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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 107
dicembre-gennaio 2008-09
Editoriale:
Storie, versi e meditazione
Si è felicemente conclusa la VII edizione del concorso
Pubblica con
noi ed è appena uscita l'antologia delle opere selezionate
per la pubblicazione: Storie
e versi. Potete leggerne alcuni assaggi in Narrabilando
e Farapoesia
(sono anche riportati i giudizi dei giurati e menzionate le opere segnalate,
mentre il certificato dei vincitori potete scaricarlo qui).
In questo Faranews di fine anno trovate Le creature addormentate
di Subhaga Gaetano Failla, tre liriche di Stefano
Cervini, Filari di mistero di Gilberto Antonioli,
Alberi di Maria Rosa Panté, O ator
segundo Camus di Iacyr Anderson Freitas con la
traduzione di Marco Scalabrino, L'amico di
Marco Bottoni, Con le buone emozioni di Paola
Renzetti. Concludiamo con una vivida testimonianza sulla lectio
benedettina di Dom Bernardo M. Gianni. Buon Natale
e felice 2009!
affresco nella
Abbazia di San Benedetto Po
Tre
liriche
di Stefano
Cervini
La mano alla vita
La mano alla vita ti ho posto, curva
come dell’anfore ricolme l’ansa.
Eppure ora io so
che non sono il vino
unico che mesci.
Sirena inesausta!
incanti, irretisci
e dalla rotta mia
come un marinaio
smarrito, diverti.(1)
Chi naviga (2)
Chi naviga già lo sa:
quando c’è maretta
ben saldo si tenga il timone,
e se qualche triglia
vorrà farsi ancora pescare,
ben venga!
Naufragi (3)
Guardarti m’altera il respiro.
Le forti curve dei tuoi sacri
fianchi m’intossicano dentro
e tutta l’immagine tua
acutamente punge.
Naufrago!
anche il cuore mio
come eterno Ulisse
si smarrisce
tra correnti impietose.
Note
(1) Da intendersi anche e soprattutto secondo l’etimo latino.
(2) Finalista nel Premio Les Luriques 2005.
(3) Finalista nel Premio Les Luriques 2005.
Stefano
Cervini. Vincitore del Gran Prix franco-itaLIEN 2007, del premio
Les Lyriques 2006, della sezione Poesia del premio Brevis 2006. Finalista
nella edizione I e II del concorso Le Figure del Pensiero, sezione Aforismi,
nonché del Premio Firenze 2005. Menzione d’onore nel premio
N. Martucci-Città di Valenzano 2008. Segnalazione di merito nel
concorso Pubblica
Con Noi 2005 della Fara Editore.
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Filari
di mistero
di Gilberto
Antonioli
La nebbia del tempo
La coltre di nebbia che avvolge nel silenzio
il volto malinconico dei campi,
ovatta filari di mistero
nella deprimente visione di rughe antiche
e copre l’ardore delle bacche nella siepe
frutto del risveglio dell’autunno;
ma io vorrei scoprire d’ogni tempo,
il rozzo suono che non blocca le stagioni
e cogliere il senso del suo vuoto
non distratto dal torpore della nebbia;
capanne di paglia rassodare
di solidi soppalchi, ancor vorrei,
per celare i segni dell’età
che annunciano il tracollo di certezze,
affidate all’intrigo di racconti
che antichi non saranno,
per l’insidia dell’inganno e della nota;
non ammaina la bandiera ormai sdrucita,
e con lentezza non consegna ad uomo alcuno,
il ritmico zompare dei secondi rigido sovrano
e non la nebbia, di filari di viti e non di sogni.
(Gilberto Antonioli)
Manca solamente un filo d’erba
Un filo d’erba solamente è il mio rimpianto
che fiorisca dopo il pesco a primavera,
ed attenda del profumo la sembianza
sui prati aperti e non sul solco d’un sospiro;
assieme al vento imbizzarrito nello spazio,
scopro un sogno che proietta sul tuo volto,
un segnale di sereno che ristora,
una stagione di ricordi che ritorna;
mentre colgo la tua immagine che vaga
il disegno dei tuoi occhi mi circonda.
Ombre piatte
Cerco ritmi
fra le righe e le parole,
per danzare fra gli sterpi
e non cadere,
cadenzata
come il rullo del tamburo,
si distende
l’ossessione dei ricordi;
una pozzanghera
interrompe i miei pensieri
impedendo
il riscontro dei riflessi
s’accartoccia
dentro il fango il desiderio
di scoprire nuove strade
e nuove fonti;
la ricerca non s’arresta
se al tramonto,
ombre piatte non cancellano
i confini.
Armonia
Il frusciare del rumore attento ascolto
del passaggio delle stelle dentro i cieli,
e raccolgo l’armonia del firmamento,
che lo spazio indisponente non trattiene.
Arriva un’onda che la riva non conserva
e disegna labirinti dentro il cuore,
mentre irride la risacca che ritorna
e non riprende poche note sopra il rigo.
Avvinto dall’immagine dei suoni
io coltivo soltanto l’estasi del bello
non ascolto la visione di battaglie
ma m’immergo in una selva del silenzio.
E nel dialogo del dubbio che ritorna
l’eco triste della luce ormai si spegne.
Cambio di stagione
Accompagno un volo di nubi screziate
che copre d’affanno il risveglio del giorno
s’innalza sui monti il ricordo di ansie
di silenzi e di luci e di sveglie sgraziate;
malinconia di grigiore sorprende il pensiero:
una stagione che muore prelude alla sera
e un'altra che arriva sottopone a tensione
l'intrigo dei venti che imperano audaci;
la natura ricambia, le foglie e le valli,
disegna di semi i sogni ed i volti,
dipinge stagioni colorate di grigio
e depone nei sogni richieste e speranze;
e poi narra il tormento che insidia la quiete
dell’uomo che spazia verso vette di verde.
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Un parere di Stefano Verdino: "Antonioli è un poeta che
trasmette le vibrazioni del suo temperamento non usando moderazione
ma immediatezza, che introduce, spesso, visioni difficili da cogliere,
perché immerse in una esposizione colorata di modernità,
di abilità coloristica, di una proprietà e dominio d'appartenenza
al verso. Si tratta certamente di una voce nuova, sconosciuta, ma validissima
che potrebbe in breve tempo, rompere le ragnatele che ne ostacolano
la visibilità, per esplodere accanto ai più rappresentativi
poeti contemporanei."
Gilberto Antonioli
è nato a Verona dove risiede. Dopo il pensionamento ha
conseguito la laurea in Giurisprudenza, Filosofia, Teologia, Filologia,
sta
per laurearsi in "Storia e Geografia dell'Europa". È
autore di una decina
di volumi di poesia (pubblicati) e di saggi (due su C. Rebora) da pubblicare.
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Alberi
di Maria
Rosa Panté
I
Le radici degli alberi
si aggrappano alla terra come dita
nodose di vetusti agricoltori.
II
Mani di rami dita di legno
rami a coppa mani calici
di dolcezze di sogni
di foglie di voglie
rami inarcati come palmi
incurvati prima forma
dell’offerta, del calice levato.
Rami come mani dita di legno
protese, sotto il manto di fronde,
a un cielo silenzioso,
fluido celeste fra mani di rami…
III
Arrivano le nuvole
l’ombra sbiadisce degli alberi
sul parcheggio d’asfalto infuocato.
E pare bello persino quel grigio
disfatto granuloso e accigliato.
Vivo appare e animato
dacché l’ombra trascolora,
dacché anche l’afa sbiadisce
e la chioma dell’albero
per un istante si riposa.
