope è l’opposto dell’eroe:
lui viaggia, lei sta ferma ed aspetta. In realtà Penelope è
necessaria ad Ulisse perché chi viaggia deve avere una meta,
un ritorno. È Penelope ad essere, in fondo, più autonoma.
Spesso dunque il ritorno viene visto dal punto di vista della donna,
cito in particolare due libri, di due donne. In quello di Silvana La
Spina addirittura Penelope dopo il ritorno di Ulisse decide di andarsene,
insieme ad Euriclea, il viaggio continua. Invece Margaret Atwood, che
scrive addirittura una Penelopeide, immagina un Ulisse irrequieto, anche
dopo la morte, perseguitato dal rimorso d’aver fatto uccidere
le ancelle, colpevoli d’aver aiutato i Proci, in realtà
costrette ad obbedire dalla loro condizione di schiave.
Dunque Ulisse è destinato a ripartire, non solo nella coscienza
degli autori più recenti, ma persino in Omero, nell’insospettabile
poema del ritorno. Nel libro XI dell’Odissea, nel viaggio dell’aldilà
Ulisse incontra Tiresia, l’indovino, che gli predice il ritorno
ad Itaca, ma anche una quasi immediata nuova partenza. Giacché
Ulisse è destinato a portare la navigazione (un remo) nelle terre
di coloro che ancora non sanno cosa sia il remo, la nave, il mare. Poi
ritornerà a Itaca e finalmente potrà morire dopo serena
vecchiezza. Però, secondo altre versioni, del mito Ulisse sarà
ucciso dal figlio avuto da Circe, Telegono. Questi giunto ad Itaca alla
ricerca del padre, lo incontrerà senza riconoscerlo e in una
zuffa lo ucciderà.
La doppia possibilità offerta ad Ulisse di tornare o meno è
in fondo offerta a ciascuno di noi, il finale che prediligiamo potrebbe
dire qualcosa su come siamo, sulla nostra situazione in un certo momento
della nostra vita. Certo il succo è che non si può non
andare, ma non si può non tornare.
Personalmente ho riflettuto su un fatto particolare, l’ennesima
contraddizione di un personaggio tra i più controversi del mondo
occidentale. Ulisse l’eroe più viaggiatore ha il letto
più fermo, stabile, inamovibile, perché ricavato direttamente
sul tronco di un ulivo.
Così ho immaginato che Ulisse mentre ricava dall’ulivo
il letto, da un ramo dello stesso albero tragga un remo: insomma dalla
stessa radice, per Odisseo così come per ogni essere umano, vengono
gli stimoli al ritorno e alla sempre nuova partenza. Da questa riflessione
è nata la poesia che segue:
Non potevi non andare
Non potevi non tornare
Prima della sposa avrò il talamo
prima della donna avrò il letto.
… errava il giovane Ulisse,
gambe corte e lungo sguardo,
per l’isola petrosa, Itaca.
Poi vide l’albero immenso,
vecchio più della sua stirpe,
giovane re, dall’occhio acuto.
Lo accarezzò, l’albero maestoso,
ne sentì il fremito, l’arcana vita
sotto la scorza inerte.
Il giorno appresso lo si vide,
re appena cresciuto, re
pastore, re abile di mani
e di pensiero, innalzare un palazzo,
il suo, intorno all’albero.
Non si curò dei mormorii
né delle fronde ingombranti.
Costruì e costruì, aveva fretta:
dopo il letto, la donna,
dopo il talamo, la sposa.
Bello fu il palazzo, nessuno
rammentava l’albero prigioniero.
Allora Ulisse, solo, si recò
nella stanza nuziale e parlò
all’albero, allo spirito che, certo,
l’abitava. Chiese perdono
per l’ardimentoso progetto e
s’apprestò all’opera febbrile.
Sfrondò la chioma, la cima tagliò,
piallò, spianò, levigò e sul tronco
reciso, costruì il letto. Fermò
il talamo, una barca incagliata,
una nave ancorata al porto
immobile per sempre.
