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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero
60
Dicembre 2004
Epiloghi
iniziali
Questo numero natalizio è particolarmente ricco.
Vi offre gli scritti di autori emergenti o già emersi che lasciano
traccia con umiltà: un narrare e un fare poesia che cercano di
dire qualcosa, di emozionare i lettori distratti di oggi. Ecco allora
un racconto di Giovanna Passigato, intense e provocanti
minisillogi di Luca Ariano, Adeodato Piazza
Nicolai, Narda Fattori (presente anche con una
recensione su Nebbia e cenere
di Baldini), Luigina Bigon; le riflessioni di Drazan
Gunjaca, due recensioni di Marco Giovenale a Nel
crescere del tempo di Ferrari e a Poesie
della non morte di Ricciardi, un brano di un evento
teatrale di Nicola Rosti. Felice Natale e buon inizio
2005! (Vi ricordiamo che le parole in rosso sono linkate).
Piccola
estranea
di Giovanna
Passigato
Era gracile, col mento a punta, e l’aria di una
lucertola che ha perso la coda. Il suo colore astrale poteva essere
il verde, quello delle foglie. Apprezzai l’impaccio con cui le
sue magre dita nervose incartavano il flacone di Pasion Cruel e facevano
il nodo al nastro, un nodo irregolare, rigido. L’amai subito,
per quel nodo maldestro.
L’aspettai fuori dalla profumeria, la sera stessa; aveva un golfino
pallido come lei, la scarpa destra senza il soprattacco picchiava sul
selciato, impietosa. In pizzeria, da Mama Bea, mi rideva con i suoi
dentini radi, una chiazzetta di pomodoro all’angolo della bocca.
Non avevo da offrirle altro che il profumo che avevo comperato (per
Inez? per Anita? o per qualche altra i cui connotati, nel corso della
serata, andavano svanendo come respiri nella nebbia?).
Mi disse, seria: “Non sono quella che pensi.”
La frase, l’avevo già sentita altre volte. Ma il suo tono
mi colpì, mi parve come un sotterraneo tentativo di mettermi
in guardia (una sfumatura, non di più). Poi riprese di colpo
il suo chiacchiericcio leggero e futile, raccontandomi di sé,
dei suoi fratelli, del suo lavoro prima di sciampista, poi di commessa;
mi deluse – era proprio banale – infiorava i suoi discorsi
di cioè e di io veramente insomma. Poi i suoi
occhi grigi, di nuovo, la tradirono, come se dietro le pupille ci fosse
qualchedun altro.
Prima di salire in macchina esitò un momento, e ancora mi guardò.
Finimmo nel primo motel che incontrammo sulla statale per Tampico; chiudemmo
subito i vetri, per via delle zanzare.
Fu allora che percepii il suo profumo, dolceamaro e straziante; era
quello delle petunie.
Non portava calze né reggiseno; rimase con dei brutti slip, di
un rosa osceno, alti di vita come usa adesso (dove sono finiti quegli
adorabili cosi che arrivavano appena sotto i primi peli del pube?)
Mi parve che il suo nome fosse Alice. Non le dissi il mio.
L’incavo tra i seni sapeva di sale; quando arrivai all’ombelico,
la sua piccola mano mi fermò. Sollevai la testa, interrogando
con gli occhi.
Lei mi guardava, seria; sussurrò: “Ma vuoi proprio?”
Per risposta, le strinsi i seni, impaziente, le feci male; allora lei
gentilmente, ma con fermezza, mi scostò, mi fece cenno di attendere.
Nel silenzio caldo roteava una zanzara solitaria, la lampada al neon
della plafoniera sussultava negli ultimi spasimi.
Lei abbassò lentamente lo slip, arrotolandolo man mano sui fianchi;
il ventre pallido finiva in una pozza scura di pelo ricciuto. Ma subito
sopra, che cosa c’era?
Una piega delle carni, una lama d’ombra?
Lei si inarcò leggermente all’indietro, la pelle del ventre
si tese, e prima del pube una grande gonfia palpebra si aperse con lentezza
pesante, come in un risveglio dal sonno; ad una spanna dall’ombelico,
grigio e senza ciglia, si apriva un occhio, vero, completo di iride
e di pupilla. Poteva misurare otto o dieci centimetri di larghezza:
una ferita di spada, una sentinella a guardia del bosco, un sussulto
della creazione?
L’occhio mi guardò, con lenti morbidi movimenti mi avvolse,
esaminandomi dalla testa all’inguine (era quella, la sua visuale).
Alice disse: “Tutti, in famiglia, abbiamo gli occhi grigi.”
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Epilogo
e altre poesie
di Luca
Ariano
EPILOGO
Quelli che hanno letto un milione di libri
insieme a quelli che non sanno nemmeno parlare…
(Francesco De Gregori)
Rogge secche non più ruggenti
per la rugiada dell’ultimo temporale
s’intersecano tra strade assolate
di sporadiche biciclette e serrande calate.
