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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 90
Giugno 2007
Editoriale:
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
Sono versi di Andrea Parato inseriti
una una sequenza poetico-filosofica di grande presa, come peraltro le
sussultanti poesie e le empatiche recensioni di Paola Castagna,
e la lettura di Duende che ci offre Maria Liana
Celli o le spiritualmente brulicanti poesie di Stefano
Cervini. E così il gustoso commento dantesco di Maria
Rosa Panté e il racconto storicamente inquieto di Mattia
Pari, la lettera alle monache di clausura di Bernardo
M. Gianni ci aprono squarci di vita e di anima (“in quell'anticipo
di eternità che è la liturgia”) che danno alle parole
forza, necessità e bellezza. Un numero davvero stimolante e coinvolgente
in molti sensi e direzioni. Buona lettura!
Come
e perché Duende
di Maria
Liana Celli
I componimenti di Caterina,
alcuni nuovi, altri riproposti da sue precedenti raccolte, ci permettono
di accostarci al suo mondo poetico – che è poi il suo mondo
personale – se non di penetrarlo compiutamente.
Perché per lei la poesia è vita, è effettuare un
percorso che restituisca alle cose quell’identità che a
loro appartiene; è riconoscere alla persona quello che di intimo
la costituisce; è “partecipare al respiro del mondo”,
lasciando tracce che non sempre si cancellano.
Tutto questo è prerogativa della parola: questo potere apocalittico,
sconvolgente, che consente una dimensione altrove non riscontrabile
e non praticabile. Questa consapevolezza della parola diventata quasi
una scienza che si può esibire perché non solo non fa
male, non provoca danni, ma lenisce, addolcisce, conforta.
L’urlo gridato, la voce pietrosa, quasi coltelli conficcati nelle
carni, sono terapeutici, parlano del male del mondo, di ciò che
accade nostro malgrado, di ciò che non accettiamo, di ciò
che vorremmo diverso.
È prestare voce al silenzio.
È ridare salute al dolore.
E le parole si dispiegano, e le poesie si configurano nell’ombra
e prendono peso.
Tanto che Caterina,
ad un certo punto, chiede di non essere seppellita di parole, se le
parole possono essere solo strumento per trattenerla.
E poi, sempre le parole, vengono definite “fiumi che scorrono
e che quando l’acqua si è prosciugata, cominciano a parlare”.
E ancora: “lo sguardo seduce, la parola dice”.
Le parole sempre protagoniste sono “culle di parole”, sono
“parola promessa”, parole temute poi perdute”, “parole
che giocano nell’orgia dei suoni alludono eludono illudono”.
E quando Caterina
afferma “babele di lingue ardenti vorticano” continua con
“rincorro la parola in bilico tra abissi, con un verso sigillo
la danza”, fino a trepidare con un “respirami parole”.
Il rincorrersi delle immagini, a volte irruenti e scabre, a volte intiepidite
e riscaldate da un riferimento intimista che balugina speranza, non
permette al lettore di concedersi e di abbandonarsi alla riflessione:
troppo incalzanti si susseguono i pensieri, troppo affollati si disegnano
gli scenari.
Piuttosto, tale riflessione ci viene restituita più avanti, quando
le scorie si sono depositate e la materia decantata ci viene restituita
nella sua purezza.
Dicevamo della poesia che si traduce in linguaggio e del linguaggio
che è poesia.
Immemori, ci lasciamo andare sull’onda di ciò che è
affermato, osservato, capito, tra detto e indovinato.
Le pluralità di accenti, i giochi, le allitterazioni, ma anche
le pause del linguaggio di Caterina,
indicano un mondo fantasmagorico, ci introducono in un’aura di
vaticinio, suggeriscono scenari inesplorati.
La realtà diventa altra realtà, diventa possibilità,
opzione, fantasia.
Il tutto giocato sul segno del ripiegamento esistenziale che non si
risolve solo su un piano personale, ma diventa patrimonio di tutti,
perché tutti vi si possono ritrovare.
Potrei ancora immergermi in questo liquido ancestrale, in queste rime
del pensiero e della scrittura, sicura di trovarvi altre istanze, altri
motivi: troppo ricco è l’humus al quale attingono.
Lontana da intenzioni univoche, lascio a ciascuno la possibilità
o il piacere di praticare, con assoluta modernità di intenti,
un proprio percorso di lettura tra le poesie di “Duende”
affinché, liberi da impostazioni e imposizioni interpretative,
si realizzi ciò che nei suoi versi Caterina si auspica: “alla
quadratura del cerchio, preferisco la sinuosità appuntita del
poligono irregolare”.
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Opportunità
smarrite
di Stefano
Cervini
Ispirazioni
Quest’interiore bulicare
che troppo sempre pullula
dentro, ci tracima a volte
in analogie compulsive,
e buttiamo così
zucchero e sale
in quella altrimenti
bolla d’indifferenza,
metafore a ritagliare.
Carpe diem*
Ogni attenzione negata,
ogni ritenuta dolcezza oppure
qualsivoglia elusa battaglia,
tutte opportunità smarrite
di raddensare questa vita,
impalpabile altrimenti,
che disperante ne fanno
il suo naturale epilogo.
* Orazio, Carm. 1, 11, v.8 – l’accezione è personale;
non si ha qui nessuna pretesa critico/ermeneutica.
Dignità
Anima raminga,
quando più non potrai
camminare con passo sicuro,
usa il bastone, non ti fermare,
poiché se l’esito è certo,
pure cambia il modo.
Per noi maledetti
Antica riecheggia una voce:
“Con dolore partorirai
e coltiverai la tua terra
con il sudore della fronte.”
Per noi maledetti
anche stare in piedi
è sforzo di muscoli.
Eppure
nell’abilità delle mani
e nella bocca
che può gustare il vino,
resta il riscatto nostro
nelle vigne basse
del Signore.
Stefano Cervini
è già stato pubblicato in precedenti Faranews.
- Primo classificato nella Sezione Poesia del Premio Nazionale “Brevis”
2006;
- finalista del Premio Firenze 2005;
- finalista del Premio Les Lyriques 2005;
- segnalato nel concorso Pubblica
con Noi 2005.