Ma da un ramo, gettato a terra, trasse
bello e rifinito il remo.
Non potevi non andare
Non potevi non tornare.
Dopo il letto venne la sposa,
Penelope, essa vide il talamo
si consolò nel cuore. Il letto
aveva vive radici e profonde
come l’amore che lei sognava.
Il letto nave fedele
per sempre ancorata al suo grembo.
Volse gli occhi, seguì lo sguardo
dello sposo, fissava Ulisse il remo
tratto dal ramo dell’albero,
legno da legno, e viaggiava
già lontano, come straziato
dal desiderio di andare
e quello di restare. La fanciulla
serrò gli occhi, scordò il remo.
Finché Ulisse partì alla guerra.
La nave nuziale ancorata
a lunghe profonde radici,
ma il remo era legno da legno.
Non potevi non andare
Non potevi non tornare
Ulisse è qui, sente dire la sposa,
lei invecchiata vede lo sposo,
fatto giovane da una dea.
La guida nella camera, le parla
del loro segreto, l’albero
trasformato in talamo.
Ma ciò che Penelope vince
è il remo ancora compagno di Ulisse:
il ritorno non è mai eterno;
un’altra partenza è prevista.
Remo ed uomo Penelope sfiora:
perirai del legno,
dice Penelope ad Ulisse,
perirai del legno.
Che legno? Morrò nel mio letto
vecchio e vinto dagli anni?
Che legno? Morrò
seguendo il richiamo del remo,
in perigliosa navigazione
oltre il confine dei confini?
Di Penelope l’occhio profetico
scorge, ramingo e remoto,
un giovane che pare il re vetusto
si avvicina, audace,
cerca il padre. Vede un vecchio
sulla riva, ha un remo in mano.
Lo apostrofa duro, il giovane
orgoglioso, svelle il remo
di forza e lo cala pesante
sul vecchio. Ulisse muore,
il legno l’uccide. Il legno
del talamo, il legno del remo.
Perirai, Ulisse, dello strazio
di non poter non andare
di non poter non tornare.
Maria Rosa Panté
è nata nel 1961 a Borgosesia, cittadina in provincia di Vercelli
dove vive. Insegnante di materie letterarie in istituti superiori, attualmente
si occupa della produzione di materiale multimediale e ipertesti per
la didattica. Ha pubblicato un libro di poesie e prose, L’amplesso
retorico. Voci femminili dal mito (2004) e nel 2006 un libro
di racconti: Noi che non fummo muse (Manni). Ha partecipato
a diversi concorsi di poesia e narrativa, conseguendo premi sia per
la produzione poetica, che per la prosa e la saggistica.
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La magistratura
ha aperto un'inchiesta
di Luca
Ariano
Emilio professore pendolare
che s’alza quando ancora altri
si rigirano sotto coperta;
nemmeno il tempo di spuntare
la barba incolta anche stamane
non riesce a tenerli a bada
- non c’è più rispetto!
Proprio ieri a raccontargli
del Renzo che s’è fatto i dindi
con la borsa nera
e poi ha costruito una fabbrichetta
di suole e tomaie
che il nipote si fuma tra cassa
integrazione e manodopera in nero.
Le domeniche a gitare
e quanti sudori sulla banchina
- e Diobono s’eri innamorato,
da perdere il lume della ragione:
è ancora dietro le vetrate
con qualche nuovo cappellino
a servirti pomeriggi in saldo.
***
Una curva improvvisa
sull’asfalto lucido ad impattare
imbambati s’un palo e quell’orto
tirato su nelle stagioni
sfiorisce
il tempo d’una frenata.
Carmela s’è licenziata per le troppe
attenzioni in negozio e Liuba
- due figli a carico, la sera
s’addormenta con gli occhi gonfi
davanti al vetro.
Sono imbarazzanti quelle domande
mentre nervoso arrotoli la bustina di the
e sorridi di cortesia: forse non hai nulla
da raccontare, sei una sequenza di Kaurismaki
e nel bar i ragazzi sono un videoclip
di MTV, una scena urlante di Muccino.