“Eh, il monopolio culturale dei comunisti!”
Voci lievi in un panorama di gossip
stucchevoli d’editoriali tra tribunali e lettere
ancora palpitanti di sudori.
Risate obese in quella balera lomellina
dove il clangore di rotaie si mescola a musiche:
la Signorina Tristana ovvero stille stinte
in una notte ferragostana davanti ad uno specchio
che deforma stagioni.
Dalla finestra chiazze di verde maculano l’aria
e spuntoni di piracanta graffiano un cielo
zebrato di calura:
si vorrebbe in una valigia (forse una 24 ore)
rinchiudere la forza d’un Don Mazzolari
o il suono arcano e misterioso della lingua di Albino Pierro
e tra un curioso – Happy hour! Happy hour! Sabato
un altro "sfattone" ecstasiato steso alla stazione
… anche il 2 agosto.
BITUME
Nell’antisemitismo si accentua il valore
della tradizione come individuatrice della razza.
La tradizione ebraica è continua espressione di antiromanità.
(Teresio Olivelli)
Tu che già lo sentisti venire (l’autunno)
in quella pizzeria d’oltremare
con le tue mascelle francescane
mentre nell’album delle figurine ancora
si beatifica un altro martire – fascista, partigiano, razzista?
–
Sfogliando quel giornale provinciale
un’altra pagina di "Markette" in quella redazione
di Burgundi: da un blog partire all’assalto
di grandi schermi maritandosi il suo figlioccio.
"Perché tu devi pulire la sburra
del tuo godio!" – ululava –
nella notte di cimici nelle lenzuola
e di camicie alla naftalina: dalla strada di nuovo
si sente il gusto del bitume fresco.
Ritornare nell’attesa dei baci sulle panchine
in Via Pietrasana, all’appuntamento all’edicola
del Cairoli ma giù un Costantino della domenica
- col suo cambio shimano – pedala rapido.
Riapre la vecchia corte di vino e tisane
(suoni un po’ fusion) e chiudono caffè coi tavolini
abbandonati ai primi frizzi:
"Un cane lupo non è un lupo!"
ACQUA SGASATA
Forse sono il re / degli imbecilli, / l’ultimo
rappresentante / d’una dinastia / completamente / estinta che
credeva / nella generosità /e nell’eroismo (Corto
Maltese)
Un cielo d’arancia
– allarme d’inverno! –
colora l’aria di foglie morte,
di pozze dopo pioggia dove riaffiorare
trame: "La Silvia la Sara la Stefania
la Sabrina la Chiara la Paola
la…la…la…"
E da quella sedia a ruote osservare
sgroppare cavalli (e tu chi sei?)
mentre le parole si dimenano
in quella cantina di “sfattoni”
(Ride chi ha nel cuore l’odio
e nella mente la paura)
"Perdonami per non sapere dei cd…
e non portarti a ballare!"
– "Lei veniva giù per te!" –
- "E tu a chiedere: quando ritorna?"
innamorarsi un pomeriggio
dopo la sera – in un pub – finisce tutto
in un altro modo;
è troppo corta la goletta per un viaggio
di Corto:
"Sembri uno sbirro!"
e le nevrosi s’ingrigiscono confondendosi
al cappotto maculato d’acqua,
silenzi scroscianti nell’acciottolio
davanti a qualche isola di Pirla
– "Un altro giurislavorista freddato
col corpo ancora caldo sotto una coperta!"
Esplode una vetrina d’un’altra agenzia
interinale:
"Dovevi baciarmi!"
"Dovevi baciarla!"
La routine di quel telefono che non suona
– saecula saeculorum –
una bottiglia frizzante ormai sgasata
che non disseta più in quello sguardo calato
– stridulo fischio
nella fine mesta della gara.
"Ma davvero il Führer edificò Buchenwald
dopo aver visto Metropolis?"
CARMINA PANEM NON DANT
Comincio a sospettare che mi abbiano
Spinto nel posto sbagliato.
(Vittorio Giardino)
Virus interagiscono parole
che si sarebbero dovute proferire
senza mescolare le carte:
gelida cola scioglie la ruggine nella gola.
Da quel sellino si era padroni delle stagioni
e lo sguardo si posava a spigolare pannocchie
da bollire in quella pentola di rame,
funghi all’ombra d’un castagno, mani spellate
un po’ ruvide sul manubrio:
"Preparati! Si va…"
Prendete quei poveri versi da strimpellare
per la Carlona (Carla è solo il nome d’una trattoria),
la figlia del giornalista del Corriere
– carmina panem non dant –
mentre Odisseo stermina i Proci
– "Ma non erano culattoni?" – Argo abbaia alla
luna.