– vicnitore concorso letterario Les Lyriques 2006 - VIII edizione.
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Tre atti
(poetici) e due recensioni (a Tomada e Fichera)
di Paola
Castagna
UOMO
L’uomo che c’è
mi cura
mi abbraccia
si preoccupa
l’animale
si fa desiderare
non mi caga
si lascia cercare
nel labirinto
dell’emozione
la scorciatoia
non conduce al varco.
Nel districarmi
tra cioccolata e sale
guardo il sole in faccia
all’alba del giorno
un aurora
mi ricorda che son viva
mentre lungi da me
il tramonto
che scova
nella chiarezza della strada
che guadando il corpo
trova.
ANIMALE
Il caffè riscaldato ha un retrogusto che sa di piscio di gatto.
Tanto è forte ciò tra il palato e lo stomaco si incastra.
L’animale quando viene ferito vuole solo autorizzarmi sul poter
scopare con chi voglio.
Il suo male ha il limite del tradimento e per grazia ricevuta, concede.
Come se a me servisse un autorizzazione sul vivere.
L’animale arriva nel profumo, lo laverei prima di amarlo, voglio
il suo odore non le essenze della vita di fuori.
Mentre stamane la quiete inebria riempiendo quei bicchieri che ieri
sera scarseggiavano di nettare.
Restare senza vino quando la parola è segnata da un No che deciso
affermo.
No a prestazioni gratuite, tutto ha un prezzo.
La mia generosità non ha valore monetario, il mio sapere sì.
Persevero senza sapere il peso di lontananze minime.
La leggerezza del sentire porta l’involucro a non trovare pace.
Che sia quella dei sensi, ben venga nell’addomesticarmi verso
la castità.
Solo la parola trasgredisce mentre il corpo pulsa e trattiene.
Un fallo che ignora la mia esistenza si sofferma sulle labbra, mi zittisce
e taccio.
Arriverà incazzato, lo sento e il turbamento è alto.
Sarà una furia nel rivendicare un possesso dei giorni assenti.
Lascerà l’appagamento totale, scenderà le scale
che qualcun altro pulisce.
Uno, due, tre, quattro, cinque gli scalini che attendono la sosta, nel
voltarsi in questo estremo saluto, abbraccio il mondo.
ANIMALE UOMO
Una vocina dentro parla con voce briosa.
Tienimi le mani sulla testa.
Insegna alla camminata unica che ho, l’ondeggiare.
Tienimi le mani sulla testa.
La postura è sempre avanti, il baricentro del corpo proteso.
Una vocina dentro ripete che vuole le mani sulla testa, solo lui sai
come, quando, dove.
Sorrido mentre sto aspettando l’Uomo che mi ricorda che l’Animale
arriva domani.
Avevo capito oggi, aveva detto oggi nel confermarmi il suo arrivo.
Tieni una sola mano tra i capelli, afferra la ciocca più
ribelle, quieta la tempesta, se afferri con fermezza sento ciò
che sei.
Dicono che le persone non si conoscono, falso.
Siamo in tantissimi che si conoscono, il virtuale permette molto.
Non conosciamo coloro che scegliamo nella vita, scelti di sicuro per
questo motivo.
È l’incognita che muove l’uomo.
Ritma la mia testa verso la tua, testa del sapere animale.
Sono consapevole della nudità che porto, che attrae come il miele
l’orso.
La tana produce un miele prelibato e lenitivo.
L’orso è un animale dalle dimensioni importanti.
Nuda striscio sul pavimento come una serpe che cerca la mela.
Veloce striscio tra una stanza e l’altra scansando gli angoli,
insinuandomi dove nemmeno l’impossibile oserebbe andare.
Una vocina dentro parla con voce briosa.
Mi tiene le mani sulla testa e penetrandomi gl’occhi urla
alla vita.
***
FRANCESCO TOMADA NELL’INFANZIA MAI SMARRITA
Un poeta capace che adopera la parola come verità.
Nasconde il dolore a tutela dei suoi affetti.
Mentre ci sbatte in faccia le risposte che trova.
Mille interrogativi affliggono i suoi passi, ma sono passi scalzi e
non fanno alcun rumore.
Felpato il passaggio che attraversa il nostro sentire.
Tomada
scrive bene, ma di un bene disarmante, che ti cava il fiato.
In quel sussurro di periferia che conosco.
In quell’età che scivola via senza la tregua di aver guardato
a sufficienza un figlio negl’occhi.
Qui il poeta è figlio della poetica, padre delle attese, madre
generatrice di parole.
Orfano di sé stesso.
È quel sé stesso che conosce lo scandire del
tempo che lo attraversa nel corpo della donna che desta la sua appartenenza.
Francesco Tomada
lo leggi tutto d’un fiato, nel rimando di voler sapere.
L’infanzia
vista da qui cerca quel bambino smarrito, nelle foto che appaiono
sbiadite dagl’anni.
Fa tesoro di quest’ultimi lasciando nell’ombra la sua figura
di uomo, per quell infante che se ne impossessa.
Il suo percorso è lungo, appare spesso impaziente nella crescita
che vuole darsi, fonte importante di sapere.
La generazione ne fa da testimone plausibile che rilegge nella distanza.
Nella vita segna i vari passaggi, non è un eremita la parola
maiuscola, ricerca sottile di ciò che ci appartiene.
Di Francesco
Tomada potrei scrivere pagine e pagine senza la capacità
di capire come l’uomo sa amare.
Potrei elencare le parole più forti, le più disarmanti,
le più esatte, quelle nascoste, quelle che giocano al gatto e
al topo, le parole subdole che la mia poetica conosce.
Ma dovrei trascrivere l’intero libro del poeta, non vi è
nulla che non fila.
Tutto perfettamente giusto e composto.
L’Esatto tocca Francesco, già responsabile di suo nel portare
un nome importante.
Il nome del poeta che appartiene ai nostri figli, ai nostri padri, all’amplesso
che ancora non ha trovato, quelle parole dedicate alla donna, che compensa
l’uomo che è.
