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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 71
Novembre 2005
Editoriale:
Fratello da sempre nell’andare
Mi pare che queste cinque parole di Chiara
De Luca siano cariche di humanitas (Matteo Zattoni),
di quella coscienza di appartenere a un organismo che supera e valorizza
la nostra individualità (Alessandro Moscè)
benché non sempre ci ricordiamo che il mondo non è riducibile
al nostro egocentro (Andrea Campanozzi), che i nostri
passi hanno bisogno di incontri (Franco Casadei), che
la realtà è condivisione (Rosana Crispim
da Costa) anche se a volte ci si sente stranieri (Gianluca
Brogna) e provocatoriamente profetici fino all'esclusione (Luca
Ariano). Buona lettura.
Tre
poesie inedite
di Matteo
Zattoni
Li vedono arrivare con le zappe
come un nugolo di vespe accerchiano
la prima siepe con l’inconfondibile
tuta comunale gialla e verde
gli innamorati a Istanbul sembrano abituati
a baciarsi mentre quelli come barbieri
della terra, sarchiano e potano
sfrondano i rami per i giorni di festa.
Altrove abbiamo altri problemi:
i decespugliatori automatici fanno stragi
di ricci, la perfezione dei giardini
spaventa le coppie come il loro abbandono
tutti noi cerchiamo un angolino
dove stare tutt’uno con l’erba in solitaria
contemplazione del verde, mediamente infelici
finché parte il timer e arrivano gli zampilli.
***
Io non voglio diventare vecchio
perché lo sono già stato mille volte
(Davide Rondoni)
Dunque è questo il rifugio degli anziani
è qui, oltre queste rampe di scalini
che si compie quell’attesa innocente,
dove le gambe ora indugiano, malcerte
lungo la quiete bianca dei corridoi
e così li vediamo noi, quasi costretti
entro il nulla silenzioso delle loro spalle,
eppure i vecchi hanno il linguaggio degli alberi
che lanciano al cielo i rami, anche se spogli
bisbigliano col vento che ancora li tenta
ma il loro fluido movimento è dentro
gli strati della terra, nelle sue fenditure
ha messo radici quella infinita solitudine.
Reparto di Geriatria dell’ospedale Pierantoni
***
I muretti di Castrocaro
Ritorneremo una sera a passeggiare
ancora, sui bordi stretti dei muretti
con la stessa paura d’inciampare
e cadendo, sbucciarci i ginocchi
ad ogni passo si conferma l’incanto
di quella mano che, giù dal basso
e per tutto l’arco, ha sorretto il moto
del nostro corpo, senza chiedere altro
in cambio, che un ridere spontaneo.
Matteo Zattoni
è nato a Forlimpopoli nel 1980. Studente di Giurisprudenza, ha
pubblicato la raccolta poetica Il
nemico (Il Ponte Vecchio 2003, Premio Giuseppe Giusti) e suoi testi
sono comparsi su varie riviste tra cui «Specchio» della
Stampa, «Confini», «La gru». Nel 2003 ha vinto
la Sezione Giovani del Premio Aldo Spallicci. È tra gli autori
dell’antologia Nuovissima
poesia italiana (Mondadori, 2004). Recentemente ha pubblicato Il
peso degli spazi (LietoColle, 2005).
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Ho
fatto viaggi che neanche ricordo
di Gianluca Brogna
Viaggi
Ho fatto viaggi che neanche ricordo
Eppure ero seduto ancora su questa sedia
Ho navigato dentro me, e invano…
Vorrei districarmi dalle mie visioni
sono fitte come una vegetazione di mangrovie.
Affondo con violenza il macete nel tronco
osservo fuoriuscire lentamente la linfa,
vorrei abbeverarmi a questa fonte, perché in me tutto è
prosciugato.
Essere straniero è la mia condizione continuata
Cammino per strada e non mi riconosco nei miei simili…
un confine invisibile segnato a china dentro me…
Indelebile.
Non è un punto di osservazione privilegiato,
condanna perpetua…inizio ripetuto…
Come Sisifo rotola il suo sasso io rotolo la mia esistenza
Ricomincio sempre da capo, il tragitto è sempre lo stesso,
non ho prospettive.
Ho venduto le mie cartine in un bazar orientale,
Era segnato un percorso che non riuscivo a seguire,
Ora mi affido alle mie sensazioni…
la strada che percorro non è quella più breve,
troppi viandanti, troppi rumori potrebbero distrarmi,
seguo la pista discosta, così potrò perdermi facilmente.