Dulcamara alla sagra del paese (a reti unificate)
vende il suo Elisir – come insegnò il Minchia
e un Lucignolo tesse trame di Penelope
impalando pensieri.
La stamina gonfia lo sguardo più del tuo viso di bambina
sul vagone d’un treno verso riviere:
"No Pasaran! No Pasaran!"
Nelle orecchie di Max quando a Bologna Pezzo
e Zanardi si chiudono in qualche Osteria di Poeti
dove schitarravano canzoni popolari.
L’attesa d’una settimana scemata in una festa
senza festeggiati, carezze sfiorate
- quasi di nascosto per rimanere nel limbo,
Stige da traversare bevendo una tazza
e l’incontro d’una sera termina tra lenzuola,
calanchi da stringere e capelli da rasare
come uno strapiombo di vento.
ROSINA
Voi sarete i servi del potere di domani!
(Ionesco)
Rosina – nubile – s’appropinqua
sul ciglio del fosso: una sottoveste
di biacca per nocchiero (Palinuro?)
mentre sfilano balilla e topolino,
le ultime biciclette della sera
si mescolano al vapore pendolare del treno
nel viola degli ultimi sussulti:
"O bella campagnola!"
Piedi scalzi e mani formicolanti nell’acqua
fredda di zanzare e salamandre:
vento di beccacce e soffi di rana
mentre qui ai bordi dell’interland
dove si perde la Lorenteggio sbocciano fungaie
di mattoni – non arriva la metropolitana! –
e i gas scivolano oltre il ponte di Gaggiano
– sulla costa del Naviglio.
Crepitano schermi nell’alto volume
d’un Mefisto imbonitore: giochi di prestigio
alla luce dell’Aurora.
Si smarrisce un telefonino:
"Niente squilli! Niente messaggi!
Addio rubrica!"
Rosina ritorna a gettare le dita
nel tepore d’una filanda: vignette a china
in bianco e nero fumanti in un piatto di polenta
quando già a colori s’un sedile ricompare
un cellulare.
"Ancora mms! Ancora display lucido!"
E i lampioni trafiggono foulard di foschie
– lievi tocchi di kashmir –
in sala la noia d’un altro film con Accorsi
e sulla sella pedalando un nonno:
"Quanta strada ha fatto Bartali…"
Luca Ariano è
nato nel 1979 a Mortara (PV). Nel 1986 si trasferisce a Vigevano. Consegue
la maturità classica al Liceo "Cairoli". Dal 1998 vive
e studia a Parma. È del 1999 la raccolta poetica Bagliori
crepuscolari nel buio (Cardano, Pavia). Sue poesie sono
apparse su riviste (Tam Tam,
La Clessidra
e Il
Foglio Clandestino), siti letterari (Frontiera,
Orizzonti,
Faranews, Porpore
e Nuovi
Scrittori) e in antologie (Poesie
del nuovo millennio vol II ed Orizzonti
di guerra. Tra un fiore colto e l’altro donato di Aletti
editore, Oltre
il tempo/11 poeti per una Metavanguardia, curata da Gian
Ruggero Manzoni per Diabasis). Diploma di merito al premio "Ignazio
Silone-Parma" (2003-2004), collabora con i siti Pagina
Zero, Il
Foglio Clandestino e La
Clessidra. Partecipa a reading di poesia e festival.
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P.S.
I love you e altre
poesie
di Adeodato
Piazza Nicolai
P. S. I LOVE YOU
At the Globe Market
I meet Hamlet’s cousin
who’s looking to find
Victoria Secret’s new
Passion Lipstick: they
are all sold out so
we take the subway.
It goes to New London
where on the black market
one finds all that matters
(even gold sweaters). It
only takes money or other
exchanges to purchase
elixirs perfumes & elisions.
Later we fix our contusions
emitting wild clatter
about the mad hatter
who’s stolen life’s potion
on sale at Harrod’s as
the most recent profusion
of Hamlet’s last cousin…
Padova, 11 January 2003
DOPO IL DECAMERON
quello doversi più tosto porgere
dove il bisogno apparisce maggiore
(Boccaccio, Proemio)
Non quella del fiorentino ma quella
del casarsese sarà la novella
che voglio narrare: petrolio è l’oro
che soffoca il mondo, fomenta
la guerra in Iraq, insanguina tutta
la terra. La morte contamina
il nostro pianeta ma continuiamo
a volare guidare affollare cieli e
mari. Nessuno spegne i motori.
L’ecosistema s’ingorga di fumi
rumori e veleni mentre la plebe si
scaglia infelice verso Armageddon.
Il nipote mi domandò: è caldo
o freddo l’inferno? Non so come
dirgli che tutto dipende da lui.
L’immobilità era quella che segue
una bomba, un terremoto e
la paura era assoluta; il caos
stratificato per sempre: palazzi
strade case distrutte, treni saltati
per aria, corpi bruciati, fiumi essiccati
cani sventrati. La luna guardava tutto.