IV
Un promontorio d’alberi
s’affaccia sul mare d’erba,
dorato dalla luce opalescente
dell’autunno maturo.
Le tante foglie cadute
formano un tappeto che scrocchia
allegro, sotto i passi del viandante.
Nel cielo corrono le nuvole
e tutto è stato detto, l’autunno
voltato e rivoltato.
Resta intatto e indicibile l’incanto,
silenzioso, del naufrago
scampato all’orrore d’un mondo
eternamente incolore.
V
Dopo la pioggia le foglie
in un sommesso bruire
distillano l‘acqua goccia
a goccia come magici alambicchi
e par che piova anche là dove
imperioso è tornato il sereno.
VI
S’io fossi la cima d’un albero,
antico,
altissima a bucare il cielo:
allora sarei saggia.
Ben venga l’acqua che mi sferza,
giacché l’acqua è vita.
Ben venga il sole che m’abbrucia,
giacché il sole è cibo.
Ben venga il vento che mi squassa,
giacché il vento è canto.
S’io fossi la cima d’un albero,
sarei umile e grata
alle lunghe radici, esploratrici
l’essenza della terra. Estatica,
ascolterei il fremito
del loro inesorabile avanzare.
VII
Pascolo gli alberi del bosco
a che l’autunno cadano le foglie
con moto aggraziato e senza timore,
a che l’inverno le linee essenziali
dei rami tratteggi la neve,
A che la primavera
onori le chiome di gemme,
A che l’estate rivesta di sole
invisibili i rami tra le foglie.
Coltivo il mio fiume quotidiano
perché sia irrorato perché risuoni
maestoso e scorra sontuoso tra rive
sinuose, in rapide di ripensamento
per tornare al percorso consueto.
Ogni giorno coltivo il fiume e pascolo
gli alberi. Mi è necessario
per sapere che oltre me dureranno.
per sperare che un poco
di me mormoreranno
le foglie vibranti, le anse del fiume.
Maria Rosa
Panté è nata nel 1961 a Borgosesia, cittadina in provincia
di Vercelli dove vive. Insegnante di materie letterarie in istituti
superiori, attualmente si occupa della produzione di materiale multimediale
e ipertesti per la didattica. Ha pubblicato un libro di poesie e prose,
L’amplesso retorico. Voci femminili dal mito (2004) e
nel 2006 un libro di racconti: Noi che non fummo muse (Manni).
Ha partecipato a diversi concorsi di poesia e narrativa, conseguendo
premi sia per la produzione poetica, che per la prosa e la saggistica.
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L'amico
di Marco
Bottoni
Che, poi, non se ne esce.
Va sempre a finire così, che si alza un vento freddo, la candela
rischia in continuazione di spegnersi e in frigo non c’è
niente da mangiare.
Stanotte ha voglia di fare temporale, di nuovo.
Già poco prima che facesse buio del tutto, il cielo si era fatto
scuro, dalla parte delle colline.
È quasi sempre dalla parte delle colline che vengono su i temporali.
Quanto alla candela, rischia continuamente di spegnersi perché
è ancora troppo lunga.
Appena accesa, la punta della candela esce dal vaso di vetro di tre
o quattro centimetri buoni, e come si alza un po’ d’aria
la fiamma traballa, oscilla alla brezza, si contorce precaria, sempre
in preda ai capricci del vento, sempre a rischio di estinguersi, tormentata
e dubbiosa com’è.
Dubbiosa se spegnersi o no, voglio dire; e intanto in frigo non c’è
niente da mangiare.
Non una fetta di prosciutto, un pezzo di formaggio, un uovo, un salame
già tagliato.
Niente.
Solo del burro, una scatola di pelati aperta e, nello scomparto della
verdura, tre o quattro cipolle; niente che possa fare decentemente compagnia
a un buon bicchiere di vino bianco.
Se fosse più corta, la candela, allora la fiamma si troverebbe
all’interno del vaso di vetro, al riparo, e il vento non potrebbe
fare altro che carezzarla dolcemente, riuscendo al massimo a farla oscillare
un po’ a ogni folata.
Che, a pensarci bene, è anche più bella una fiamma di
candela che traballa un poco mentre si fa buio del tutto e, nel buio,
avanza un temporale.
Più decorativa, voglio dire.
Ma non se ne esce: più corta, la candela, lo diventa solo bruciando,
consumandosi lentamente, nel tempo, e avviandosi piano piano a finire,
ed è proprio come dire che l’unico modo che ci è
dato di evitare una fine precoce è accettare di andare incontro
a una consunzione lenta, che ci porti piano piano a una fine tardiva.
Da vecchi.
Comunque sia, non se ne esce, e quel che è peggio in frigo non
c’è nulla, neanche un po’ di insalata di riso rimasta
da ieri, una polpetta, una fetta di dolce.
Niente.
Il vento che cresce di intensità fa ballare la rumba alla fiamma
della candela e strappa sequenze disordinate di suoni ottusi allo scacciaspiriti
di legno di bambù che sta appeso al soffitto.
È un disordine organizzato di toni e mezzi toni vagamente esotici,
che si ripetono con alti e bassi mescolati tra loro quasi in obbedienza
alle regole non scritte di una preordinata casualità.
Una specie di lamento interrotto e ripreso a sussulti, come se fosse
uno xilofono in equilibrio precario sul nulla.
Il temporale, pare voglia andare a sfogarsi da un'altra parte, verso
la campagna.
È quasi sempre da un'altra parte che vanno a sfogarsi i temporali,
e non ci si può fare niente, se è così che hanno
deciso di fare.
Come non puoi farci niente se il frigo è praticamente vuoto di
qualsiasi cosa possa risultare decentemente commestibile.
Come non si può fare niente per evitare che una candela troppo
lunga si spegna al soffiare del vento, a parte aspettare che si consumi
fino a diventare più corta.
Oppure spegnerla noi prima che lo faccia il vento.
Raffaele è in casa sua, buttato sul divano della sala, il televisore
è acceso ma lui quasi nemmeno lo guarda, se non a tratti.
Non dorme, se mai sonnecchia, entra ed esce da un sopore discontinuo,
una cosa che non si può definire neanche un sonno leggero, perchè
nel sonno, almeno, si sogna.
Sta lì da giorni, ormai, le imposte chiuse fin dal mattino presto,
per difendersi dal calore del sole; nella stanza al semibuio brillano
i lampi delle immagini che si rincorrono sullo schermo fluorescente
del televisore.
Lo tiene a un volume bassissimo, non gli interessa la qualità
dell'audio, quasi non ascolta.
Il fatto è, a pensarci bene, che la fiamma della candela altro
non è se non aria.
Proprio così.
È aria, né più né meno come è aria
quella che le sta intorno e dentro la quale oscilla e traballa, in guizzi
improvvisi coi quali sembra volere fuggire alla violenza del vento.
Anche il vento è aria, aria in movimento, e la fiamma altro non
è che aria a una temperatura più alta della circostante,
si può dire appunto una temperatura incandescente, perchè
si dà il caso che certe miscele di gas, raggiunta una data temperatura
inizino ad emettere radiazioni nello spettro del visibile.
Noi diciamo “brucia”, ma la fiamma non è altro che
aria, una porzione d'aria vicina allo stoppino che ha raggiunto una
temperatura elevata assorbendo l'energia liberata da un violenta reazione
di ossidoriduzione.
É così che funziona, è in questo modo che va il
mondo.