Frenetico cambi stazione cercando
la canzone già trasmessa, mai composta.
***
Quei dopocena ancora caldi d’estate
a suonare campanelli – per uno scherzo,
o a prendere a pallonate i muri
non sono certo quelle piccole bande a taglieggiare,
rubinetti che allagano bagni
e amplessi di gruppo pescati sulla rete.
Stasera tra scansie i suoi capelli
hanno il profumo d’un vino greco
- Zoi forse si chiamava –
e ti gira la testa come per un sorso di troppo.
Sarà quel Favonio che sogni venire dalla Spagna
e la trepidazione per quelle attese
in Via D’Azeglio, sotto i portici sono sfumate
come la vostra cartolina – partecipazione di nozze.
C’è una brutta nebbia porca da non poter guidare
dai Piccolini a Gravellona e a tavoletta sulla striscia
a Gaggiano giovani ingaggiano una folle corsa
terminata nel Naviglio oltre il guardrail:
la magistratura ha aperto un’inchiesta.
***
Questa notte si balla a ritmo di tango
per dimenticare il nebbiume
di quella città senza neppure un santo,
solo un beato per caso capitato.
“Siamo già maturi!
L’hanno prossimo dobbiamo rinnovare
la patente: cosa abbiamo fatto
in questi dieci anni?”
Lo biascica stanco come un vecchio
di trent’anni alla curva del ponte.
In piazza si mormora sempre che la Paola
se la faccia col figlio del notaio,
orgasmo d’un portafoglio gonfio fra le tasche.
Al bar all’angolo l’Andrea ti racconta
di quando si allenava con Baggio e Del Piero
poi…oggi scarica mobili tra scale e ponteggi.
In quella cittadella dello shopping
non ti rimane che bere per non vedere sguardi
assatanati di vetrine, di plastica, tinture
e pelli tirate senza il placido invecchiare
d’un volto grinzoso.
***
***
– Hai sentito che l’hanno violentata
al Parco delle Lavandaie?”
(quello dove andava tua nonna bambina)
- l’ho letto sulla Gazzetta…
- c’erano giù qui quelli della televisione! -
- Studio Aperto? –
- La chiave ci dovrebbero buttare. La chiave! –
- Ma tanto tre mesi ed escono. – La Clo’ si lamenta degli
uomini d’oggi
che non si sanno più decidere; mica quelli d’una volta!
Ciclisti della domenica pedalano ai bordi del Naviglio:
un tempo non troppo lontano le chiatte solcavano le acque,
arrivavano fino in centro città con le merci.
Aspetti sempre la sua telefonata
e lo sai che non può risponderti al lavoro
- col tipo di Ferrara? -
(nevrastenia giornaliera)
La Nives da sette anni porta i fiori al sepolcro di Marore
tra pioppi incolonnati e da cinque chiacchiera
con quella cagnetta che tanto bene le parla di suo marito.
***
L’hai fatto in quel parcheggio vuoto
con la pioggia a catinelle a battezzare
il pomeriggio, sul divano, o nel bagno
d’un ufficio ma tanto è dato per certo
che non la rivedrai nel piazzale
scendendo dalle colline in un sudore di sole.
In fondo sei sempre lo stesso che distrugge
i suoi mattoncini contro il muro;
quella convivenza quasi per gioco,
per non spegnere la luce senza una “Buona notte”
ma poi i nodi vengono al petto e ogni sabato
sotto quelle lenzuola un altro respiro.
Ti han regalato una terra battuta da un vento
Australe – proprio verso sera,
e non sai cosa daresti per vedere tua nonna
potare le sue rose o salire sul sellino
ma l’odore di stagione lo mischi alle polveri
della città, oggi, che Bologna, con la sua babele
di portici ti rassicura nel tuo anonimo sguardo.