Trasforma ciò che siamo e ci rende volutamente coscienti e
Importanti.
MENTRE… DI PAOLO FICHERA, LE GESTA
Mentre la mia poetica raggiunge la parola come capacità di dire
senza celare ne i nomi ne i cognomi.
Mentre sento di scrivere bene, il poeta desta la mia chiarezza.
Innesti,
di Paolo
Fichera è un inno al padre, come fonte originario di ogni
respiro.
La sua è una paternità letteraria che con la Parola attraversa
il sapere conscio e lucido.
Il poeta cura la Parola come fosse malata o contagiosa.
La medica rendendo l’essenziale.
Nel padre che prende la sua mano per scrivere, porta un rigore ed una
disciplina esemplari.
Il poeta scrive su fogli bianchi, non necessita di righe per stare in
linea.
le parole vergini hanno lo stesso vento…
Ritorno ad un pensiero sul ragionare nella forma tonda, non più
solo rette parallele che non si incontrano mai, bensì il pensiero
nel tondo delle cose con una chiusa finale.
il cerchio non è tutto
Fichera con Innesti
dà un senso al vagare dei pensieri.
Li riordina collocandoli al loro posto.
Così la parola con parsimonia viene adoperata, come fosse il
tocco ultimo su di un piatto prelibato.
Una spolveratina di
Nel servire un piatto di verità.
Come una pugnalata nel basso ventre lacera le viscere e ne comprende
il male.
Un poeta che infligge nel sapere.
vergami il dolore…
Un poeta che chiama il padre come primo vagito nel suo esistere.
Il suo male si inceppa nel distogliere lo sguardo dalla mancata riga
del foglio, il male gli chiede un battesimo d’iniziazione per
proseguire nell’urlo del dolore.
Un raccolta carica di vita, in parte feconda nello sperma che tende
a lasciare in giro, senza riguardo, mentre la parola diventa impenetrabile.
Paolo Fichera sta cercando,
tornando alle origini, quel seme che lo generò nella natura incontaminata.
Ricerca quella purezza tipica dei Grandi, uomini e animali che popolano
la nostra terra.
L’animale in lui è docile, l’uomo radicato per
il pino che è quercia.
Mentre al cielo si perdona tutto.
Concludo rifacendomi alle parole iniziali, mentre la mia poetica scrive
i nomi e i cognomi, Paolo Fichera desta la mia chiarezza, mentre Innesti
si mescola col sangue ossigenandomi di buono.
Paola
Castagna è nata a Mantova nel 1969. Solo all’inizio
del 2002 prende consapevolezza del suo fare poetico, ci crede e non
necessitando più un “salvataggio” trova la sua massima
ispirazione scrivendo in qualsiasi contesto: la poesia non è
più solo tormento, sofferenza o agonia, ma rapporto con sé
stessa, con gli altri, i figli, anche quelli degli altri. Figli
è infatti la sua raccolta di esordio (Fara 2005), mentre la plaquette
“Erateide… ne vorrei fare un giardino” entra in FaraPoesia
nello stesso anno. Sue poesie sono presenti in rete e in pubblicazioni
antologiche.
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La poesia è un
dono scarso
di Andrea
Parato
La poesia è un dono scarso
che costa ormai poco:
la trovi al mercato
la scambi per gioco
Ogni amore sulla faccia della terra
è tragico, perché ha come destino
la morte degli amanti e degli amati.
Solo facendo silenzio
capisco
le parole
giuste.
Nella sofferenza la rassegnazione
è una grazia?
Per andare avanti
voltiamo la testa
guardiamo indietro:
chi ci precede lascia
tracce difficili
da decifrare.
Succede che sfuggono i perché,
danno dolore e lasciano vuoto.
Sai la domanda, sai cosa dire (ti sei
preparato una vita):
ma non è la risposta giusta.
Le cose ci sopravvivono
I tuoi occhiali, la tua penna
giacciono sul comodino.
E la sveglia, rotta,
è rimasta tutta l’estate al negozio:
ora funziona la molla, tu non la puoi caricare.
Le cose ci resistono
Oltre la vita
restano poche e inutili
ferme logore e spoglie
e su di esse si stendono i segni:
proliferano inutili
Le cose ci avanzano
Il foglio bianco.
Il gatto piange alla porta.
Il muro intontito.
La tele tace.
Mi venivo a rifugiare
eravate conforto
ora non più
ora non più.
Quando ogni metafora
ogni suono
ogni segno
non avrà senso nel tempo
allora saprò, finalmente, nell’incertezza
dove mi porta confuso
la marea del dovere
e non voglio.
Quella notte trovammo il pagliaio in fiamme
e urla dal granaio abbandonato
di giovani ubriachi che correvano
tra l’erba alta e il grano verde.
Per spegnerlo ci volle
sino all’alba.
sulla terra dura di luglio, di tutto
rimase solo una macchia nera
di stoppie bruciate e una bottiglia,
vuota.
MANGA
volti: sempre netti
occhi: sempre larghi
mani: sempre dritte
pugni: più potenti
dita affusolate
abiti attillati
passi più veloci
gesti intraprendenti
Prigionieri dei margini di carta!
La perfezione sta nel tratto
come il pennello nell’inchiostro.
TYPE
Il carattere tipografico è importante.
Il carattere tipografico è importante.
Il carattere tipografico è importante.
Il carattere tipografico è importante.
IL CARATTERE TIPOGRAFICO È IMPORTANTE.
IL CARATTERE TIPOGRAFICO È IMPORTANTE.
IL CARATTERE TIPOGRAFICO È IMPORTANTE.
RIMA BACIATA
Non mi riuscirà mail la rima perfetta,
perché in altri tempi è stata già detta.
Andrea
Parato
Appassionato e studioso di comunicazione.
Ha scritto di nuovi media e di semiotica.
Lavora nel settore editoriale-organizzazione eventi.
Con Fara Editore ha pubblicato le raccolte di poesie:
Da
luoghi intravisti e Il
nostro esilio quotidiano.