Il paesaggio… è arido, aspro, roccioso
mi osservo intorno,
come se mi rispecchiassi…
Ho lasciato delle orme con le mie scarpe, ma svaniranno presto
nessuno le troverà…nessuno mi seguirà,
sono destinato a continuare da solo questo viaggio…
Un certain regarde
Lo schizzo verde del mio viso
Non è contenuto dal foglio,
Trabocca…
La grafite si sfalda sul legno,
solchi d’amore…
come graffiti sulla pelle,
vermigli…
la mia anima è osmotica
cellula universale che scambia fluidi.
Sono intrappolato in depressioni blu…
avvolto in policromie di stati animo
Mi aggiro per la città colorata,
fondale della mia autorappresentazione.
recito a soggetto,
sono il coprotagonista in ogni situazione.
Calco la scena, ma sempre in secondo piano,
Il ruolo è calzante, ma non ricordo le battute,
piango nel secondo atto, ma è solo finzione.
Il copione è sporco, coperto di macchie scure.
Gioco con la mia vita, allibratore di me stesso…
Scommetto sul cavallo perdente, ha riflessi blu notte.
Retto da un fascio di nervi in tensione,
tingo l’anima con sensazioni d’indaco…
Un burattinaio ignoto mi manovra, tirando i tendini.
Non smuove le mie sensazioni,
i fili sono rotti,
Ottiene sempre la stessa smorfia grigia…
Patetica…
Caprioli
La scienza non è un traguardo,
ma una modalità dello spirito.
(F. Marc)
Guardate i caprioli sono là…
nel bosco…
Tagliati a pezzi dalla luce, si ricompogono geometrici…
zoorigami pastosi di colore.
Vetrata gotica montata in fretta da operai daltonici.
Musi triangoli
Zampe rettangoli
Orecchie rombi
Colori caldi intrappolati da linee rette
I miei occhi non possono vedere che frammenti di natura,
Quello che rimane sono schegge impazzite.
La natura ha aritmetriche policromie,
L’uomo vuole calcolare, vuole ordinare
Misura di tutte le cose…archivista dell’universo.
Sono i colori dell’anima quelli che si possono sognare…
chiudo gli occhi,
osservo il bosco, è buio…
discosto le foglie-quadrangoli,
fruscio geometrico…
fuggono i caprioli in scaglie di paura.
Pigmenti
Il silenzio è bruno,
pastoso… steso a larghe pennellate,
tela in preparazione.
A tentoni cerco il muro,
i confini di questa stanza…
l’intonaco è ammuffito, si sfalda farinoso
sotto i miei polpastrelli.
Intrappolato in grumi di angosce
Non riesco a stendere in uniformità cromatiche
Le mie sensazioni,
e non c’è solvente che possa diluirle.
La trama è troppo larga,
I colori passano sul retro…
Si mescolano pastosi in accoppiamenti impossibili,
Si addensano come escrescenze cancerose.
Rappresentazione ancipite della mia coscienza
Sorride Giano
Digrigna Giano
La porte del tempio sono chiuse,
la mia anima è spalancata…
Periferia
Mi perdo nella città-periferia
Oppresso da palazzi-muraglie soffoco
come un claustrofobico.
Squallidi caseggiati, intonaco scrostato,
Portoni d’ingresso in scadente alluminio dorato.
Le periferie sono tutte eguali,
Le riconosco dai colori:
Grigio e marrone.
Paesaggi dipinti da un pittore svogliato…
La desolazione non si trova nelle cose
Le cose riflettono gli uomini,
la desolazione la leggi negli occhi della gente.
Terreno incolto si alterna al cemento,
Campi desolati…
L’erba non vuole crescere
Il verde sarebbe una macchia di colore impazzita
Troppo vivo, troppa vita…
Geometrica desolazione,
Qui
L’uomo vive intrappolato fra linee rette
Prismi, cubi, tetraedi…
Guardo in alto, scruto il cielo,
Tonde e morbide le nuvole nascondono un eden che non esiste,
l’inferno è grigio e quotidiano.
Gianluca Brogna
nasce nel marzo del 1976 a Napoli. In questa città si è
laureato in Lettere moderne con una tesi in storia della critica d’arte,
e vi continua a vivere anche se progetta di abbandonarla definitivamente.