Quello che appare davvero incomprensibile, in questo enorme insulso
guazzabuglio che è il modo di andare che ha il mondo, non è
l'accendersi della fiamma di una candela, o l'origine dei temporali,
e il capriccio che hanno di girarti attorno per ore ed andare poi a
sfogarsi all'improvviso da qualche altra parte.
A pensarci bene, non è nemmeno il fatto che, proprio in certe
notti, in frigorifero non ci sia mai nulla di commestibile, nulla che
sia degno di fare compagnia a un buon bicchiere di vino bianco.
Non è questo.
Ciò che appare inspiegabile, è il modo che hanno di sciogliersi
e di rincorrersi, di srotolarsi e poi di accavallarsi uno addosso all'altro,
in notti come queste, i pensieri.
Un modo impietoso, crudele, doloroso.
Vero.
Smetta all'improvviso di piovere oppure si alzi forte il vento, il fatto
è che Raffaele sta morendo.
Sta morendo pezzo dopo pezzo, buttato sul divano di casa sua, inchiodato
al suo cancro come un Cristo sulla sua Croce.
Le ossa invase dalle metastasi, frantumate in un numero incalcolabile
di piccole fratture, il dolore che lo morde ad ogni minimo movimento
è l’atroce brevità del lampo che squarcia all’improvviso
il cielo nero, un breve interminabile istante che accende di un bagliore
doloroso il semibuio del suo sopore.
Nell’uscire casuale che fa, ogni tanto, dal sonno, emette un gemito,
una specie di lamento interrotto e poi ripreso, a sussulti.
Dice sua moglie che sono già tre giorni che non mangia più
niente; sì, ieri sera un po’ di gelato ma è poca
roba, e mentre lo dice ha dentro gli occhi come una stanchezza, si direbbe.
Una stanchezza triste.
Deve essere questo l’odore dell’ozono.
Anche l’ozono è aria, come è aria la fiamma della
candela, solo che l’energia immensa liberata dalla scarica dei
lampi riesce a modificare la struttura secondaria delle molecole di
ossigeno, e nell’atmosfera si diffonde un profumo sottile e indefinibile,
non sai paragonarlo a niente altro, puoi solo dire che è un odore
che viene da lontano, e che era un bel pezzo che non si vedeva un temporale
bello come questo.
Hanno dentro qualcosa di esteticamente bello le situazioni violente,
una specie di eleganza crudele e raffinata: il lampo solca il buio con
una linea sottile e precisa, come un taglio perfetto di lama, il fragore
del tuono spacca in due il silenzio della notte e in tutto quanto c’è
l’espressione di una forza che non sapresti calcolare usando nessuna
unità di misura, una carica di energia che va oltre il concetto
stesso di quantità.
Una potenza, si direbbe.
Sul divano di casa sua Raffaele sta morendo.
Pallido e scarno è ridotto a un mucchio di pelle e ossa; la palpebra
sinistra completamente abbassata gli deforma lo sguardo in un modo osceno,
crudele e impietoso.
Dice sua moglie che sono settimane ormai che non vuole più andare
a letto.
Adesso, debole com’è, non riuscirebbe a farlo nemmeno volendo,
ma neanche prima, quando ancora aveva la forza di alzarsi… e te
lo dice con qualcosa nella voce che si direbbe tristezza, ma bisogna
stare attenti a usare le parole.
Forse, non è tristezza.
Piuttosto, una forma di rassegnazione dolce e mansueta, come quella
di chi rovista in silenzio fra le macerie per raccogliere i frammenti
di quel poco che si è salvato dal crollo.
Una malinconia, si direbbe, o, forse meglio, una “melanconia”.
Bisogna stare attenti, a usare le parole.
Ci sono cose imperscrutabili dentro le Cose, così prima di pronunciarla,
una parola, bisognerebbe essere sicuri che sia quella giusta.
Che suoni giusta.
Se il tuono, il lampo, il vento, la pioggia, sono le voci di cui la
natura si serve manifestare la sua forza, se sono il suono che ha la
realtà fisica allora anche la realtà del pensiero dovrebbe
avere un suo suono, e magari questi suoni sono le parole.
Come il vento e la pioggia risuonano dell’energia che li crea,
e della quale esistono, anche le parole devono portarsi dentro, con
il suono, la verità dalla quale hanno preso vita, e allora, se
è così, io direi che la parola giusta è “melanconia”.
Suona giusto, “melanconia”, è quello che mi abita
dentro dopo che ho fatto l’amore, e non è una tristezza,
anche se si dice che tutti sono tristi dopo aver fatto l’amore,
chissà perché, magari sono solo “melanconici”,
ma ci sono cose imperscrutabili dentro le Cose, come per esempio il
fatto che il frigorifero è vuoto, anzi no, ci sono sedano e carote
in quantità, ma come si fa a mettersi a mangiare un gambo di
sedano in una notte come questa, mentre Raffaele muore e intanto si
sta avvicinando un temporale così bello, così violento,
mentre soffia un vento così forte, con un suono di sé
così pieno e perfetto, un vento così intenso che sembra
volere mettercela tutta a essere quello che è, che pare voglia
sfruttare fino all’ultimo la possibilità che gli è
data di esistere, e magari è proprio questa la “melanconia”
che mi prende, quella che prende tutti, io credo, dopo aver fatto l’amore,
il senso di avere perso ancora una volta l’occasione, la possibilità
di essere anch’io finito, completo e terminato così come
è perfetto e terminato il tuono, il vento, il temporale quando
ha finito di essere; finito, tutto e “non plus ultra”, ma
tanto non se ne esce, ci sono cose imperscrutabili dentro le Cose di
cui è fatto il mondo, non dico come si forma l’ozono nell’atmosfera,
o il modo come l’aria, raggiunta una certa temperatura, diventa
incandescente ed incomincia a emettere radiazioni nello spettro del
visibile, e nemmeno voglio dire come sia che, all’improvviso,
una cellula impazzisce, e non rispetta più il comando di smettere
di replicarsi, così continua a riprodursi e si mette a mangiare
dal di dentro uno che, quando avevi dodici anni, ti portava con sé
a vedere la partita, anche se eri piccolo, e così è che
adesso tu lo guardi mentre muore soffocato da un tumore che gli riempie
il mediastino, le ossa distrutte dalle metastasi, la vita divorata dal
cancro, sono tre giorni che non mangia niente, dice la moglie, è
il cancro che sta mangiando lui, lo guardi e pensi che adesso tocca
a te accompagnarlo, e vorresti farlo allo stesso modo di come faceva
lui ad accompagnare te allo stadio, allora, ma non ci riesci, ti mancano
troppe cose, ti mancano i tuoi dodici anni e i suoi trenta, lo scrosciare
della pioggia in primavera e l’ovatta fredda e umida della nebbia
in inverno, la carezza del vento, l’odore acuto e penetrante del
legno dei gradoni col primo sole caldo dell’estate, nella stanza
con le imposte chiuse fin dal mattino per difendersi dal calore del
sole c’è solo puzza di metastasi e senso di tutto finito,
e forse è proprio questa la tristezza che ha dentro la moglie
mentre dice che sì, ieri ha mangiato un po’ di gelato,
è questa la sua “melanconia”, il senso di essere
ancora viva, di esserci ancora, purtroppo, mentre tutto quanto, attorno,
è già finito.
Ciò che è davvero crudele è il modo che hanno di
sciogliersi e di srotolarsi, di rincorrersi e poi di accavallarsi uno
addosso all'altro, in notti come queste, i pensieri.
Era davvero da tanto che non si vedeva un temporale così bello,
così intenso, così violento.