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Il comandante e
la Storia
di Mattia
Pari
“Accanitevi contro il mio corpo, lupi affamati di
vendetta, assaporate la carne malata di un uomo corrotto dall’avidità
e dall’accidia… gustatevi le carni di un peccatore. Bevete
il sangue del vampiro, inneggiate alla mia sconfitta e brindate sulla
mia lapide. Non aspettate altro… schiavi della vita! Insignificanti
passeggeri di un treno che vi ha ripudiato sin dalla nascita abbandonandovi
alla prima stazione innanzi alle urla strazianti di quelle effimere
donne che hanno faticato per concedervi la vita. Festosi e
sudici alzate le mani, cantate e bevete sicuri di aver conquistato una
libertà duratura, ma la vostra gioia dimentica l’ambizione
umana… presto un altro uomo prenderà il mio posto e tutte
le pecore torneranno nel recinto.
Godetevi la felicità passeggera, l’immortalità è
dei pastori…beata ignoranza!”
La sua voce ferma mi intimorì, rimasi alcuni istanti
immobile, i nostri occhi si incrociarono per pochi interminabili secondi,
ordinai il fuoco ed ebbe termine la dittatura di Moduku, nell’Africa
Centrale.
Le mie parole segnarono una svolta, la mia sentenza scrisse libri di
storia. Dove arrivava tale forza? quando ero diventato così “potente”?
Le parole di Moduku gelarono il mio cuore di guerrigliero e quella notte
tra le urla eccitate delle truppe che festeggiavano la presa della capitale
e la caduta dell’ennesimo regime militare, mi domandai quale fosse
il mio futuro.
Rifiutai le prostitute che i luogotenenti accompagnarono nella mia tenda,
rifiutai il vino e i sigari, nessuno comprese il mio stato d’animo.
Pretesi solitudine.
Estrassi dalla sacca da viaggio un libro e la S&W, appoggiai entrambi
sul tavolino adibito a scrivania. Li osservai a lungo cercando di capire
quale delle due armi fosse la più potente, non trovai risposta.
Pulii con cura la pistola e sfogliai con attenzione il libro, ma né
l’una né l’altra attività soddisfò
la mia curiosità. Eppure soluzione doveva esserci; cultura o
forza?
Una delle due armi doveva essere più incisiva dell’altra,
lo sapevo, solo non focalizzavo quale. La cultura è arma raffinata,
trafigge il nemico senza ferita, uccide l’anima, ma la forza è
così straordinariamente definitiva ed è più accessibile
all’ignoranza delle masse.
Osservai quei due oggetti per un paio d’ore, sconsolato li riposi
nella sacca.
L’alcol aveva placato i festeggiamenti, uscii dalla tenda. Lo
scenario che si offriva inorridiva la mia mente, i corpi dei soldati
erano ammassati ovunque, le loro anime si erano allontanate da diverse
ore.
Gli sguardi persi nel vuoto e rannicchiate nelle loro braccia generose
prostitute che per un paio d’ore gli avevano concesso di dimenticare
i crimini di cui erano stati partecipi.
Nella desolazione mi accorsi di essere osservato.
“Cosa guardi? I miei occhi, il mio corpo o la mia anima?!! Pensi
forse sia corrotta? avida?”
Attesi risposta, ebbi silenzio.
“Mi osservi e non rispondi alle domande sei un ottuso presuntuoso…io
scrivo la storia!”
Il ragazzo continuava a guardarmi negli occhi senza proferire parola,
il suo sguardo era tenero e spaventoso, avevo paura e questo mi irritò
maggiormente.
“Pretendo risposta…io scrivo la Storia!” ribadii.
“…io sono la Storia” rispose.
Tremai come un bambino, ero terrorizzato. Compresi la sua forza, ma
non potevo ritirarmi a tale affronto, ero un guerrigliero.
“No ragazzo, tu sarai storia, se continui ad importunare il tuo
comandante!”
“Ora sei tu il presuntuoso, governi solo uomini”
“Chi sei?”
Sorrise.
“Sono la Storia…”
Continuava a provocarmi.
“Perché continui ad importunarmi?”
“Perché la Storia non può scriverla chiunque”
“Basta, un’altra parola e ti farò fucilare!”
“… governi solo uomini…”
Mi svegliai con il volto sulla scrivania e la cervicale a pezzi, gli
anni passano anche per i guerriglieri.
I raggi del sole filtravano dagli angoli della tenda.
L’eterna battaglia tra il giorno e la notte, mi ricordava la mia
vita e tutti i giorni quando mi svegliavo o quando andavo a dormire
riflettevo su quella guerra naturale senza vinti, né vincitori,
una guerra tra due ottusi, una guerra come tante altre.
Il ricordo di quel ragazzo continuava a martoriare i miei pensieri,
forse avevo sognato tutto, forse anche i sogni hanno un significato.
Forse.
Che parola inconsueta per uno abituato alla guerra; “forse”
nel conflitto non esiste, esiste solo la certezza, l’incertezza
è morte. Me l’ho insegnò il mio Maestro d’armi
e padre adottivo, molti anni prima.
“… Certezza è vita, incertezza è morte…”
semplicemente.
Le guerre iniziano con urla eccitate, continuano con urla disperate
e finiscono con urla eccitate o disperate. Le urla è sono l’unica
costante, si ripetono in ogni fase.
Dunque guerra uguale ad urla.
Dopo? Cosa c’era dopo una guerra, dopo le urla? Fino a quel momento
per me erano state solo altre guerre ed altre urla, ma questa volta
era diverso non potevo più scappare.
Le parole di Mudoku erano macigni, la mia ambizione avrebbe rovinato
i loro sogni. Mi avrebbe soprafatto e la Storia sarebbe venuta a riprendersi
ciò che gli spettava e un guerrigliero per quanto abile è
solo un uomo che al massimo governa altri uomini, ma la Storia si impone
prepotentemente, non accetta ordini da nessuno.
Non tutti possono scrivere la Storia, occorre chiedere il permesso,
ma a chi?