Ha fondato insieme ad altri due scrittori napoletani il gruppo “Quiche”
e da due anni organizza readings di poesia in alcune librerie della
Campania.
È solo un osservatore, e la poesia è il mezzo per descrivere
tutto quello che lo sguardo riesce a percepire. È sempre stato
affascinato dalle immagini, e dalle sensazioni che proiettano sulla
coscienza.
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Da
Preghiera (poemetto)
di Chiara
De Luca
Cristo che piangi di brina al mattino
su di me che stanotte ho atteso il tuo arrivo
Fratello che ti condensi tra i rami
e in occhi d’acqua nelle mie mani
Cristo che induci il sole ad uscire
a scostare le tende della notte a riaprire
i vetri del buio chiusi a schianto sul mondo
accogli il mio canto inducimi a dire
i brandelli di luce raccolti per terra
nel chinarmi stanca dopo la guerra
per avere nel palmo l’infinità
che in città ogni giorno in sordina ci viene
dissolvi gli incubi delle mie notti
solleva l’incudine della memoria
lascia che si levi in alto il mio pianto
si versi e conversi in note d’uccelli
infusa la voce in cori di festa
che intorno intona l’orchestra del giorno
sulle nostre giganti e nascoste miserie
a stonare di notte sulle strade deserte
dalle gole aperte di chi ha scordato
di custodire ciò che ci hai dato
dalla mia gola strozzata dal pianto
a chi ha spezzato le mie ali per vanto
per secoli interrompendo l’incanto
lasciando quiescente l’anima in alto.
Dimmi, Fratello che ritrovi la strada
per uscire dai rovi e gettarmi nell’erba
e che specchi i miei occhi a riaverli
nel centro del viso per aprirsi sul fiume
dimmi che gli rubi svelta la fuga
la foga dell’acqua contro i rami spezzati
che riaffiorano appena dai fiotti impazziti
ingrassati di pioggia violenta stanotte
il tuono di mille anime rotte
e il lampo di madri che hanno visto cadere
i figli e non hanno potuto morire
come mia madre che per non vedere
si è velata gli occhi della luce del giorno
si è legata le mani con la furia del vento
rinunciando la vita e accettando la morte
per schianto del frutto portato nel grembo
che il temporale minacci soltanto
di sottrarci l’amore, la luce, l’incanto
che ci imprigioni nella gola urlante
della notte che ogni giorno si apre imponente
che fonda improvvisa al mattino le sbarre
la fiamma violenta del sole in un varco
a colmare di vita l’assenza e la terra.
(…)
Lascia che taglino le forbici
di luce il campanile della chiesa
e cucia il vento un passante
all'imponente cintura del cielo
ingrassato di caldo e di canto
s'imbeva il cotone di nuvole
d'un liquore aereo d'azzurro
e pianga dagli occhi del sole
al centro del cielo una fune
d'ocra giallo e arancione
che rompano code d'uccelli
la pallida scia d'un vecchio dolore
che non debba estirparmi dal ventre
come un cancro un furioso
sentire innocente
e non debba mai più abortire
ogni giorno come un figlio
l'amore.
(…)
Cristo in un cielo capovolto
palazzi di sbieco in finestre d’ambulanza
Cristo nella luce insetticida della stanza
d’ospedale in una mano d’infermiere
Cristo svanito in chi predica la fede
come chi più della vita
ho amato, e ti ha smarrito.
Fratello accanto mentre corro lungo il fiume
nello slancio delle gazze tra gli alberi
e nessuno, Cristo lungo il muro
dove stanotte i trafficanti hanno venduto
morte tra i murales e le scarpe rotte
legate a stringhe nel forcipe di un ramo
nella mano di un vecchio che accarezza piano
la testa del suo cane e guarda il cellulare
Fratello da sempre nell’andare
cadere sprofondare e resuscitare
coi polmoni in piena nella foga della danza
nel passo lungo della mia costanza
Cristo negli amici preservali nel sonno
che ciò che stringe intorno non contamini l’amore
Fratello dammi la forza di restare
di non doverli un giorno abbandonare
per paura di perdere per sempre il loro bene.
Proteggi, Cristo, e custodisci gli occhi
di chi nella vita non ha fatto che donare,
Cristo, gli occhi senza male di mia madre.
(…)
Vedo lievitare la notte
gonfiarsi nel cielo
un amaro pane bollente
croccante dei canti dei grilli
nell’odore gravido dei ciclamini
sulla finestra a partorire
gemme che canteranno
ritte e protese domani nel sole.