L’aria si fa sempre fredda, quando finisce un temporale, da qualche
parte deve avere grandinato.
Il vento cessa, una brezza leggera strappa via alla gola afona dello
scacciaspiriti di bambù gli ultimi suoni ottusi, dispersi e dissonanti.
La verità è che ci sono cose imperscrutabili dentro le
Cose perché altrimenti non sarebbe giustificato il coesistere
così perfetto ed elegante di un lontano profumo di ozono, di
una fiamma di candela che traballa precaria in balìa del vento
e di un amico che muore divorato dal cancro mentre un temporale va a
sfogarsi lontano, da qualche altra parte.
L’aria è fredda e il cielo è ritornato chiaro; gli
ultimi tuoni echeggiano in un lontano rombolìo.
Raffaele sta morendo, dice la moglie che a tratti quasi non lo sente
più respirare.
Il frigorifero è vuoto di qualsiasi cosa possa decentemente accompagnarsi
a un buon bicchiere di vino bianco, eppure qualcosa bisogna mangiare,
perché, non si ha ancora finito.
Purtroppo. Allora, se è così, perché no un po’
di pane e cioccolata?
Notizie su Marco
Bottoni
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Con le buone emozioni
di Paola
Renzetti
Scrivere
Mai facile per giorni
anche quando sembra sgorgare
dal suo alveo naturale.
Una cosa chiama il suo opposto.
Immediato e ansioso l’ingorgo,
il groviglio stradale.
Devi preparare il pranzo.
L’hai chiuso nel cassetto?
Ogni cosa mostra insufficienza
e le si addice quello che non è.
Svilita e impallidita stinge
per farsi profuga
e tornare sciupata nella mente.
Sola nell’aspetto, poeta per difetto.
Rinvigorisce il sole
aperta la finestra,
se il domani muore.
Un incontro di poeti
Colletti stropicciati
in timida azzurrità verdina
si nascondono all’offerta
breve di un incontro.
Mai abituati alla densità di atomi
vaganti
disabili nell’arte del restare.
Fedeli al senso unico del cuore
irridono il banale, fuori la luna
attende
Convergono dolori e amori
e sorprende l’assenso muto
delle lingue.
Come assorti agli inclinati versi
dove i passi si fanno più leggeri.
30 Novembre 2008
Stambecchi sui monti
trapezisti
dall’edicola, agli alberi di piazza Cairoli.
Sotto preme il mare.
Dallo sguardo dei nostri capi giovani
dileguata la paura
trasparente di vigore
oggi la vita vola.
L’attesa è un fiume
dai convogli una voce.
Acqua dal cielo
(catarsi benedetta delle torce)
fumano lungo la strada
senza spegnersi le prime croci.
Un colpo secco all’impotenza
uno all’otre sfiatato della noia.
Con le buone emozioni
ritorna in circolo la nuova civiltà:
“Se non cambierà
bloccheremo la città!”
Paola
Renzetti scrive da sempre poesie ispirate alla terra d’origine
(Appennino Tosco Emiliano), alla natura, al processo creativo dello
scrivere, alla ricerca di sé stessi, al sogno, ad affetti ed
incontri. È nata a Corniglio (PR) il 2.4.1955 e abita a Pieve
Emanuele (MI) dove insegna. La sua cultura ha origini contadine ed operaie.
Ha frequentato la scuola degli Artefici dell’Accademia di Brera.
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Le creature addormentate
di Subhaga
Gaetano Failla
La stanza è grande e bianca. Dodici creature dormono,
a oltre un metro da terra. Sono distese ben dritte, supine, le braccia
lungo i fianchi. Le finestre hanno vetri opachi. Le creature sognano.
Fluidi sinuosi di luce chiara, talvolta scintillante, talvolta d’argento,
attraversano la stanza. Le creature percepiscono questi fluidi. I sogni
delle creature non causano nemmeno un sospiro, nemmeno un nuovo pur
lieve movimento nei corpi. Le creature sono completamente immobili,
il respiro è nascosto, invisibile, i volti inespressivi, le emozioni
sono lontanissime o forse dissolte.
C’è un mondo nel nostro mondo – uno dei molti mondi
paralleli – dove le creature dormono. Uomini e donne, creature
del mare, della terra e del cielo, distesi su lettini, dormono sonni
segreti. Cordoni ombelicali artificiali, di diverse grandezze, si insinuano
nei loro corpi attraverso molteplici fessure, portando linfa di vita
terrestre e un ricordo e una ulteriore speranza di intimità con
questa esistenza. Siamo in uno dei mondi paralleli del nostro mondo,
siamo in un reparto di rianimazione dell’ospedale d’una
metropoli.
C’è silenzio nella stanza. Il ronzio delle
macchine luminose e squilli intermittenti modulano il ritmo del silenzio.
Solo le parole degli infermieri, dei medici, e frasi lacerate dei familiari,
qualche gemito, il suono d’una lacrima, spezzano la monotonia
del silenzio.
Le scie di miriadi di stelle guidano gli uomini di buona volontà
sui luoghi del mistero. Il cuore dell’esistenza palpita nel cammino
guidato dalle stelle, il cuore pulsa all’unisono nell’incontro
con l’altro. Le creature addormentate sognano. Un uomo attraversa
immense profondità del mare e giunge di nuovo in superficie,
col respiro libero. Ha in mano una stella marina da donare alla sua
amata. Un bambino sorride.
Le stelle guidano il sentiero dei viandanti nella notte,
la scia luminosa delle comete rischiara il sentiero che porta al miracolo.
La vita, la finzione della morte.
Le stelle guidano gli uomini verso il cuore degli uomini. La luce delle
stelle si unisce alla luce degli uomini. La luce. Non c’è
soltanto un viaggio santo, uno soltanto, verso il mistero. Ogni uomo
è un viaggio.
Coloro che vegliano i dormienti, nella grande stanza,
si addormentano in una scheggia di tempo. Essi ignorano quell’istante
di sonno. In quel fulmineo palpito un fluido sinuoso attraversa la stanza,
avvolge in una luce d’argento tutti, dentro il battito del cuore
dell’universo. Da un presepe giunge l’odore del muschio
appena raccolto.
Così la luce.
Comete sulla strada
cieli di pace.
Subhaga
Gaetano Failla è nato a Scalea in Calabria nel 1955. Laureato
in Sociologia a Urbino, ha pubblicato saggistica sociologica in volume
e in una rivista. Suoi racconti e poesie sono apparsi su numerose riviste
cartacee, sul quotidiano Il Messaggero, attraverso RAI Radio
3, e su riviste e siti on-line italiani ed esteri tra i quali Faranews.
Suoi libri di racconti: Logorare i sandali (Aletti, 2002, vincitore
del concorso “Alla ricerca dell’autore”), Il coltello
e il pane (Aletti, 2003), La
signora Irma e le nuvole (Fara, 2007). Racconti in antologia: con
Aletti Editore (2002), in due antologie di Perrone Editore (entrambe
del 2007), in un libretto e in un e-book a cura di Viadellebelledonne
(2008). Il racconto lungo Il seminario di Vinastra, tra i vincitori
del concorso “Pubblica con noi”, è in 3x2
(Fara, 2006). I testi Oltre le mura inesistenti dell’io
e Respiro, linguaggi, voci sono rispettivamente in: Lo
spirito della poesia e Storie
e versi (entrambi Fara, 2008). Haiku in lingua inglese, tradotti
in tedesco e francese, sono nelle antologie: Zen poems (Londra,
2002), Haiku for lovers (Londra, 2003). Ha collaborato con
la rivista Orizzonti e con la rivista londinese Hazy Moon.