Al Ragazzo! Ecco cosa dovevo fare, trovare il Ragazzo e domandargli
il permesso di scrivere, per diventare nero su bianco, per l’immortalità,
superare dunque il primo dei limiti dell’uomo.
Ordinai il raduno di tutte le truppe, per un discorso celebrativo, dieci
minuti dopo ero davanti a un intero esercito, cercando le parole opportune.
“Giustizia è compiuta!”
Urla prima.
“Libertà è raggiunta!”
Urla dopo.
Mi arruolai per soddisfare sogni rivoluzionari, sogni
di un mondo equo, mi arruolai per fame, per non fare il contadino, per
morire eroicamente e non in un mediocre letto di una cascina di periferia.
Presto la guerra non mi parve oasi di eroi senza macchia, i confini
non erano i buoni e i cattivi e tutto si complicò.
Mi ritrovai a combattere una guerra che non mi apparteneva, probabilmente
non apparteneva neanche ai miei commilitoni, apparteneva solo ai comandanti.
La trincea carne da macello.
Decomposizione
Decomposizione della carne, del cuore, della vita.
Divenni presto un disertore, scappai e corsi. Venni raggiunto a pochi
chilometri dal confine, fui processato e fucilato.
“Siamo padroni del nostro futuro, padroni della nostra vita,
padroni! Niente più servi, sudditi, solo Padroni!”
Urla durante.
“Ora costruiremo la terra della liberta!”
Cercai con gli occhi quel ragazzo tra la folla; lo feci inutilmente.
Urla infine.
Quella voce un tempo procurava le mie urla euforiche, quella stessa
voce diede l’ordine di trucidare un povero contadino vestito da
soldato.
Volevo solo coltivare patate! Vivere di nulla e morire in un polveroso
letto di campagna.
Trovai la morte in quel deserto, inseguendo un sogno di potere che non
mi apparteneva, senza onore, senza gloria, senza voce, senza.
Sapevo che mi stava cercando, sapevo che i suoi occhi volevano incrociare
i miei; mi temeva, ma era pur sempre un guerrigliero e la paura l’affrontava
con il coraggio.
Le sue grida erano ricordi lontani.
Urla, Urla, Urla, non altra risposta dalla massa senza pensiero, tutto
era sotto il suo controllo.
Li guardavo esterrefatto, continuavano ad inneggiare il mio nome, il
nome di colui che li aveva trascinati nel sangue, che aveva macchiato
le loro anime condannandoli alla dannazione eterna.
Non capivo, fin da piccolo il mio carisma aveva controllato ogni genere
di persona amici, nemici donne, commilitoni, tanti soggetti, tante vite
erano dipese dalle mie decisioni.
La gente continuava a seguirmi, anche quando io stesso sarei voluto
scappare dal mio corpo e dalla mia vita, loro no, volevano farne parte.
Come era possibile voler far parte della morte e della desolazione?
Eppure continuavano a gridare.
Cercavo l’unica bocca chiusa in quella complessa massa umana.
Avrei voluto ucciderlo, ma l’odio appartiene ai vivi, i morti
provano solo rancore.
La sua voce continuava a martellarmi il cervello, mi ricordava la mia
condanna a morte, la disperazione del momento, la paura dell’ignoto
che mi attendeva; la sua voce che precedette i colpi dei fucili, fu
l’ultima cosa che le mie orecchie udirono. In quel momento in
quel interminabile momento mi parve di sentire nitidamente ogni colpo,
come se ognuno di essi uccidesse una piccola parte di me.
Avevo assistito a decine di esecuzioni, ma quella volta, ne sono certo,
i colpi non furono solo un’orgia assordante, ma si divisero, ognuno
di essi si riconobbe nella propria individualità, come tanti
piccoli Caronte mi accompagnarono dalla parte opposta della riva.
Mi distesi e fu allora che capii di essere capace di volare.Nessuna
bocca sigillata solo urla cariche di speranza. Una speranza che forse
avrei tradito, trasformandomi in quello che tutta la vita avevo combattuto.
Era il mio terrore e il mio futuro, ad ogni grido della folla sentivo
crescere il mio potere, il mio controllo, avrei creato una democrazia,
certo, ma una democrazia controllata, avrei preso possesso dei mezzi
di comunicazione, avrei creato scuole che avrebbero insegnato quello
che avrei ritenuto opportuno e avrei creato automi.
Avrei…
Una democrazia moderna e fasulla.
Avrei…
Gli avrei rubato l’anima.
Nessuna traccia del ragazzo. Riflettei, governo solo uomini….e
gli uomini stanno sulla terra, alzai lo sguardo e lo vidi.
Sospeso sopra le nostre teste, lo sguardo assente, non mi stava ascoltando.
Interruppi il discorso e rimasi immobile tutti alzarono lo sguardo convinti
che qualcosa di eccezionale stesse arrivando dal cielo, non videro niente
tranne il sole del giorno e la quiete dopo la battaglia. La quiete che
segue le tempeste e che si rifugia sempre nel cielo, lontano dagli esseri
umani, dai loro problemi e dalle loro frustrazioni.
Mi osservavano e io restai pietrificato al cospetto di quella maestosa
presenza alata; volava, aveva enormi ali rosse sangue e volava, le ali
di un angelo, ma rosse… un rosso intenso scuro, sporco. Ero osservato
rientrai nella mente accantonando i pensieri e i ricordi, ci guardammo
negli occhi.
Ebbi paura; “Comandante!” – disse un soldato –
mi voltai e ordinai di sparare sul ragazzo alato, tutti mi osservarono
confusi.
Venni portato nella mia tenda e due ore dopo il mio primo luogotenente
preparò un comunicato che informava la truppa che avevo la febbre
molto alta ed ero soggetto a visioni.
Nessuno vide angeli tranne me.
Era il tempo di riorganizzare i pensieri e costruire il futuro, il mio
futuro!
“Vedi Angeli?”
seduto sulla scrivania vidi il ragazzo sdraiato sulla mia branda.
“Stai cominciando a stancarmi, continuerai a perseguitarmi per
molto?”
“Può darsi”
“Perché non mi lasci in pace?”