In punta di piedi
arrampicate sul muro
le lancette dell’orologio
percorrono in cerchio le ore
mi lascio affondare
in fiotti di ventilatore
che scavano sulle lenzuola
e sulla pelle un sentore
di fresco mentre appassisco
mi accartoccio
nell’aria mi fondo
ricresco.
Cristo che stasera ti apri col sangue
un cratere di luce nel vulcano del cielo
straziato da lance temperate d’azzurro
erutta sul fiume la lava di nebbia
mentre scava nel cuore un ricordo d’orrore
che avvolga l’aria la pelle che scoppia
mi faccia nuda e nasconda.
Cristo accanto a quel letto gelato
nella sedata astanteria del silenzio
tra bende, aghi, sguardi, siringhe
Cristo inchiodato nella cappella
la mia fronte sul legno a non avere
coraggio, le ginocchia spezzate
le mani piagate, Fratello nel buio
tra le grida nessuno e il dolore
le tue mani quando infine la mente
liberata dal corpo con un guizzo di morte
era fuoco era luce era intorno e sussurri
più niente, un ritorno e soltanto pensiero
lo scivolare incosciente
via tra le dita a me stessa
non paura né buio, e poi voci
asciugate, lontane, riaccese, la teniamo
né tunnel ma vento, un sangue, fluttuare
senza parole preghiere, una luce un ventre
gigante, l’amore.
Cristo quest’oggi corpo pesante
la mente, e il passato un tornante
infinito e la strada in discesa, io ferma
sul ciglio, per terra, le ruote a solcare
vellutata la strada d’asfalto, Fratello
non fare che vada via l’aria
la lava e l’aprirsi, il cratere
la terra, il suo ventre, mia madre, Maria
Grazia, il fiume, la dolce
violenza dell’acqua, Nando, la furia del vento
il verde acceso dei quadrifogli e Nicola
Elena, il rosso
del cielo, non scivolarmi di nuovo nel buio
tienimi stretta e più stretta, la mano
nel crampo, stringi poi piano e più forte
tienimi e tienimi, che mi sporga, che vinca
il vuoto guardando, salendo, di nuovo
guardando, là in basso, che scorre,
il verdeazzurro del Reno
non lasciare che perda l’amare
pur non sapendo per nulla l’amore
non lasciare che scordi di perdonare
ma fammi dimenticare
quei lontani anni perduti
all’infinito e rinnovati
negli ultimi e il viso di marmo
di chi così bene ha saputo
risuscitare l’orrore, le parole,
senz’anima, tutto, e il suo nome.
Chiara De Luca
ha appena pubblicato con Fara La
collezionista.
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Suite
di capodanno
di Alessandro
Moscè
Qualche scoppio ritardato
infrange il freddo
calato nel pomeriggio
dei viali aperti
che corrono invano
tra le case, le luci
e le foto di gruppo.
La provincia nascosta
spunta dalle ombre,
dalle campane che suonano irregolari,
dalle voci dei televisori
di un quartiere senza giorni.
Arriverà la notte,
l’illusione di replicare il capodanno
con un’insolita dolcezza.
Comparso all’angolo
Lamberto cammina nel suo segreto allunato
e si infila dentro un cinema.
L’odore della malattia
copre l’amore
di una coppia in fondo alla sala,
stretta da una smorfia felice.
Non c’è traffico, non ci sono negozianti
nella città degli schiamazzi di sera
e dei nudi alcolizzati
assaporando la lingua di spumante.
Apre solo il ristorante fuori le mura
che conserva un odore di muschio
che sembra di anima.
Ai bordi dei letti
scende la gente sul tardi,
chi si riveste di abiti come fossero referti,
chi ha ancora sonno,
chi brilla di una nuova follia.
La caffetteria è chiusa fino al lunedì,
la solita che all’angolo della via
accoglie i violenti della notte
e i loro visi scavati dal fumo.
La vita, allora, è un vagare sbiancato
che si fa nero di buio,
di parole vane come lucine del presepio;
è un luogo di un altro mondo
se non c’è nessuno
che si lancia sulle superstrade.
L’aria è bianca e compressa,
la vedi,
sorvola sulla notte dei merli,
del giardino che guarda le mura,
in un perduto incastro di persone
conosciute e incenerite
nella memoria blanda.