Luca Ariano
(nella foto con Alex
Celli) è nato nel 1979 a Mortara (PV), è cresciuto
a Vigevano e dal 1998 vive a Parma. Ha pubblicato nel 1999 la raccolta
di poesie Bagliori crepuscolari nel buio presso Cardano di
Pavia. Numerose sue poesie sono apparse su riviste tra cui La
Clessidra, Il Foglio
Clandestino, Ciminiera,
Tabard, siti e blog letterari
in internet tra cui Faranews,
FuoriCasa.Poesia,
La poesia e lo spirito,
La costruzione del verso,
LiberInVersi e su antologie
tra cui Oltre
il tempo/Undici poeti per una Metavanguardia, curata da Gian
Ruggero Manzoni (Edizioni Diabasis, 2004) e La
coda della galassia, a cura di Alessandro
Ramberti, (FaraEditore, 2005). Nel 2005 è uscita la sua seconda
raccolta di poesie Bitume
d’intorno, con la prefazione di Gian
Ruggero Manzoni (Edizioni del Bradipo di Lugo di Romagna).Torna
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Cristo risorge
di Luigina Bigon
La zappa vanga giorno e notte
i lombrichi si muovono lentamente
tra le zolle. È tempo di meditare
di lasciare che lo spirito si esali
toccando il limite fino a marcire
nelle ossa e ritornare vita.
Distese secche, asfalto sui rettilinei,
sole che brucia anche il pensiero.
Pasqua si avvicina gonfia di
sconforto per i tanti riti crudeli
che i paramenti sacri non sanno dire.
Tutti crocifissi, credenti e atei,
portiamo in noi la colpa
senza credere che il Cristo risorge
proprio quando tutto sconfina
nella dissoluzione.
Luigina
Bigon fa parte del Gruppo Poeti UCAI sez. di Padova sorto nel 1989
sotto la guida spirituale di Monsignor Ulderico Gamba e l’impegno
della stessa Bigon che ne sarà la responsabile fino al 2004.
Da quasi un ventennio, ormai, opera cercando di trasmettere quella scintilla
divina che, come sottolineava Giovanni Paolo II, è presente in
ogni artista, ossia la vocazione poetica al servizio del bene attraverso
l’interpretazione del messaggio del Verbo incarnato. Nel corso
degli anni il gruppo ha rganizzato incontri, conferenze, recital. Ha
pubblicato: Inconsapevoli Preghiere (Imprimenda, Padova, 1999);
La storia delle donne della Bibbia (Imprimenda, Padova, 2001);
Apostoli ed Evangelisti (Imprimenda, Padova, 2003). Dopo Monsignor
Gamba, il referente spirituale è stato Monsignor Fernando Pilli;
ora l’incarico è ricoperto da Monsignor Claudio Bellinati.
Autori partecipanti al recital che si terrà nella Chiesa degli
Eremitani di Padova, per le ricorrenze Pasquali 2007: Anna Artmann,
Raffaella Bettiol (attuale responsabile del Gruppo Poeti), Luigina Bigon,
Maria Borella D’Amore, Ofelia Cestaro, Italo Gatti, Giampiero
Gigliucci, Vincenzo Leggeri, Umberto Marinello, Maria Luisa Ottogalli,
Rosanna Perozzo, Amelia Burlon Siliotti, Gianfranco Vinante. Voci recitanti:
Enrico Martino e Massimiliana Bettiol.
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Il mistero della
Trinità (letture anno B)
di Bernardo
Maria Gianni
È come quando si cammina gettati nel fitto del
bosco lungo un incerto sentiero coperto da altissimi alberi: la fitta
travatura dei rami filtra sulle nostre teste la luce del cielo, essa
rischiara il percorso, certo, ma non basta: abbiamo desiderio di più
ampia radura dove fermare il cammino e posare lo sguardo sullo spazio
totalmente inondato di luce. E quella somma luce finalmente raggiunta
là dove la trama del mistero si allenta è tuttavia insostenibile:
e se “corto il dire e come fioco” è il parlare del
sommo Dante dopo aver contemplato per mistica esperienza “nella
profonda e chiara sussistenza de l’alto lume tre giri di tre colori
e d’una continenza”, addirittura balbettante è il
nostro, il mio ridire qualcosa dell’indicibile mistero trinitario.