“Pace?, pronunciata da te suona molto strana… pace…
stai diventando vecchio!”
“Cosa sei venuto a fare?”
“A ricordarti che governi solo uomini, che la Storia non può
scriverla chiunque e a divertirmi disturbando la tua fragile mente.”
Avrei voluto chiedergli il permesso di scrivere la Storia, ma un guerrigliero
anche vecchio malato e stanco, è un guerrigliero.
“Ho uno Stato da organizzare, non ho tempo per la spavalderia
della gioventù.”
“D’accordo, ti lascio riflettere, ma ricordati di creare
qualcosa di equo, qualcosa di corretto, accantona ambizioni personali,
altrimenti…”
“Altrimenti cosa?”
“… altrimenti la Storia verrà a riprendersi ciò
che ti ha concesso.”
Scomparve, nuovamente solo;
Avevo combattuto centinaia di guerre attendendo con ansia e preoccupazione
il mio momento, non lo avrei ceduto a nessuno; né angeli né
ragazzi.
La stesura del progetto necessitava comunque di molta attenzione, dovevo
convincere di avere buoni propositi anche le truppe e i luogotenenti
altrimenti in breve avrei perso il controllo della situazione.
Esaminai con cura tutte le forme di governo sperimentate nei secoli
di storia, quelle in essere ed in fine anche quelle solo teorizzare.
La prima intuizione, come spesso accade era la migliore; avrei creato
una democrazia. Ora restava da definire come avrei potuto mantenere
dominio assoluto in una apparente equità.
Riflettei a lungo e compresi che l’ignoranza era la chiave del
potere, la democrazia dell’ignoranza era l’arma pregiata
e raffinata che stavo cercando.Scolai birra e mi abbandonai a Morfeo,
il giorno successivo avrei fondato uno Stato.
Convocai i miei generali per elencare il mio progetto.
“Signori è venuto il tempo si riporre le armi ed avventurarci
nello sconosciuto mondo della pace!” temevo che l’angelo
apparisse ma non avevo scelta. “So che siete uomini a cui non
piace farcire discorsi di estetica senza sostanza, quindi vi elencherò
il nostro futuro.
Creeremo uno Stato Democratico di facciata in cui noi attraverso svariati
mezzi che vi elencherò manterremo il popolo sotto regime.”
“Comandante mi permetta, ma questi uomini non sono ingenui, ne
innocui, non sarà semplice attuare il suo progetto.”
“Non ho né chiesto il Vostro parere, né ho parlato
di cose facili o difficili. La prossima interruzione verrà sanzionata,
chiaro per tutti?”
“Si, signore!”
“Bene, il controllo non sarà militare, ma d’intelletto
controlleremo l’istruzione, l’informazione, lo sport, la
cultura, il lavoro e persino la vita privata dei nostri cittadini.
Unico limite al nostro controllo è l’apparenza, tutti dovranno
credere di vivere in assoluta libertà. Domande?”
“Dunque, quale sarà il loro recinto? Ad esempio la libertà
di pensiero sarà tollerata?”
“Non solo tollerata, ma tutelata, noi daremo loro una sorta di
foglio bianco in cui potranno scrivere senza però uscire dai
bordi. Rispondendo al Suo esempio; la fine dello spazio da disegnare
per la libertà di pensiero è la partecipazione, quella
è il vero pericolo.
Ora vi distribuirò un testo di una centinaia di pagine in cui
è tutto elencato fino all’ultimo dettaglio, persino le
leggi che approveremo dopo le elezioni, ora andate.”
Decisi di non interferire, attendere nell’ombra.
Alla mattina mi svegliai a sulle carte riposte con cura sulla scrivania
c’era una piccola macchia di sangue.
Impallidii. Bianco morte.
Ne conoscevo la provenienza divina, sussurrai:
“Vieni fuori brutto figlio di puttana… se hai un minimo
di palle fatti vedere! Cos’è i testicoli te li hanno mangiati
i vermi, cadavere alato?!”
Apparve un pozzanghera di sangue al centro della tenda.
Comincia ad urlare
“Ti diverti a spaventarmi? Guardami sono terrorizzato, guardamiii!!!”
Presi il bicchiere riposto sulla scrivania, mi chinai e lo riempii si
sangue.
“Guardamiiii!!!!”
Lo bevetti in un solo sorso, sporcandomi il volto e la maglia di quel
rosso intenso.
“Allora? Non sono terrorizzato?!”
Tirai il bicchiere al suolo frantumandolo.
I miei segnali e il mio silenzio lo stavano innervosendo, un uomo dedito
all’azione come lui non poteva sopportare l’attesa senza
scontro.
Uscii dalla tenda e dissi ai due uomini di guardia di pulirla con cura.
Ero stanco di quella sudicia tenda, fortunatamente il restauro del palazzo
governativo era quasi compiuto.
I giorni trascorrevano veloci e né angeli né uomini avrebbero
fermato il mio volere.
Il venti di maggio ci furono elezioni fantoccio che portarono il mio
partito al comando della Nazione, tutto era compiuto.
Continuai a lasciargli segni della mia presenza; macchie di sangue,
piume e cose del genere e lentamente logorai la sua mente.
Poi decidetti di illuderlo di avere vinto, di aver sconfitto la Storia,
cinque anni di silenzio, nessun avvertimento, nessun segno della mia
presenza.
Quel periodo lo trascorsi osservando i mutamenti del suo comportamento,
l’accrescersi della sua autostima, delle sue pretese, della sua
follia.
Fucilava uomini quotidianamente, si cibava della fame del popolo, si
arricchiva di ricchezze terrene, persino il suo fisico era mutato cedendo
all’assedio dell’età.
Una notte sterminò un intero villaggio accusando i suoi abitanti
di cospirare una rivolta.
Quella notte piansi e quando gli angeli piangono e le loro lacrime entrano
in contatto con la superficie terrestre, in quello strano connubio di
fine ed infinito, si trasformano in diamanti.
Continuai a disperarmi per giorni e notti ed inondai quella terra arida
e povera di ricchezza. Condannando il popolo di quei luoghi ad eterno
conflitto.