Dimmi, nonno, perché non rispondi?
perché sono morto mentre cammino
al tuo fianco. Vedi quel grumo
di neve rosata? È la carcassa infinita
che annaffia il domani svuotato
di madri e bambini. Faremo crescere
solo maiali per questo porcile proposto
da Circe. Tutti i motori verranno
attivati dall’energia nucleare quando
il petrolio sarà esaurito e nel frattempo
spingi, nipote, la ruota del mago destino
poiché l’apocalisse non è né principio né
fine, è solo l’abisso immortale/immorale
mentre lo stupratore non può mai sapere
l’atroce dolcezza sofferta dallo stuprato...
(Vigo di Cadore, 28 ottobre 2004)
LA MIA PICCOLA ODISSEA
I
Come un certo fiorentino cammini
con gli occhi fissati sui tuoi piedi,
forse temi un totale sbandamento
che ti ficca nell’inferno senza
riconoscere la giusta malabolgia.
Lungo i marciapiedi di Chicago
avevi dialogato con Lucifero vestito
da manager superbo, senza vincere
lo scontro. Quella volta la partita
si era conclusa zero a zero però ti
sentivi sconfitto. Curve le spalle
ti eri nascosto in periferia per
rifocillarti. La ripresa ti era costata
una vita. Rimpatriato dov’eri nato
avevi ripreso la lotta con più
cautela, furbizia, tenacia. La brutta
notizia fu la scomparsa dell’innocenza
che ancora credevi protetta dalle pieghe
di queste montage selvagge. Era
crollata con le valanghe che scendono
a valle dentro canali rocciosi scoscesi.
II
Così te as ciatou le radis de la toa lenga
che te credee de avè sepeliu te l’autra
sponda del mar. Ma l’é na giotha
che sbrisa sote la tera e no se la vede
par tante àne, e cuanche manco te
te la spiète la schitha par aria come
falìse dal fuogo tel larin. Somea l’pecà
original che no te sas cancelà da cuanche
te ses nasèsto. Pì te lo lave, pi te lo
vede davante ai to ocie.
III
Imagine Ulysses walking down
Michigan Avenue some Sunday morning,
left hand inside of his pocket jingling
quarters and dimes; almost in coma
the homeless mumbles: “you got some
change?” The wily Greek looks at him
sideways, unfolds a sleek smile: “sorry,
my man, but I got nothing to spare.”
He turns the corner, stops at the news
stand, pulls out four quarters to buy
the Tribune. Who is the poor man today?
(Vigo di Cadore, 12 ottobre 2004)
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Il
silenzio della pietra-È vero-Su Nebbia
e cenere di Baldini
di Narda
Fattori
IL SILENZIO DELLA PIETRA
Il silenzio della pietra
non agita il mistero della scienza
altro silenzio immane piove dalle stelle
timido questo mio cauto stare
a labbra serrate contro il fatuo dire.
C’è veramente troppo chiasso su queste pietraie
di quotidiani andirivieni penduli sul nulla
blablablo bliblobla abla abla ablar
sorridente corte di nani e ballerine
mi si è squarciato il cuore infatti
qualche resistenza saltata un cortocircuito
non ho cuore per reggere le mie storte
le mie fragili caviglie i pensieri inerti
Il silenzio della pietra è un buon amico
tutela una privatezza fatta di niente
una taglia non conforme un voletto
rasoterra
la smorfia della fitta del dolore.
Nel silenzio s’impara la resistenza
l’e-sistenza che cova dentro un’orma…
È VERO
È vero – ho cambiato voce
m’infilo sottotono annuso tracce
paziente attendo e taccio
C’è troppo rumore attorno.
Ma nell’ingombra attesa
alleno i tendini al gran salto
colgo minutaglie appuntite
giro armata
con una rete a maglie strette
per schegge e frammenti
che altri dicono di poco conto.
E’ una sapienza da sopravvissuta
far conto del niente
tendere le orecchie al canto
del grillo e lasciar perdere
lo scampanio della festa.
Il rumore di una sola goccia
scaraventa l’universo sul soffitto
dentro la goccia attendo
il diluvio che laverà via
il belletto degli istrioni
e finalmente si starà nudi
contro il nuovo sole.
Su NEBBIA E CENERE
di Eraldo Baldini
(Einaudi Stile libero, € 11.50)
Avvertenza: non è un romanzo pulp. C’è
una storia, ci sono delle psicologie, più o meno dichiarate nei
comportamenti, ci sono dei drammi che sono lancinanti come ferite. Soprattutto
c’è un antieroe, uno di noi, uno qualunque, che, come tutti,
ha avuto qualche sogno da studente di provincia, che dopo la laurea
ha provato a cimentarsi un po’ nell’ambito della scrittura,
con qualche puntatine nel sottobosco artistico, senza esito naturalmente.