Pare addirittura contraddittorio dover chiedere alla nostra mente di
credere, adorare e consegnarci ad un Dio che è al contempo somma
unità e distinzione nell’unità di tre persone: parrebbe
tutto più semplice e umanamente rassicurante un unico Dio, un
unico riferimento, un unico fondamento alla nostra molteplicità
confusa.
Eppure un grande teologo russo, martire della carità nel secolo
scorso, scriveva contemplando la tragicità del suo e nostro secolo:
In tutto ciò che incontriamo osserviamo delle contraddizioni
irrisolvibili. Per risolvere questi problemi non abbiamo altra possibilità
che scegliere ciò che ci offre la ss. Trinità oppure la
morte nella pazzia.
In somma: l’apparente contraddizione della Trinità, l’accoglienza
fiduciosa di quanto questa apparente e permanente contraddizione - un
Dio unità e trinità - sembra l’unica speranza di
vincere le nostre non apparenti ma realissime e drammatiche contraddizioni:
quel nostro volerci dimenticare la sete inestinguibile
di infinito e pienezza che pur infiamma di desiderio il nostro cuore,
specie quando è ferito dalla morte, dall’apparente casualità
con cui si concludono lunghissime o intensissime storie di amore, di
fedeltà, di amicizia, di vita;
quel nostro dimenticare, ignorare e tradire il volto del
mio prossimo di fronte al quale e col quale si gioca , si può
giocare la parte migliore di noi stessi, quella creata per la donazione,
la gratuità, l’attenzione, il perdono;
quel nostro volerci rinchiudere nella clausura del contingente
e della finitezza quando il nostro cuore, se reso finalmente di carne,
ci ricorda che siamo mendicanti del cielo, mendicanti di amore;
quel nostro accontentarci di essere così come apparentemente
siamo nelle giornate grigie e pesanti, i giorni in cui soffia lo scirocco,
direbbe Thomas Mann, “apatici, rassegnati e senza speranza”
quando invece l’uomo e la donna sono creati per la speranza, cioè
per l’attesa, per l’operosa responsabilità, per i
grandi orizzonti nel tempo e nello spazio, sono in definitiva creati,
l’uomo e la donna per la carità, ma è meglio dire
per l’l’amore, per la fede, che è fiducia e apertura
del cuore all’irrompere dell’altro.
A queste profonde contraddizioni, che sono poi riflesse
nelle ancor più macroscopiche contraddizioni che feriscono di
ingiustizia culturale ed economica l’intera famiglia umana e il
creato stesso, a queste contraddizioni la silenziosa ma eloquente luce
della Trinità, oltre il fitto della foresta, ma anche nel solco
del più incerto sentiero di vita offre orizzonti sicuri, ma non
per questo scontati, di consolazione, di chiarificazione, di senso.
L’apparente contraddizione della Trinità ci suggerisce
che c’è un unico modo attraverso il quale la persona e
la storia umana possono sottrarsi al destino del nulla e della morte,
della dispersione edella perdita di sé: infatti solo quel che
è amore rimane e rimane per sempre.
Scrive san giovanni: Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli
uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto
in noi. Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi:
egli ci ha fatto dono del suo Spirito. E noi stessi abbiamo veduto e
attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del
mondo. Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio,
Dio dimora in lui ed egli in Dio. Noi abbiamo riconosciuto e creduto
all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell'amore
dimora in Dio e Dio dimora in lui.
Carisismi e carissime sono queste parole a dirci qualcosa
del mistero che celebriamo oggi e che in realtà ci fa sì
balbettare, ma non solo per la sua inafferrabilità, anche perché
abita in noi, e sappiamo che quando qualcosa di grande, una grande emozione
pervade il nostro cuore la parola manca e il respiro c’affanna.
Giovanni non ci dice semplicemente di credere in un Dio concetto, in
un Dio ente, ci dice di credere in un Dio che è relazione di
amore, un Dio ricco e dinamico perché relazione e relazione di
amore, non un unico totem di assolutezza, perfezione, onnipotenza, autoreferenzialità.