Vive a Massa Marittima (GR).
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O ator, segundo
Camus
di Iacyr Anderson Freitas, traduzione
in siciliano di Marco
Scalabrino
Tudo o que edifico
deverá ruir em breve.
Vede: estou úmido ainda de nascer, nasci agora.
A vida a que me dou
se exerce em duas horas.
Não tenho tempo para o que me transcende.
O perecível me toma em seus braços,
o perecível me sonda, me invade.
Vede: não posso crer em nada
que não seja aparência e erro.
Não posso crer no que não se dá à vista.
Tudo o que sei
é apenas tempo, tempo e fuga.
E não há sentido onde o tempo falha.
Queimei o que me excede.
Queimei os rostos que em mim buscavam
um passado. Queimei os nomes que me chamavam.
Estou livre
para esse conhecimento que é apenas corpo.
Para essa eternidade que me faz nascer e morrer
mil vezes
em duas horas.
L’atturi, secunnu Camus
Zoccu jisu jisu
prestu prestu si sdisola;
e nascivi allura, allura allura.
La me vita
si sbrògghia tutta nna dui uri;
nun aju attòppitu pi trascinnenzi
chì lu sipariu già mi cuddurìa
m’agghiòmmara, mi sbalanca.
E nun pozzu cridiri a nenti;
a nenti chi nun è truccu, facciata
a nenti autru chi nun è abbàgghiu.
Sulu tempu.
Un vidi e svidi di tempu.
Un tempu … chi squàgghia.
Abbruciai ogni cosa fora-mia:
lu passatu, li nomi
l’occhi chi mi spirtusàvanu
sugnu libiru
pi ssa cumparsata chi è sulu corpu,
pi ss’eternità chi mi fa nasciri
e moriri, milli voti
nna dui uri.
Notizie su Marco
Scalabrino
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Un’esperienza
di condivisione catechetica sulla Parola di Dio: la lectio divina
settimanale all’Abbazia di San Miniato al Monte
di Bernardo
Francesco Maria Gianni (v. anche qui)
Ti cerco nelle radici della mia pena,
nella notte dei sensi,
nel bagliore che accende
la mente e il cuore.
Disperi la mia vita.
Non sei mai bella come la struggente
volontà di cercarti.
Né semplice come la roccia,
l’acqua, lo stelo.
Né vera come l’anima che manifesti.
Ma sei tutto, parola:
dolore dell’uomo,
amore di Dio.
(Donata Doni)
Secondo il racconto della Vita di San
Benedetto che possiamo leggere nel secondo dei Liber Dialogorum
di Gregorio Magno (+604), il Santo Monaco, conchiuso il suo iniziale
periodo di eremitaggio in uno speco per apprendere l’arte di habitare
secum al cospetto di Dio, scopre una dimensione comunionale e potremmo
quasi dire “catechetica” della sua vocazione monastica.
Scrive Gregorio:
Eodem quoque tempore hunc in specu latitantem etiam
pastores invenerunt. Quem, dum vestitum pellibus inter frutta cernerent,
aliquam bestiam esse crediderunt, sed cognoscentes Dei famulum, eorum
multi ad pietatis gratiam a bestiali mente mutati sunt. Nomen itaque
eius per vicina loca cunctis innotuit, factumque est ut ex illo iam
tempora a multis frequentari coepisset, qui cum ei cibos deferrent corporis,
ab eius ore in suo pectore alimenta referebant vitae (Dial. II,1,8).
Quanto è qui raccontato appare come un tema tipico
della tradizione monastica: l’eremita, inizialmente scambiato
addirittura per un animale tanto intensa è stata l’esperienza
di secessione dalle consuetudini del consorzio umano, viene finalmente
scoperto nella sua verità: egli nella solitudine del deserto
si è fatto uomo libero e la sua libertà è nel servizio
di Dio perché a Lui solo egli appartiene. La sua parola, evidentemente
frutto di preghiera e di assiduità con la Parola del Signore,
non può non suscitare il desiderio dei pastori di abbeverarsene
in abbondanza per ricavare alimento di vita (alimenta… vitae)
per il cuore. Già da questo episodio della vita di Benedetto
da un lato comprendiamo l’intento dell’opera agiografica
di Papa Gregorio che desiderava il coinvolgimento dei monaci del suo
tempo nell’intento di rinnovare l’evangelizzazione in una
chiesa profondamente impoverita di slanci e di testimonianze di santità,
dall’altro possiamo verificare come anche oggi il monachesimo,
per la testimonianza di vita lasciata da uno dei suoi padri più
importanti, non possa sentirsi escluso, certamente nelle forme sue più
peculiari, da un’universale vocazione all’annuncio, alla
missionarietà e alla catechesi che riguarda ogni membro del corpo
ecclesiale. Del resto è fenomeno ampiamente verificato come anche,
e forse soprattutto, gli spazi secolarmente cristianizzati e ritenuti
pertanto bisognosi solo della tradizionale cura animarum, adesso
si mostrino assolutamente bisognosi di una nuova, radicale evangelizzazione
secondo le indicazioni del Magistero di Paolo VI e ancor più
di quello successivo (per una convincente illustrazione critica dei
paradigmi della missione tradizionale cui si fa qui succinto riferimento
si rimanda senz’altro a S. DIANICH e -S. NOCETI, Trattato
sulla Chiesa, Brescia 2002, 244-7). Del resto già Perfectae
Caritatis al numero 5 prescrive molto chiaramente a tutti i religiosi
appartenenti a qualsiasi ordine una ministerialità apostolica,
naturalmente subordinata al primato della contemplazione, anche secondo
una ben attestata tradizione patristica: «è necessario
che i membri di qualsiasi istituto, cercando sopra ogni cosa e unicamente
Dio, uniscano la contemplazione, con cui aderiscono a Dio con la mente
e col cuore, e l’ardore apostolico, con cui si sforzano di collaborare
all’opera delle redenzione e dilatare il regno di Dio».
Più specificamente ancora Perfectae Caritatis a proposito
del rinnovamento e dell’aggiornamento della vita monastica aggiunge
al numero 9: «Mantenendo l’indole caratteristica del proprio
istituto, i monaci rinnovino le antiche benefiche tradizioni e le adattino
agli odierni bisogni delle anime, in modo che i monasteri siano come
vivai di edificazione del popolo cristiano». Il Magistero è
poi successivamente tornato con grandissima autorevolezza a ribadire
le linee essenziali del carisma e del ministero monastico in relazione
al bene dell’intero popolo di Dio. Si fa naturalmente riferimento
qui all’esortazione apostolica post-sinodale Vita Consecrata
del 1996 scritta da Papa Giovanni Paolo II che al numero 6, con un’intonazione
nettamente esortatoria, tratteggia le linee essenziali della testimonianza
monastica: «Anche i monaci di oggi si sforzano di conciliare armonicamente
la vita interiore e il lavoro nell’impegno evangelico della conversione
dei costumi, dell’obbedienza, della stabilità, e nell’assidua
dedizione alla meditazione della Parola (lectio divina), alla
celebrazione della liturgia, alla preghiera. I monaci sono stati e sono
tuttora, nel cuore della Chiesa e del mondo, un eloquente segno di comunione,
un’accogliente dimora per coloro che cercano Dio e le cose dello
spirito, scuole di fede e veri laboratori di studio, di dialogo e di
cultura per l’edificazione della vita ecclesiale e della stessa
città terrena, in un’attesa di quella celeste». Un
altro passaggio della stessa esortazione apostolica ha cura di precisare
meglio la centralità e la fruttuosità di una radicata
consuetudine con la Parola letta, meditata e –come si dice talvolta-
“pregata” e “spezzata” in una medesima, ideale
mensa dove siedono, condividendo le loro esperienze, attese e speranze,
sia religiosi che laici (n. 94):
Di grande valore è la meditazione comunitaria
della Bibbia. Realizzata secondo le possibilità e le circostanze
della vita di comunità, essa porta alla gioiosa condivisone delle
ricchezze attinte alla Parola di Dio, grazie alle quali fratelli e sorelle
crescono insieme e si aiutano a progredire nella vita spirituale. Conviene
anzi che tale prassi venga proposta anche agli altri membri del Popolo
di Dio, sacerdoti e laici, promovendo nei modi consoni al proprio carisma,
scuole di preghiera, di spiritualità e di lettura orante della
Scrittura, nella quale Dio «parla agli uomini come ad amici (cfr.