Di mestiere guida lo scuolabus. Bruno non è neppure troppo infelice
che la sua vita abbia preso questo percorso umile di tragitti nella
bassa ovattati dalla nebbia. Lo sentiamo attento ai suoi trasportati,
li ascolta, ne ha le confidenze, sa che ci sono mali invisibili all’esterno
ma scavano dentro abissi in cui smarrirsi, peggio che nella nebbia.
Passa al bar, lo conoscono tutti, gli vogliono bene, gli chiedono: “Ma
che cos’hai, con quella faccia stropicciata?”
Bruno risponde sempre niente, ma tutti sanno che il suo grande amore
lo ha lasciato, “senza un vero perché” come dice
un vecchio refrain.
Differenze di classe, di sentire, di ambizioni, o, più semplicemente
perché l’amore finisce, perché non basta uno solo
ad amare, perché l’amore è come una moneta: porta
con sé una croce, un dolore più o meno manifesto, un’inquietudine
che si sa e non si sa e qualcuno non lo sopporta.
Bruno va a vedere la partita di pallone al campetto, parla poco, esce
meno, ha dato il nome di Rusco al suo pulmino. Da quando Serena l’ha
lasciato, vediamo emergere sempre più evidente un altro tormento,
un tarlo ben più antico che sa di cenere, come nel titolo.
Rimosso dal paese, quanto mai vivo dentro di lui, c’è un
rimorso senza senso, un rimorso di bambino, una morte per fuoco, con
la cenere della sorella folle e arsa.
E il tarlo, dentro, scava, scava. E il tempo passa e corrode. E arriva
un Natale. Un Natale di solitudine che Bruno, nella sua corrosa coscienza,
non sa accettare com’è.
E c’è una prima morte, casuale. Poi c’è una
tragedia.
Il libro racconta come può nascere quello che sui titoli dei
giornali sarà definito “il mostro”.
Anzi non nasce: vegeta in noi, nelle persone qualunque che amano i bambini,
amano il gioco del calcio, guardano volentieri un film, visitano qualche
mostra, sono benvolute da tutti, eccetera eccetera.
Scarno, scorrevole, asciutto e nello stesso tempo pietoso, lo stile
di Baldini ci coinvolge: Bruno siamo noi. E la gente del paese, i bambini,
i suoi amici, anche loro siamo noi o i nostri figli, gli amici dei nipoti...
È con questa parola mai istrionica, che non gioca su nessun versante
ma quasi registra, neutra, che veniamo catturati dentro questa storia
di gente comune che ha le stimmate della tragedia.
Forse questa è letteratura o la letteratura che fa di una storia
un paradigma.
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I
corpi allungati e altre poesie
di Luigina
Bigon
I CORPI ALLUNGATI
Salgono le voci al Dio piangente
lamento, anime e lance
sotto la gola, inchiodano
corazze e morsi
nel violetto senza pace.
Calano le brume sui colli
preghiere,
gocce d'acqua sulle pietre.
Si alza il velo della memoria,
un flusso trascende l'accento
posto a confine tra la materia
e lo spirito. Voce solitaria
la parola del mondo
mi grida dentro, quasi urla.
Altre genti popolano l'eco
di un profondo umano
che si nutre del tempo
e del luogo, senza misura.
Vestiti di nero, i corpi allungati
quasi si perdono nei volti esangui
di una civiltà che si consuma nello sguardo
di chi implora giustizia
non più nell'ora della morte
ma del perdono.
(ottobre 2004)
IL VENTO SOFFIA DENTRO LE CANNE
La tenda cade leggera
sul pavimento, il lume
dei morti l'ho appena
acceso. Spenta la luce
le note del pianoforte
mi toccano come le
dita dell'amore. Sento
il profumo dei crisantemi
un lento naufragare
di anime e di corpi.
Il velo ha ancora una
sua carezza, non lascia
intravedere nulla.
Immagino gli scheletri
le ossa bianche mentre
il soffio mi sfiora
delicatamente. Vorrei
aprire gli occhi, poter
vedere ciò che non
appare, sentire il freddo
serpeggiarmi la schiena
e calarmi con loro dentro
le lingue della pentecoste
mentre il sangue diventa
fiammella. — Il vento
soffia dentro le canne,
i passi si fanno spessi
sotto il balcone, l'organo
vena di chiarori l'opacità
della stanza.
(1.11.2004 - h 22,05)
SCIA DI ZOLFO
Di' di sì, di' che credi.
Insistente il falsetto si fa stridulo
sapendo di mentire (io tu e gli altri).
Proclami una promessa:
è solo schermo privo di consistenza
nemmeno un velo.
Mattone su mattone costruisci
il castello invisibile
con le tante serrature a manico.
Nemmeno una nuvola.
La voce crepitante di malizie
lascia una scia di zolfo
(zoccoli sullo sterrato
dopo la pioggia, nell'aria odore
di terra e di escrementi).