Ma un Dio di relazione che dona il Figlio come salvatore, un Dio che
ci fa dono del Suo Santo Spirito per ascoltare la sua parole che ci
riconvoca e ci riporta a Lui pienezza e sorgente di ogni essere…capite
la meraviglia della Trinità, capite come è bello avere
un Dio apparentemente contraddittorio?
Solo chi ama veramente e totalmente cammina sempre sul filo della pazzia
e della contraddizione… perché questo è l’amore
trinitario: il Dio totalmente altro e sommamente sommo si rende umile
servo sulla croce, si lascia toccare le piaghe e ristorare, il Dio totalmente
giusto si lascia crocifiggere come il sommo ingiusto! Il Dio che già
ha creato e chiamato a raccolta l’ultimo fra i popoli dell’antichità,
quell’accozzaglia di pastori testoni e diffidenti che è
l’antico Israele di nomadi diventa il popolo prediletto, il popolo
che riceve in dono la legge come promessa e premessa di una terra e
di un tempo beato, ebbene quel Dio è il Dio che Paolo ci dice
il nostro Padre, il nostro Abbà, il nostro padre, il dio dallo
sguardo amoroso che veglia su chi spera nella sua grazia, come abbiamo
cantato nel salmo, il Dio che ci libera dalla morte e ci nutre in tempo
di fame, come un vero padre, una vera madre fa coi suoi piccoli, vorrebbe
fare coi suoi piccoli…
È il Dio di quel Gesù che non ci abbandona mai perché
a noi tutti, e per carità non pensate che il Vangelo di Matteo
si concluda pensando solo ai preti che devono battezzare, che camminiamo
e viviamo nel nome della Trinità, cioè nell’appartnenza
intima a questa relazione di Amante, il Padre, di Amato, il Figlio e
di amore amante e amato lo spirito santo, Gesù è con noi
tutti i giorni, fino alla fine del mondo.
Carissimi e carissime solo la trinità, come eterna storia di
amore, di prossimità di Dio a noi, come eterna storia di donazione
reciproca e di donazione a ogni respiro della creazione “svela
veramente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima
vocazione”, come dice il concilio.
Forse è davvero bene che sia indibicibile questo mistero…
non va detto, va semplicemente vissuto, vivere insieme alla trinità
come la trinità vive insieme a noi: come è nella trinità
così è anche per noi la stessa regola d’amore pasquale
impressa nella carne del nostro cuore: l’uomo è così
fatto che solo donandosi , perdendosi si ritrova, ed è un ritrovarsi
particolare non nella solitudine, ma nella relazione che spezza i ceppi
alla solitudine dell’individualismo: anche noi trinità
viventi, anche noi, la nostra vita rivelazione del Padre attraverso
l’amore del Figlio nelle e per la potenza dello Spirito Santo.
Consolante, mirabilmente consolante, l’apparente contraddizione
della Trinità, di un Dio trinitario che è fuoco incontenibile
di amore.
Verità, / antica e qui presente eternità, / verbo
creante, / poi creato in carne! / Memoria, / realtà, / ritorna
in me, / in noi, / in loro! / Disfa la nebbia / dell’inganno.
(GIOVANNI TESTORI)
Bernardo
Francesco Maria Gianni, O.S.B. Oliv.
Abbazia di San Miniato al Monte Monaci Benedettini di Monte Oliveto
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze
bernardofm@libero.it
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Volanti mediatici
di Andrea
Parato
I
Per Stato si intende l’insieme delle istituzioni pubbliche
che governano su un territorio definito e che detengono su
esso il monopolio della violenza. Tali istituzioni si
presentano storicamente come legittime, coerenti, stabili e
monopolistiche.
Il termine Nazione indica invece una comunità di persone
che si percepiscono affini e simili per tratti comuni (come
cultura, lingua, religione…). Nel caso della coincidenza
tra stato e nazione si parla di un progetto di stato-nazione
(comprendendo in questo un rafforzamento dell’identità
nazionale che può arrivare sino al nazionalismo). Per
rafforzare il progetto stato-nazione occorre primariamente
rafforzare i legami tra i soggetti coinvolti. In ciò, i
mass media hanno un ruolo duplice e ambivalente. Da una
parte lavorano per potenziare la retorica delle istituzioni
e per proporre nuove forme di rituali di massa.