Che dire
di quando tornerà il senso del feriale
e il cadere a terra dei rami sarà una prassi
come l’acqua morta della piscina
che sfiora l’ippocastano nella fatica,
nell’immanenza dei corpi fermi?
Questo silenzio è irreale,
non è più di una stagione,
il vento lo raccoglie
in cima alle scale del loggiato.
Una gioventù di venti anni fa
spia qualcosa e si rannicchia
sconvolta dall’inquietudine.
Ancora un botto che esplode
con un giorno di ritardo,
ancora un richiamo di malinconia,
per suoni che si spaccano di pietà.
Alessandro
Moscè (Ancona, 1969) scrive su «Nuova Antologia»,
«Il Corriere Adriatico» e su altre riviste specializzate
dove si occupa di critica letteraria e filologia. Ha compiuto studi
su Giorgio Saviane e sulla letteratura marchigiana del '900. Ha pubblicato
l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici
e visionari nel 2003 (il lavoro editoriale). Nel
2004 è uscita la raccolta di saggi dal titolo Luoghi
del Novecento (Marsilio). Ha curato un’antologia americana
di prossima uscita, sui poeti italiani del Novecento. Ha dato alle stampe
la raccolta poetica L’odore
dei vicoli.
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Come si
vede Dio?
di Rosana
Crispim da Costa
e Dio…
Come si vede Dio?
Abbiamo tanto bisogno di certezze.
Due nodi al posto di tre.
La sensibilità si allontana,
non si vede la bellezza del giardino.
Il cuore non spara,
il bambino non incanta,
il poeta non commuove.
Come si vede Dio?
Lui non si nasconde,
non si maschera di sacro,
è ovunque:
trasparente,
profondo come una nota di pianoforte.
Oggi ho raccolto i miei frutti
sporcandomi le mani di terra fresca.
Ho visto Dio.
Era mele, castagni e vento.
Canzone
Una mattina senza sogni
mi sono alzata nuda -
vestita solo di brezza.
Sono andata a visitare il giardino
che avevo dimenticato:
Aveva fiori che hanno resistito
al mio abbandono
Ho soccorso rose impoverite
annaffiando con il mio riposo.
Ho visto riflesso nel lago
la donna che non era più una bambina.
Le nuvole si sono unite nascondendo le stelle-
Triste o allegra sono rinata.
Mentre tornavo a casa
sentivo accordi armoniosi,
ho abbracciato il mio desiderio
vicino al camino e
ho cucito i miei tagli,
ricordando i miei amori.
Alla fine dei rammendi,
ha soffiato un vento feroce:
in quella notte sono diventata una canzone.
(Pubblicata nell’antologia Disarmonie nel 2003,
I classificata del Concorso Letterario Multiculturale, edito dal Comitato
Internazionale 8 marzo-Perugia)
***
in questo cocktail sanguigno
bolle
un’essenza sulfurea.
Please
Não preciso, no please…
non so con quale lingua devo dire:
“Non ho bisogno!”
Questa assurda competizione dell’odio,
fatta da gente convinta che sia per il bene del mondo.
No, forse non ci siamo capiti:
accendo la TV
(in teoria strumento di svago)
e dopo un po’ ingurgito pillole per dormire.
Cammino per la strada, vedo, affronto, ascolto -
Vivere non mi sembra complicato
ansietà, competizione, urla, disprezzo.
Il contrario del vero senso della vita.
Dove mettere la confusione del mondo?
Non esistono chiavi che ti proteggano,
solo maschere che ingannano.
Non ho potuto fare scelte.
Sono troppo giovane.
Non mi hanno consultato,
mi chiedono semplicemente di pagare il conto.
Non mi lascio indottrinare,
la fede è …contraddittoria.
Il potere diventa fanatismo
e verità a senso unico.
Non mi brucio,
non mi trucco,
allontano la pietà.
Solo una voce: desidero,
quella dolce dell’infanzia.
Io non ho perso la dolcezza,
fatico a ritrovarla.
Sono ancora viva,
mi etichettano con sufficienza “idealista”.
Sorrido
di vivere disintegrata
in un mondo cinico e materialista.
Tuttavia
sono solo un pagliaccio disoccupato
alla ricerca di una tenda
infine…
“Quanto perdo se cado ancora una volta?”
Rosana Crispim da Costa
è nata a San Paolo del Brasile. Vive da alcuni anni in Italia.