Es 33,11; Gv 15,14-15) e si trattiene con essi (cfr. Bar 3,38) per invitarli
e ammetterli alla comunione con sé» (Dei Verbum 2).
Dalla meditazione della Parola di Dio, e in particolare dei misteri
di Cristo, nascono, come insegna la tradizione spirituale, l’intensità
della contemplazione e l’ardore dell’azione apostolica.
Sia nella vita religiosa contemplativa che in quella apostolica sono
sempre stati uomini e donne di preghiera a realizzare, quali autentici
interpreti ed esecutori della volontà di Dio, opere grandi. Dalla
frequentazione della Parole di Dio essi hanno tratto la luce necessaria
per quel discernimento individuale e comunitario che li ha aiutato a
cercare nei segni dei tempi le vie del Signore. Essi hanno così
acquisito una sorta di istinto soprannaturale, che ha loro permesso
di non conformarsi alla mentalità del secolo, ma di rinnovare
la propria mente, «per poter discernere la volontà di Dio,
ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto» (Rm 12,2).
Tale indicazione sembra recepire in pienezza altri passaggi
della Dei Verbum e in particolare quanto si legge al numero
25: «Parimenti il sacro sinodo esorta con particolare forza tutti
i fedeli cristiani, soprattutto i religiosi, a imparare la “la
sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil. 3, 8) con la frequente
lettura delle divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture
infatti è ignoranza di Cristo” (S. Gerolamo, Commento
sul Libro di Isaia, Prol.). Si accostino dunque volentieri al sacro
testo, sia per mezzo della sacra liturgia, ricca di parole divine, sia
mediante la pia lettura, sia mediante iniziative adatte allo scopo e
altri sussidi che oggi lodevolmente si diffondono ovunque con l’approvazione
e la cura dei pastori. Si ricordino però che la lettura della
sacra Scrittura deve essere accompagnata dalla preghiera, affinché
si stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo; infatti “a lui
parliamo, quando preghiamo; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli
divini (S. Ambrogio, I doveri, I, 20, 88)».
Tutto questo intreccio di citazioni e di richiami al magistero si giustifica
per il solo fatto che questa relazione intende offrire una breve sintesi
relativa ad un’esperienza catechetica nata nell’Abbazia
di San Miniato al Monte oltre 4 anni fa. Essa si inscrive nel solco
della secolare tradizione della lectio divina monastica, che
è lettura attenta e preghiera “contemplativa” della
Sacra Scrittura al fine di raffinare, come ci suggeriva il passaggio
succitato di Vita consecrata, il discernimento del cuore in
ordine ai voleri di Dio nel mosso divenire della nostra storia, sia
essa quella personale, comunitaria, ecclesiale e, possiamo dire con
l’umile audacia che deve caratterizzare il cristiano, sia addirittura
la storia preparata da Dio per tutte le nazioni e tutta l’umanità
(per un’esposizione di massima sulla pratica della lectio divina
potrà bastare l’ottimo manuale di E. BIANCHI, Pregare
la Parola. Introduzione alla “Lectio divina”, Torino
1974, mentre per una riflessione a più voci sul ruolo della lectio
nella vita religiosa e più in generale nella chiesa si rimanda
a E. BIANCHI, B. CALATI, F. COCCHINI, I. ILLICH e AA.VV. La lectio
divina nella vita religiosa, Magnano 1994). Come è noto,
si deve al monaco certosino Guigo II (+1188) una sistemazione di massima
dei quattro momenti della lectio divina secondo la tradizione
monastica: nella lettera all’amico Gervaso egli parla di quattro
gradini, corrispondenti alla lectio, alla meditatio,
all’oratio e infine alla contemplatio:
La lettura è dunque un accurato esame delle
Scritture che muove da un impegno dello spirito. La meditazione è
un’opera della mente che si applica a scavare nella verità
più nascosta sotto la guida della propria ragione. L’orazione
è un impegno amante del cuore in Dio allo scopo di estirpare
il male e conseguire il bene. La contemplazione è come un innalzamento
al di sopra di sé da parte dell’anima sospesa in Dio, che
gusta le gioie della dolcezza eterna. La lettura indaga sulla dolcezza
della vita beata, la meditazione la trova, l’orazione la chiede,
la contemplazione la assapora. La lettura si può dire che porti
alla bocca cibo solido, la meditazione lo mastica e lo macina, l’orazione
ne sente il sapore, la contemplazione è la dolcezza stessa che
dona gioia e ricrea le forze. La lettura rimane sulla scorza, la meditazione
penetra nel midollo, l’orazione si spinge alla richiesta suscitata
dal desiderio, la contemplazione riposa nel godimento della dolcezza
raggiunta. (L’intera lettera tradotta è disponibile
alla lettura come appendice di E. BIANCHI, Pregare la Parola,
cit., 105-123: 106-107).
Nella prospettiva sovente reperibile nei testi esegetici
di Gregorio Magno a questa quadruplice scansione andrà aggiunto
un quinto decisivo momento, l’evangelisatio, intesa come
testimonianza integrale di vita e, più in particolare, come momento
catechetico di annuncio di quanto intuìto e dei frutti maturati
personalmente o anche comunitariamente nella stessa lectio. Nella tradizione
dei Padri, soprattutto delle primissime generazioni anacoretiche, non
manca poi un altro momento di singolare importanza, quello della collatio
che indica, come lascia chiaramente intendere l’etimologia della
parola, la condivisione comunitaria, ad una stessa mensa, delle risonanze
percepite nel cuore durante e dopo la lettura. Un notevolissimo numero
di apoftegmi dei Padri del Deserto raccontano di queste lunghe sinassi
dove la celebrazione eucaristica era preceduta da lunghi momenti di
condivisione e di reciproco arricchimento nella comprensione tanto a
riguardo del significato della Parola letta e vissuta durante la settimana
nelle diuturne ore di silenzio e solitudine in cella, quanto a riguardo
di ciò che essa chiedeva alle piccole o grandi comunità
monastiche, ai varî, singoli eremiti oppure, nel caso della non
infrequente presenza di ospiti, magari vescovi delle città vicine,
di ciò che essa esigeva dalle varie comunità ecclesiali
o nella vita dei battezzati al fine di una sempre più convinta
e radicale conversione dei cuori all’unico Signore.