Dall’altra, essi tendono ad assumere un ruolo indipendente
e istituzionale (a sfavore delle altre istituzioni) ,
proponendo nuovi luoghi di identità e nuovi frame per
rituali collettivi e favorendo una crisi delle istituzioni
che si manifesta nell’opposizione tra legittimità e
autoespressione, tra coerenza e pluralità, tra stabilità
e complessità, tra monopolio e soggettivazione. Di fatto,
proprio perché i mass media sono serbatoi di simboli
trans-nazionali, una realtà modellata sull’atlante
politico non rende conto dei nuovi flussi e delle nuove
tribù che attraversano confini stabiliti. Solo accettando
con elasticità i nuovi mutamenti sociali è possibile
sopravvivere per lo stato-nazione sopravvivere alla propria
crisi, adeguandosi e mutando verso una prospettiva
“post-nazionale”.
II
I mezzi di comunicazione ristrutturano gli ambienti e
determinano nuovi spazi per la costruzione identitaria e
nuovi frame per le azioni e i rituali sociali. Tale
ristrutturazione ad opera dei mezzi di comunicazione di
massa avviene attraverso una compressione spazio-temporale,
caratterizzata da una potenziale estensione dello spazio in
cui i soggetti si muovono, da una compressione del tempo con
cui avvengono tali spostamenti e, di conseguenza, da un
incremento delle esperienze che gli individui possono
vivere. In questo modo, viene messa in crisi la visione
classica di una coincidenza tra identità, luogo e cultura.
Non solo le merci si muovo più rapidamente, ma anche i
concetti, le mode, le notizie. Paradossalmente, proprio la
rapidità degli scambi, che in sé sembra essere uno
strumento di incremento della ricchezza, può diventare uno
dei rischi maggiori: a livello finanziario, ad esempio, la
rapidità con cui una notizia negativa in borsa influisce -
grazie ai mass media – sull’intera piazza mondiale in
pochissimo tempo può avere conseguenze devastanti.
Il risultato dell’azione dei mezzi di comunicazione di
massa nel modificare il rapporto tra spazi, cultura e
identità è definito come “spazializzazione”:
l’ambiente in cui gli individui si muovono diventa uno
spazio aperto attraversato da flussi, tanto comunicativi
quanto culturali e di merci.
Tale fenomeno può manifestarsi attraverso la
“globalizzazione”, per cui l’intero pianeta diventa
un
unico luogo compresente, come nel caso della diffusione di
merci commerciali, di cibi o di musica da un capo
all’altro del pianeta; oppure, all’inverso, attraverso
l’a-spazialità e la de-spazialità, per cui lo spazio
si frammenta in numerosi spazi, in costante
ristrutturazione, villaggi e tribù (neo-tribalismo) in
costellazioni di culture disporiche che superano i confini
fisici e che sono determinate da elementi comuni simbolici o
materiali e così differenti da non essere in grado di
comunicare con le altre.
O, infine, nella dimensione reticolare. Proprio la rete, con
la sua struttura percorribile senza una direzione precisa e
con i nodi come punti di passaggio tutti ugualmente centrali
e periferici e senza gerarchia, rappresenta adeguatamente la
situazione della spazialità contemporanea. Non solo i
luoghi, ma anche gli eventi sono luoghi di passaggio dei
flussi indirizzati e smistati dai mass media.
Se i mass media sono serbatoi di simboli a cui attingere per
la costruzione del senso complessivo, la rispazializzazione
determina - citando Meyrowitz – una definizione della
realtà “oltre i senso del luogo”.
Semiotico, esperto del mondo della comunicazione, Andrea
Parato ha pubblicato le sillogi Da
luoghi intravisti e Il
nostro esilio quotidiano e vari articoli e saggi.
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