A cosa credere se tutto è fumo
e appartiene a longitudini vaghe
a costruzioni inverosimili
come i gorghi delle burrasche?
Non rimane che un feticcio di polvere.
(giugno 2004)
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Invece
di un racconto-La pace
di Drazan
Guniaca
INVECE DI UN RACCONTO
Chi l’avrebbe mai detto che l’autunno sarebbe
arrivato anche in questo 2004, da queste parti non se l’aspettava
nessuno... È da un po’ di tempo che da queste parti nessuno
si aspetta niente, e quando è così, neanche i calendari
risultano troppo importanti. Con l’arrivo dell’autunno,
dopo le torride giornate dell’estate piene di cosiddetti turisti
(certi almeno pagano le notti in appartamenti con più “stelle”
che letti, mentre non si è ancora ben capito di che cosa vivono
finché sono qui), è tornata anche la monotona realtà
in bianco e nero. Da anni ormai non esiste più quella zona grigia
in cui una volta si campava. Ora abbiamo una zona nera, libera ed accessibile
a tutti, e una bianca, privatizzata spudoratamente, con un regime rigidissimo
che controlla chi vi entra e chi vi esce.
Nel nostro letargo ci sono talmente poche cose che possono darci sollievo
mentre aspettiamo il domani, ancora più insicuro. È difficile
vivere in un periodo dove soltanto l’insicurezza è sicura.
È ancora più difficile vedersela con quanto di arrogante
e irritante ci circonda e ci limita con la forza bruta dell’assurdo,
diventando sempre più fine a sé stesso. Chi causa tutto
ciò, a ogni nostro lamento, replica con urla assordanti, cercando
di volta in volta le ragioni dei nostri insuccessi nella guerra passata,
nel sistema passato, nel passato in generale... E poiché queste
ragioni non si possono rintracciare nel presente, non ci resta che rassegnarci
al passato, e così trasportarlo tale e quale nel futuro.
Dal momento che è così, non rimane altro che tentare di
trovare il modo per ovviare a quest’impotenza irritante, a questo
lato oscuro della nostra realtà. Come? In tutti i modi. Io tento
di farlo scrivendo. In questo modo si riesce a mettere a nudo questo
peso insopportabile, a semplificarlo e alla fine a riderci su con un
po’ di discrezione ed una dose dignitosa di amarezza. E poiché
questo peso non ha il minimo senso dell’umorismo (non l’ha
mai avuto) reagirà offeso e restituirà il colpo. Sa colpire
veramente brutto. Molto in basso e molto dolorosamente. Dopo un colpo
del genere non si è in grado di ridere per parecchio tempo perché
ci fa male, almeno finché non ci si riprende un po’. E
poi si ricomincia... chiudiamo ciclicamente dei periodi di vita conditi
di risa e dolore.
Tutto ciò può sembrare assurdo perché il risultato
è noto. Ma non lo è, anche se così ci può
sembrare. Una risata, per quanto possa essere amara, è l’ultimo
bastione della nostra dignità ormai intaccata che riesce a contenere
le piene di fiumi furiosi e torbidi, pieni di immondizia. Alla fin fine,
finché siamo in grado di ridere in faccia a qualcuno o a qualcosa,
la speranza esiste.
LA PACE
Immaginate in un domani un esercizio di fisica in una qualsiasi scuola
elementare del mondo, formulato come segue: “Quale distanza deve
attraversare la bomba che vediamo alla TV per raggiungere il nostro
caldo e comodo salotto?”
Oppure, se la domanda vi sembra piuttosto banale, ne potremmo fare una
più sofisticata, di un altra materia, ad esempio di logica: “Perché
la bomba che oggi guardiamo alla TV seduti in salotto, domani può
essere lanciata sullo stesso salotto da un aereo invisibile o dalla
mano di un promettente fanatico di non importa quale provenienza?”
Potremmo anche porre delle domande ulteriori del tipo chi è il
pilota dell’aereo invisibile, oppure chi ha inculcato al terrorista
pazzo quelle idee perverse, ma tutto ciò avrà ben poca
importanza per coloro che si trovano in quel salotto.
Considerando questo contesto, viene spontaneo chiederci: Che cos’è
la pace? La vita senza la guerra?
In parte. La risposta più semplice sarebbe: la pace significa
vita senza paura. Senza paura delle bombe, del terrorismo, delle persecuzioni
politiche, dei buchi nell’ozono, di stermini di vario genere...
Nella storia dell’umanità non si è mai avuto tanto
bisogno della pace come oggi, ma la pace, d’altro canto, non è
mai prima stata deprezzata a tal punto. Per questa ragione, finché
siamo ancora in tempo, cerchiamo di lasciare alle generazioni future
se non altro la speranza che la pace sia possibile. E il tempo sfugge,
lento ma inesorabile...