Il piccolo cammino di una modesta famiglia di monaci e di battezzati
che da quasi un lustro si ritrova ogni settimana nell’abbazia
benedettina di San Miniato al Monte, il Venerdì per la lectio
divina e la Domenica mattina per l’Eucarestia, ha queste
nobilissime radici che ci ricordano sempre la centralità della
Scrittura e della celebrazione liturgica intesa come storia della salvezza
in atto e come dialogo vivo con il Signore che parla, conforta e sprona
i suoi figli (cfr. del resto il dettato paolino di Colossesi 3,16 come
indicazione caratterizzante ogni comunità cristiana: «la
parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi
con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi,
inni e cantici spirituali»). Nel nostro incontro di lettura, che
dura circa un’ora e mezzo, è generalmente un monaco a fornire
in apertura, dopo un’invocazione comunitaria allo Spirito Santo,
i dati esegetici essenziali di un brano appartenente a quel libro della
Scrittura che era stato precedentemente scelto in piena sinodalità
dall’intero gruppo al fine di essere lentamente letto nella sua
interezza, secondo la tradizione monastica della lectio continua.
Dopo una prima parte di taglio esegetico e un piccolo commento di intonazione
spirituale ha inizio la collatio vera e propria: ogni partecipante
è caldamente invitato sull’eco di quanto letto, ascoltato
e pregato ad interpellare la propria vita e quella dell’intera
comunità di amici secondo il dettato della Parola, alla luce
anche e delle vicende quotidiane della propria personale microstoria
e di quelle, sovente inquietanti, della macrostoria che leggiamo sulle
cronache dei giornali. È questo un momento decisivo e assai fruttuoso
del nostro ritrovarsi attorno alla Parola: per un verso l’apertura
del cuore crea progressivamente una sincera comunione fraterna edificata
sulla e dalla Parola, per un altro davvero si ha modo di verificare
quanto i rabbini già avevano colto a proposito di quella impossibilità
di esaurire sensi e significato del testo biblico, in ragione di quella
eccedenza di valore ulteriore che è scritto in modo invisibile,
come con plastica efficacia dicevano appunto i rabbini, nel margine
bianco, senza l’inchiostro e «al di là del versetto»
(E. Levinas). Una prospettiva, quest’ultima, sancita peraltro
dall’autorevolezza esegetica e pastorale di Gregorio Magno, autore
di quella mirabile formula secondo cui «divina eloquia cum legente
crescunt», reperibile nella sua settima Omelia su Ezechiele,
1,8 grazie alla quale abbiamo in garanzia da Dio la sicurezza di una
lettura viva e vitale che con dinamismo incessante cresce e fa crescere
il nostro sguardo contemplativo sia sul mistero della volontà
di Dio (cfr. Ef 1,9) sia sulla nostra storia personale e su quella ecclesiale
e umana. È la fatica austera e gioiosa e sempre fruttuosa di
un darash comunitario, di una ricerca tenuta viva dalla immediata
condivisione delle proprie ricchezze, povertà, competenze, ansie
e attese, di quel salvifico senso ulteriore che è poi quello
che lo Spirito Santo – lo stesso, medesimo Santo Spirito che suggeriva
le parole all’orecchio del cuore dell’antico redattore biblico
– in questi tempi, nel nostro hodie, sta suggerendo a
noi credenti vigilanti in ascolto della Parola, «nell’attesa
della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro
grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,13). Si tratta
insomma di riconoscere come la Scrittura sia testimone della Parola
di Dio, ma non coincidente con questa ultima, la Parola appunto, ovvero
il Figlio che è, potremmo dire con Origene, nascosto dietro ogni
versetto della intera Scrittura, senza che questa possa mai completamente
esaurirne il mistero. La fatica della interpretazione e dell’ascolto
diviene pertanto fecondo cammino nella ricerca del Volto del Figlio
dell’Uomo (cfr. 2 Cor 3, 12-18), frutto nello Spirito Santo
e innesto nella comunità ecclesiale che è
garanzia di oggettività contro ogni interpretazione privata e
soggettiva da cui le parole apostoliche ci mettono in guardia (in particolare,
anche a riguardo dell’ispirazione divina della Scrittura, cfr.
2 Pt 20-21). Tutto quanto sin qui detto si salda con l’intuizione
mirabile e davvero non più obliterabile di un passaggio decisivo
della Dei Verbum dove i Padri Conciliari, dopo essersi posti
in «religioso ascolto» (Proemio) della Parola di Dio, arrivano
ad affermare che la chiesa cresce con questo ascolto nella storia, «finché
in essa vengano a compimento le Parole di Dio». In questo inarrestabile
progresso della tradizione che avviene nella chiesa «con l’assistenza
dello Spirito Santo, cresce infatti la comprensione tanto delle cose
quanto delle parole trasmesse». Ed è nel cuore dinamico
di questo meccanismo vitale che è riconosciuto con una specialissima
autorevolezza come sia decisivo, in questa crescita di conoscenza, il
ruolo di tutti i battezzati: oltre che con la predicazione
di coloro che «con la successione episcopale hanno ricevuto un
carisma sicuro di verità», di fatto quella comprensione
cresce nondimeno «sia con la contemplazione e lo studio dei credenti,
i quali le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la profonda
intelligenza delle cose spirituali di cui fanno esperienza» (n.
8). Mi pare bello e importante, quasi un modestissimo omaggio un anno
e mezzo dalla sua morte, ricordare come un grande monaco dei nostri
tempi, da cui tutti noi abbiamo imparato, protagonista di primissimo
ordine nel recupero della lectio divina secondo il magistero ricevuto
dalla tradizione dei Padri e in particolare da Gregorio Magno e testimone
profetico del rinnovamento post-conciliare nella vita ecclesiale e monastica,
sovente indicava in queste intuizioni della Dei Verbum i guadagni
più alti, fecondi e significativi di tutto il Concilio Vaticano
II.
Il nostro incontro si conchiude sempre con la preghiera rivolta al Padre
insegnataci dal Signore Gesù che è però usualmente
preceduta dalla lettura di una poesia che abbia una qualche attinenza
con i testi letti, le risonanze destate, le immagini evocate, le intuizioni
condivise. È quasi irrinunciabile questo momento di vivo e liberante
pathos in cui la parola poetica, solitamente vibrante e capace
di svelare il cuore autentico delle cose e della storia, per la sua
potente valenza simbolica agisce come un ponte sospeso fra le antiche
scritture bibliche, i loro significati riposti e le vive istanze dei
nostri pensieri, le urgenze del nostro tempo, i desideri dei nostri
cuori. Non a caso anche un grandissimo poeta come Mario
Luzi ha intuito qualcosa di potentemente analogico esistente fra
la parola poetica e la Parola divina avvolta nella Scrittura quando
ci suggeriva a ragione che «la poesia agisce secondo la sua necessaria
dinamica, che è quella di distruggere la lettera per ripristinare
ed espandere lo spirito». D’altro canto un grande monaco
del nostro tempo, Thomas Merton, non sbagliava nel ricordarci che «quando
nasce il desiderio di comunicare qualcosa di una vita di contemplazione,
il poeta, fra tutti gli uomini, è il meno sprovvisto di mezzi
per esprimere l’inesprimibile».