“Comandante! Diamanti! Diamanti ovunque! Comandante!”
“Parla!”
“Diamanti, diamanti, tantissimi diam…”
“Questa era l’unica cosa chiara, ragiona e spiegati; il
tutto molto velocemente.”
“Questa mattina durante gli scavi a Nord, un operaio ha trovato
dei diamanti, una miniera di diamanti.”
“Una miniera?”
“Una miniera!”
“Chi ha saputo della notizia?”
“Tutti, gli operai hanno visto, la gente mormora…”
“La gente mormora…”
“Già, non è una notizia stupenda?”
“La gente mormora…”
“Bhè, sa come….”
“La gente, la gente mormora… la gente non ragiona, sulla
gente ho costruito il mio successo, sulla gente ora…”
“Non capisco, Comandante”
“Fuori vattene da questa stanza.”
Qualche giorno più tardi i boati della guerra, facevano sottofondo
ai miei pensieri.“La Storia è venuta a riprendersi ciò
che ti aveva concesso.”
“Ti aspettavo, sapevo che non avresti tardato, sei venuto a goderti
lo spettacolo?”
“Non c’è spettacolo nella morte, dovresti averlo
imparato.”
“Non c’è spettacolo neanche nella vita”
“Dipende cosa ti aspetti da essa.”
Rispose con un sorriso isterico:
“Quello che si aspettano tutti gli uomini, diamanti, stupidi diamanti!”
“Li hai fabbricati tu. Possibile che nemmeno in questo momento
ricordi gli ideali che ti spinsero a diventare un guerrigliero? Possibile
che non ricordi il tempo in cui la tua forza era l’intelletto
e le tue armi le parole?”
“Chi sei ragazzo?”
“La Storia non ha nome perché è passato, non sforzarti
nel ricordo, falliresti. Concentrarti solo su te stesso, non evadere
la ragione.”
“Che dovrei fare, pentirmi, pregare? andiamo, sono un guerrigliero
e morirò da guerrigliero.”
“Lo so non è di questo ciò di cui stavo parlando,
e lo sai anche tu, non lo ammetterai mai, ma non esistono solo battaglie
di sangue.”
Una voce fuori dalla porta interruppe la nostra conversazione. “Comandante!
Sono entrati nel palazzo! Cosa dobbiamo fare?!”
“Per me è tempo di andare” senza il tempo di replica
me ne andai
“Comandante!”
Le grida e gli spari si intensificarono.
Guardai sulla scrivania il libro e la S&W.
“Comandante risponda!”
Li osservai con nuovi occhi e un vecchio sguardo presi in mano il libro
e fu allora che mi ricordai di essere capace di volare.
Mattia Pari,
classe 1983, lavora in una azienda del settore credito, è laureando
in Scienze Giuridiche e insegna diversi anni difesa personale.
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Piccolo contributo
alla lettura del canto XXXIII del Paradiso
di Maria
Rosa Panté
Il contenuto del canto XXXIII è paradossalmente
semplice: attraverso l’intercessione di Maria (La Madonna) Dante
può finalmente vedere Dio. Completamente appagato, Dante conclude
così il suo viaggio e la sua scrittura.
Anche la sua vita giacché il Paradiso fu pubblicato postumo.
In realtà come si può immaginare il canto, vertice di
poesia, come l’estrema e più ardua variazione musicale,
presenta molteplici livelli di lettura. Io ho individuato alcuni temi.
1. LA POESIA
Dunque il canto XXXIII del Paradiso è davvero vertice
della poesia, Dante porta la poesia alle sue estreme possibilità.
Se si considera che, a sua volta, la poesia già spinge al massimo
grado la possibilità della parola, si intuisce lo sforzo poetico
dell’autore.
Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio,
tu se' colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che 'l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Bastino come esempio i primi versi della celeberrima preghiera
alla Vergine. La preghiera è rivolta da S. Bernardo di Chiaravalle,
perché la Vergine ottenga da Dio che Dante possa concludere il
suo viaggio, vedere Dio e non morire, cioè non perdere la ragione,
ma nemmeno tornare al peccato.
La preghiera, che riprende e sublima tratti della liturgia, si apre
con una serie vertiginosa di figure retoriche, mai come in questo caso
poco retoriche, cioè non ornamenti, bensì sostanza stessa
del contenuto. Ecco un nudo, ma eloquente elenco:
Vergine Madre (ossimoro)
Figlia del tuo figlio (ossimoro)
Umile e alta (ossimoro)
L’ossimoro è qui espressione della misteriosa
natura ambivalente di Maria, ma anche della condizione di Dante vivo
nel regno dei morti…
Termine fisso ecc. (chiasmo)
fattore fattura (figura etimologica)
Seguono poi anafore, metafore, un tripudio non più
da analizzare ma a cui abbandonarsi.
In contrasto con questa arditezza poetica Dante (come
in tutto il Paradiso) più e più volte esprime l’ineffabilità
di quanto ha visto, l’incapacità della memoria e della
parole (sostanze prime della poesia) di dire l’indicibile. Per
quel poco che dirà dovrà implorare l’aiuto di Dio.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi,
è tanto, che non basta a dicer 'poco'.
Colpisce qui l’uso sinestetico dell’aggettivo
fioco per la voce e la parola che rimanda al canto primo dell’Inferno
e all’incontro con Virgilio, anche lui fioco!
La preghiera rivela le doti meravigliose di Maria: essa
condensa in sé le virtù teologali, essa è luce,
calore, fonte di speranza (fontana vivace e così la
fontana non è più solo un simbolo, ma la vediamo davanti
a noi). Essa è la bontà per eccellenza.
Alle preghiere di S. Bernardo si uniscono quelle di tutti i beati, un
anfiteatro di luce quasi insostenibile.
Nulla dice la Madonna per lei parlano gli occhi (il che rimanda allo
Stil Novo), i quali, diletti e venerati, prima rispondono a
S. Bernardo poi parlano a Dio.
Senza una parola (il dire ormai è inutile, insufficiente) la
Madonna ottiene la grazia da Dio (il meccanismo è lo stesso per
tutti coloro che la pregano). Ora Dante può guardare l’inguardabile!!!