Sembra presuntuoso? Troppo semplice? È ben lontano dall’essere
l'uno o l’altro.
Drazan Gunjaca
(1958, Croazia) è autore di numerose opere contro la guerra,
di cui le più conosciute sono il romanzo Congedi
Balcanici ed il dramma Roulette
balcanica, tradotti in molte lingue e vincitori di numerosi premi
letterari. Ha recentemente ricevuto il premio Borgo
degli Artisti.
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Su
Nel crescere del tempo e Poesie
della non morte
di Marco
Giovenale
NEL CRESCER DEL TEMPO
I Quaderni del circolo degli artisti di Faenza pubblicano
nella loro Nightingale’s collana il libro di immagini di opere
dell’artista Marco Jaccond, Salpare-arenarsi,
legate alla silloge di poesie Nel
crescere del tempo, di Mauro Ferrari.
Quest’ultima è inquadrabile senza dubbio in un’area
di "poesia della sintassi" (e di pensiero): da seguire, analizzare.
Decisamente si tratta di pagine lontane dalla poetica della parola,
dalla purezza del vocabolo tornito/isolato. Il lavoro di tessitura ha
coesione "tonale", e nelle scelte quasi-narrative, o di meditazione
– più che filosofiche in senso stretto. Particolarmente
riuscite lì dove insieme al racconto sono sfiorate e sposate
ironia e allegoria (non in modo esibito, "facile"). Penso
a Notizie da Itaca, dove compare un Ulisse decisamente perdente, di
mestizia perfino icastica, stagliata; oppure a Quella volta strappammo
un pareggio..., luogo addirittura nodale nella raccolta, dove l’episodio
del pareggio ottenuto a durissimo prezzo è lasciato lontano e
ben al di sotto di ogni tentazione facilmente assertiva. Si tratta,
a mio parere, anche di una sorta di testo-vettore – freccia indicativa
– per itinerari di scrittura futuri.
Lì dove insomma si legano materia e immaterialità (memoriale
o più spesso meditativa, come detto), e soprattutto impersonalità
del ritratto, della scena, il libro ha quella densità semantica,
e capacità di essere quesito e conoscenza, che forse altrove,
in differenti pagine, è con troppa generosità affidata
alla sola immagine, o alla sola riflessione/dichiarazione, o infine
a un « noi » ben arduo da contestualizzare, in una storia
come quella recente, non corale, entro cui la silloge vorrebbe pur veder
agire la propria ricerca.
Un pessimismo non distruttivo (cinereo, di penombra) arricchisce altre
pagine. Forse la più riuscita poesia – assieme a quella
del "pareggio" – è quella alle pp. 101-103: Spiove,
e l’aria..., lunga carrellata su paesaggi comuni e meno, con un
virare conclusivo dello sguardo verso l’enigma. Cifra sotterranea,
ricorrente nei testi migliori.
Come è enigmatica – e di bellezza persuasiva – la
chiusa, il distico finale del libro, in corsivo: "Sia fatta la
volontà dei laghi, / altissimi, irrintracciabili".
(Nel crescere del tempo,
con opere di Marco Jaccond, Salpare-arenarsi,
Prefazione di Alberto Cappi, ed. I Quaderni del circolo degli artisti,
Faenza, 2003)
POESIE DELLA NON MORTE
Questo libro lavora nella direzione di una forma fluviale di discorso:
tracciato-magma assai dilatato: più che narrazione, è
accumulo di stringhe-frasi con marcati salti sintattici e enjambements
che generano il più delle volte troncamenti netti, "a picco".
Come le parti d’acqua di un fiume tagliate dagli argini in punti
che all’occhio non rivelano le proprie regole. E, logicamente,
vale l’inverso: gli argini del poema sono dati, più che
dal ritmo (sottoposto alla sintassi interna di ogni verso), dalle inarcature
forti o fortissime, come appena detto. ("parte bruciata del tempo
memorizzato nella / stella invasa e nelle stelle non / invase da rendere
così sottili i / pensieri…").
Ricorrenze e variazioni, nel flusso, sono la regola. Ma si tratta di
un iterare e variare di parole-segni: calchi di qualcosa che non è
dato. Per quanto la forma scelta sia "di addizione", di accumulo
verbale, è il fuggire del "rilievo" delle sue componenti
a emergere.
I versi sono appunto delle unità-stringhe che presto si sillabano
in sequenza. La metrica è sostituita da queste unità,
barre di successione entro cui a loro volta compaiono a intervalli (ir)regolari
quelle che definivo parole-segni: «stelle», «pelle»,
«acqua», «cielo»… Slegate da valori connotativi.
Come per molta musica elettronica, si tratta di cellule, particelle
e note ricorrenti, che nel semplice ripresentarsi trovano e anche incendiano
il loro senso, estraneo a intenzioni di architettura. (Non è
un caso che il libro sia scandito da sei disegni di Nicola Carrino intitolati
Decostruttivi).