Sotto un profilo catechetico si verifica, nel nostro piccolo e sperimentale
laboratorio di San Miniato al Monte, l’utilità grande di
riproporre ai fedeli il cuore vivo e pulsante della Rivelazione, che
è l’autocomunicazione di Dio nella sua Parola, perché
essi se ne riapproprino (cfr. a questo proposito tutto il capitolo VI
della stessa Dei Verbum), e questo soprattutto ad un gruppo
di credenti che nella fattispecie appartengono ad una generazione piuttosto
matura sotto il profilo anagrafico, dotati di buone competenze culturali,
spesso caratterizzati da percorsi di fede non linearissimi e in certi
casi addirittura afferenti a quel frastagliato “sottoinsieme”
del Popolo di Dio recentemente denominato, con un’espressione
non bella ma efficace, i “ricomincianti”. Di fronte alla
grande capacità evocativa della Scrittura, alla sua bellezza
letteraria, al suo oggettivo deposito e valore culturale, storico, antropologico
e immaginifico è possibile, pur non senza difficoltà e
con la necessaria attenzione ad evitare generiche ambiguità e
opache generalizzazioni dei dati esegetici e del portato della tradizione
(cfr. del resto il numero 9 della Dei Verbum circa la mutua
relazione fra la stessa tradizione e la sacra Scrittura), creare una
sorta di “patria comune” entro cui e da cui avviare percorsi
spirituali e umani di ricerca di Dio, secondo peraltro quel tratto dinamico
di vita interiore che deve caratterizzare ogni monaco (il requisito
che il maestro deve verificare per ammettere un candidato alla vita
monastica è per Benedetto «si revera Deum quaerit»,
cfr. Regula monasteriorum 58, 7) e secondo quella speranzosa
prospettiva escatologica testimoniata da Pietro: «alla parola
dei profeti fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada
che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e
la stella del mattino si levi nei vostri cuori» (2 Pt 1,19).
Il gruppo biblico di San Miniato ha esordito nel suo cammino di ricerca
con una lentissima e meditata lettura del libro che fonda l’autocoscienza
di Israele come popolo salvato dalla predilezione di Dio che lo ha condotto
nel deserto per rinunciare ad ogni idolatrìa e apprendere così
l’arte del servizio di Dio nella libertà del cuore: l’Esodo.
Si è poi proseguito con la Prima Lettera di Pietro, per la sua
portata catechetica legata alla liturgia pasquale e battesimale, per
la sua avvincente tensione escatologica, per la sua equilibrata e attualissima
intonazione parenetica. Nel desiderio di fare luce sul mistero pasquale
della storia e della creazione, sulla apparente invincibilità
dei poteri mondani, sulle persecuzioni antiche e nuove patite dalle
comunità ecclesiali, sulla forza del mysterium iniquitatis,
il gruppo ha audacemente scelto e in un anno e mezzo ha condotto a termine
la lettura dell’Apocalisse, cui ha fatto seguito la lettura del
breve libro di Giona anche in ragione della sua prospettiva universalistica.
Dopo questi testi da qualche mese, anche per favorire una migliore partecipazione
e condivisione “orizzontale” e “circolare” di
tutti i partecipanti, si sono individuate alcune unità tematiche
isolabili dalla Scrittura, quali ad esempio “Il Dio che parla”,
“Il Dio che tace”, “Il Dio che ama”, “Il
Dio che giudica”, etc. che, grazie e attraverso l’irrinunciabile
oggettività di alcuni passi scritturali correlati, divengono
motivo di personale approfondimento per tutta la settimana al fine di
trasformare l’incontro del venerdì in una vera e propria
collatio che sia per davvero il frutto del contributo di tutti
in vista di un più mosso e polifonico arricchimento e di una
struttura procedurale e organizzativa meno piramidale. Nell’ambito
dell’approfondimento del primo tema (“Il Dio che parla”)
si è poi colto l’occasione per un’appassionata lettura
dei più significativi passaggi della Dei Verbum così
da arricchire la nostra autoconsapevolezza ecclesiale sull’importanza
del tempo che settimanalmente dedichiamo all’ascolto della Parola
di Dio, alla volontà di imparare a rendere ragione della speranza
che è in noi (1 Pt 3, 15) e al desiderio di trasformarci, con
l’aiuto dello Spirito Santo, in testimoni credibili, col ritorno
ognuno alla propria casa, famiglia e comunità e ai tempi ordinarî
della vita quotidiana, della fede donataci dall’amore di Dio e
dalla sua Parola di vita.
La nostra piccola comunità nella perseveranza in questo umile
e marginale ministero al servizio della Parola (Lc 1,2) e della chiesa
che è in Firenze ha trovato un bellissimo e autorevolissimo motivo
di conforto in un passaggio della lettera che il Santo Padre Giovanni
Paolo II ha indirizzato nel 1998 all’Abate Generale Dom Michelangelo
Tiribilli nella lieta evenienza del 650° anniversario del transito
del Beato Bernardo Tolomei, fondatore della famiglia monastica di Monte
Oliveto di cui fa parte, fin dal lontanissimo 1373, l’Abbazia
di San Miniato al Monte. Scrive dunque il Pontefice:
In particolare la Congregazione ha saputo mantenere
sempre vivo quel caratteristico apostolato monastico che è l’ospitalità,
offrendo “un’accoglienza premurosa” (Regula Benedictina
53,3) a coloro che avvertono la necessità di uno spazio ideale
per riconciliarsi con se stessi, con gli altri e con Dio. È importante
che i Monaci siano per i loro ospiti testimoni della virtù teologale
della speranza, aiutandoli così nell’impegno quotidiano
di trasformare la storia secondo il progetto di Dio.
Si dimostra quanto mai opportuno questo richiamo fatto
dal Papa al capo 53° della Regula dove san Benedetto, in
forza del dettato scritturale di Matteo 25,35, equipara con audacia
e senza mezzi termini l’arrivo dell’ospite in monastero
al sopraggiungere del Cristo ospite e forestiero, realmente presente
così in mezzo alla comunità monastica:
Omnes supervenientes hospites tamquam Christus suscipiantur,
quia ipse dicturus est: Hospes fui, et suscepistis me; et omnibus congruus
honor exhibeatur, maxime domesticis fidei et peregrinis. [...] In ipsa
autem salutatione omnis exhibeatur humilitas omnibus venientibus sive
discedentibus hospitibus, inclinato capite vel prostrato omni corpore
in terra, Christus in eis adoretur, qui et suscipitur.
Magistero antico e nuovo, consuetudini monastiche e precetti
evangelici animano a San Miniato al Monte un piccolo sforzo di accoglienza
e di condivisione della Parola che però vorrebbe avere l’umile
risolutezza di riportarci davvero, come dimostrava il racconto di Gregorio
agli inizî di queste pagine, al ministero pastorale e all’azione
catechetica più peculiari dei monaci che, addossati ai margini
delle città, da sempre si sforzano di far fiorire nella scuola
dell’amore e nel silenzio dell’attenzione il terreno scabro
e sassoso del deserto dei nostri cuori distratti e mai pronti all’ascolto.
Fra i detti dei Padri del Deserto ne è sopravvissuto uno assai
eloquente in tal senso, attribuito ad abba Pambo e che ogni famiglia
monastica dovrebbe forse avere presente, meditare e cercare di attuare
con radicalità e decisione:
Abba Pambo interrogato circa l’ospitalità
così rispose: «Tutti gli ospiti che vengono da noi, salvo
i curiosi, prima di andarsene chiedono: “Abba, dimmi una parola!”.
Se la ricevono, ritorneranno, altrimenti la cercheranno da altre parti…
Ecco dunque il nostro grande compito nell’ospitalità: donare
una parola! A volte sarà direttamente la Parola di Dio, altre
volte semplice traccia che alla Parola conduce, altre ancora sarà
eco della Parola di Dio, oppure silenzio che la Parola adora e ascolta.
Nell’incontro con gli ospiti l’importante è consegnare
loro ciò che noi contempliamo in verità nell’umile
e nobile servizio del monaco».
Dom
Bernardo Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano
dell'Abbazia di San Miniato al Monte
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze
lectio.divina@libero.it
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