È stata premiata dal concorso Eks&Tra,
ha pubblicato la raccolta di poesia e prosa Il
mio corpo traduce molte Lingue, è inclusa in varie antologie
poetiche. Ha collaborato con diverse radio e televisioni private realizzando
servizi di attualità e costume. Attualmente collabora con l’associazione
Eks&Tra come docente di giochi interculturali e di recente ha iniziato
una collaborazione con il musicista Roberto Dusi come paroliere.
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Su
I giorni ruvidi vetri
di Alessandro
Ramberti
"Un tu incontrato, sei un altro / cambiato"
(p. 11). Casadei persegue una meta perché "Dal peccato ci
si può salvare, / non dall'utopia" (p. 27). Il non-luogo
è quello in cui l'io tenta di riconoscersi da solo, eppure ogni
"vera" solitudine è lo spazio di un confronto, il luogo
in cui si desidera "carpire / un bisogno di senso, un'orma / di
pietà non provvisoria" (p. 42).
Se in questo libro troviamo efficaci immagini naturalistiche –
"si graffia a fatica / sui vetri dell'auto / una scheggia di cielo"
(p. 52); "fronde di rami / chine lugno i prati / come frati devoti"
(p. 37) – ci sembra che la forza poetica dell'autore si esprima
al meglio nei suoi versanti "oggettivamente" intimi, senza
cadute liriche, ovvero nel mettersi in gioco come uomo usando parole
sincere ed esatte, cariche di un'umanità umilmente esemplare.
Si vedano, fra le altre, le poesie Quesito, Presunzione, Un silenzio
presente, Il figliuol prodigo. Riportiamo di seguito quest'ultima:
Il figliol prodigo
Adolescente d’insana baldanza
fuori tempo mi sono insediato
in villaggi di fortuna
il diario è un calendario
di rovine, accecato da ori non vagliati
adoratore d’idoli del nulla, ho vagato
per sentieri avari, l’anima segnata
dall’ignominia della nostalgia
ho bisogno d’uno sguardo d’accoglienza
senza parole pronunciate,
di ascoltare i passi lievi che s’accostano,
farmi investire della tua memoria
la mia forza sarà una misericordia
disposta alla sconfitta.
Franco Casadei
(Bertinoro di Forlì-Cesena, 1946), medico otorinolaringoiatra,
vive e lavora a Cesena. Dall’età del liceo compositore
di zirudèle e filastrocche in vernacolo romagnolo, solo
dal 2000 scrive liriche in lingua italiana. Impegnato in ambito sociale
e civile, già responsabile dell’Associazione “Medicina
e Persona” di Cesena, attualmente coordina il gruppo “Amici
AVSI” di Cesena che opera a sostegno dei progetti dell’Associazione
Volontari per il Servizio Internazionale, presente nei paesi più
poveri del mondo. Ha vinto diversi premi e pubblicato I giorni
ruvidi vetri (Società Editrice “Il Ponte Vecchio”
di Cesena) nel settembre 2003.
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Menu
di Andrea
Campanozzi
Da un menu senza prezzi
scegliamo
la sfera
che non traccia,
il perimetro
che non trattiene,
il motore
che non raggiunge.
Tu scegli noi
e il fragore
della pagina voltata.
Andreia
( Mia unica, mia sola poesia non scritta)
Andrea
Campanozzi è stato recentemente inserito nella Coda
della galassia.
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Trent’anni
dopo
di Luca
Ariano
L’hai chiamata in quelle torride
sere la pioggia
ed ora è arrivata a scrosciare
sulle strade allagando cantine.
Ti hanno ritrovato quei capelli di lago
sorsi di sorrisi da versare
sulla tazza di petto:
sono tutte belle le donne,
e lo dici – appoggiato
ad una colonna pavese –
deglutendo boccate di fumo
o cavando dal fango ruote impantanate
in un’avida camporella.
Si squaglia il mascara sull’autostrada
e il tuo pezzo di cartone
è ormai buono solo come carta da bagno,
volto da emigrante del ventunesimo secolo.
Trent’anni dopo non puoi non pensare
a quel cuore scoppiato, spappolato fegato
nella cassa schiacciata,
negli istanti fracassati del corsaro
all’Idroscalo di Ostia:
le parole non erano ancora profezie
solo per i ciechi
ogni giorno muore un poeta.
Luca Ariano è stato recentemente
inserito nella Coda della
galassia.
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