Lo stile può – e contrario – ricordare una poetica
della parola, di taglio neoermetico: qui le parole-segni non echeggiano
nel bianco della pagina, ma nell’urgenza della materia opaca e
fluviale.
Allo stesso tempo – e senza contraddizione – questo medesimo
andamento poetico può affiancarsi a forme di scrittura di scena:
cataste accumulative, frasi "non intenzionate". Libere dalla
necessità della sensatezza, sia essa costruita o in sfaldamento.
(Semplicemente messa fuori gioco, fuori dal calcolo).
Notiamo infine che una ulteriore funzione delle unità-stringhe,
dei versi, è quella di arginare il magma figurale e delle nominazioni.
La sovrabbondanza di immagini, perfino "ingenue" (per voluto
meccanismo antiletterario), come macchie in continua apparizione e scomparsa,
è caratteristica significativa del libro. Anche un certo riferirsi
del testo a motivi (sole, paesaggi) riconducibili a Campana o ad Apollinaire
è dispositivo ipercolto. Voluto per "falsificare" una
ideologia del letterario.
Attraverso questa ricerca composita (flusso largo, apparizioni e tagli
"immotivati", link a luoghi letterari noti, moltiplicazione
di immagini) Jacopo Ricciardi può dire cose e paesaggi e luoghi
(e topoi) direttamente. Il discorso frontale è in questo modo,
non frontalmente, riproposto.
Virando su un costante "dar l’impressione" di riprendere
altri autori. (Senza però citazioni dirette; semmai attraverso
calchi di modi).
Tutti gli elementi fin qui elencati sembrano condurre a un archetipo
della poesia occidentale, a quel Bateau ivre che dà inizio, nell’ultimo
trentennio dell’Ottocento, al percorso della modernità.
Allo stesso tempo, ne sentiamo messo interamente in scacco il vitalismo:
il fatto che la morte venga bandita dal titolo del libro non porta ad
alcun candore di segno irreversibilmente positivo.
Il testo sospende, nel suo processo senza freni, il flusso che pure
ha avviato.
(Jacopo Ricciardi, Poesie della non morte,
Libri Scheiwiller-PlayOn, Milano 2003, pp. 128, Euro 10,00).
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La
cura
di Nicola Rosti
Vibrano, appena accennate foschie di lontano,
Dormendo, nei mondi di Dio, dietro a muri avvolgenti, giacciamo distesi,
sfiorati dai sensi,
alla luce incantata dei nostri silenzi.
Tutto è sospeso nelle sere d’inverno, il gelo, i tramonti,
rendendo il presente di un vivo esitante, appartato.
Insieme, nei fumi già caldi, di stanze da bagno, infondo ai palazzi
della nostra memoria,
osserviamo in silenzio il vapore dei corpi…
Istanti preziosi, come perle nell’ombra,
volano via nei respiri sospesi, insieme al profumo dei sensi.
Scendono, fra attimi scanditi, fragili gocce dai visi protesi,
L’acqua si innalza… una scia di chiarore… per sempre
i sorrisi… per sempre
Mai prima d’ora, il solo sfiorare poteva a tal punto parlarci
di noi, mai così tanto…
E per tutti quei giorni in cui il gelo feriva le mani…e le ore
in cui il mondo svaniva per noi
Piccolo principe ritorna al tuo fiore!
Avvolgimi l’anima con quello che in noi si riaccende tremante,
livido, impaurito e di sete assordante
Nelle notti d’inverno, in cui tutto riposa… adesso e per
sempre avrò cura di questo…
Il tempo è ciò che scrive col sangue io vivo,
io vivo è la cura del tempo che resta… di noi
Nicola
Rosti, nato a San Marino l’8 Novembre 1979, è diplomato
in Progettazione grafico-visiva. Inizia lo studio del pianoforte all’età
di sette anni; studia poi Armonia e composizione. Si diploma in chitarra
al corso Professional presso “Music Academy2000” (BO) e
al corso biennale “The Music Maker” presso Fondazione Arturo
Toscanini (PR).
Lavora 4 anni come tecnico del suono e arrangiatore presso lo studio
di registrazione Farmhouse di Andrea Felli. È compositore, chitarrista
turnista e tecnico del suono, si interessa di ricerca sperimentale in
ambito musicale. Ha all’attivo numerose collaborazioni e due installazioni
di Pittura e Musica insieme alla pittrice Riminese Alessia
Delvecchio. Tiene corsi di formazione in ambito tecnico e musicale;
frequenta il Corso di Laurea in Tecniche Grafologiche, presso l’Università
di Urbino e l’Istituto privato di Terapia Artistica ad indirizzo
Antroposofico (BO). Dal 2000 si dedica alla scrittura di brevi saggi
e di poesie.
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