2. L’ESPERIENZA MISTICA
Dante ora può vedere Dio. Il canto ha, a mio parere,
alcune fondamentali caratteristiche dell’esperienza mistica (così
com’è descritta certo già da S. Bernardo, ma in
seguito molto chiaramente da S. Teresa D’Avila, vissuta nel 1500);
aldilà del fatto che il poeta abbia avuto davvero o meno un’esperienza
del genere.
a. ciò che si vede, si ode, si prova è TROPPO,
è SOVRABBONDANTE, sicuramente PERICOLOSO, perché l’incontro
tra finito e infinito, tra uomo e divino è sempre un’esperienza
terribile, devastante, ma meravigliosa (fin dal mondo antico: ad esempio
la tragica figura di Cassandra);
b. infatti chi ha un’esperienza mistica vorrebbe
non finisse mai, dolorosissimo è il ritorno alla dimensione solo
umana, dopo essere stati “toccati” dal divino
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
però che 'l ben, ch'è del volere obietto,
tutto s'accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch'è lì perfetto.
La riluttanza, a lasciare la visione, secondo Dante, deriva
dal fatto che Dio è bene perfetto.
c. Questa sovrabbondanza non si può descrivere
compiutamente, sono necessarie METAFORE e SIMILITUDINI. In questo caso,
Dante, genialmente e contro ogni aspettativa, usa molte immagini che,
per dire l’esperienza sovrumana, si rifanno non solo al mito,
ma alla quotidianità, a ciò che tutti possono sperimentare.
Qual è colüi che sognando vede,
che dopo 'l sogno la passione impressa
rimane, e l'altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
Chi infatti non ha mai sperimentato al risveglio la dolcezza
d’un sogno che non ricorda? O non ha visto la neve sciogliersi
al sole?
d. La visione, inoltre, è sempre dinamica, ma non
è Dio che cambia, semplicemente chi vede Dio non può essere
com’era prima dell’incontro. Dante più osserva Dio,
più ne viene mutato, quindi vede di più, più in
profondità.
Non perché più ch'un semplice
sembiante
fosse nel vivo lume ch'io mirava,
che tal è sempre qual s'era davante;
ma per la vista che s'avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom' io, a me si travagliava.
e. Infine ecco il culmine dell’esperienza mistica,
chi vede Dio vede finiti i suoi desideri. Non desidera più nulla
perché è riempito il vuoto che cerchiamo si colmare in
ogni modo, ma che solo Dio può colmare.
Diversa è la proposta, ad esempio buddista, dove la fine dei
desideri è rinuncia a desiderare. In Dio non è un vuotarsi,
ma un riempirsi, un traboccare.
3. IN SOSTANZA COSA VEDE DANTE?
È la domanda fondamentale non solo dello studente
o del lettore, ma d’ogni essere umano, però nemmeno un
poeta può dirci com’è Dio, nemmeno un mistico…
facciamocene una ragione!
Dante poeta, visionario, pellegrino, uomo, in sostanza … vede
Dio. Poiché la visione è dinamica Dante vede Dio “per
gradi”.
a. Nella visione Dante prova solo emozioni POSITIVE: dolcezza
e godimento puro. Ancora con un’intuizione geniale il poeta ci
dice d’aver veduto lo scopo dell’universo, la chiave del
tutto e d’aver capito ciò per il grande godimento che prova
(non è un caso che tra le tante perifrasi usate da Dante per
indicare Dio, vi sia “sommo piacere”, cioè la fine
del desiderio, la gioia d’aver tutto compreso).
NELLA SODDISFAZIONE DI TUTTI I DESIDERI (la gran fame della lupa) STA
LA BEATITUDINE.
La forma universal di questo nodo
credo ch'i' vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch'i' godo.
b. Ecco in ordine cosa vede Dante:
– un vivo raggio che può fissare
solo perché questo è il volere di Dio.
– il senso dell’esistenza: indicato
con la metafora del volume. In Dio l’universo è raccolto
in un volume, ordinato; sulla terra sono fogli sparsi.
Nel suo profondo vidi che s'interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l'universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch'i' dico è un semplice lume.
– il mistero della Trinità, rappresentata
simbolicamente da tre cerchi, due cerchi dei colori dell’arcobaleno
e uno (il Figlio) nasce dall’altro (il Padre), uno di fuoco che
li alimenta e tiene insieme cioè lo Spirito Santo. La sapienza,
la sophía greca, la rùah che, in ebraico,
è di genere femminile.
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l'alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d'una contenenza;
e l'un da l'altro come iri da iri
parea reflesso, e 'l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
– nella Trinità D. scorge il mistero dell’incarnazione
di Cristo, nei cerchi (o meglio dipinta nel cerchio del Figlio
e degli stessi colori e dunque Dante vede, ma non attraverso il semplice
senso della vista) scorge la SUA immagine: di Dante in particolare,
dell’uomo in generale. Questa figura è quasi inscritta
nella Trinità, il che mi ha fatto pensare all’uomo vitruviano,
quello reso famoso da Leonardo. Forse dunque quell’uomo non solo
è misura di tutte le cose, ma è al centro del mistero
del divino (il cerchio). In ogni caso siamo fortunati perché
nella moneta da un euro noi Italiani abbiamo quest’uomo che tende
all’infinito.
– infine il poeta vede un fulgore: tutto
è rivelato. Il fuoco, la folgore sono modi tipici della manifestazione
del divino (anche pagano).
Ora però Dante è parte della “rota ch’igualmente
è mossa” come tutto “dall’amore che move il
sole e l’altre stelle”.
Nella corrispondenza macrocosmo/microcosmo, l’anima di Dante,
nella perfetta beatitudine raggiunta, ruota intorno a Dio come i pianeti
dell’universo!
Dio è amore, e questa è l’ultima grande intuizione
mistica. Una bella consolazione.
4. IL CERCHIO
a. Oltre alle metafore quotidiane o mitologiche, sono
frequenti nell’ultimo canto (ma presenti in tutta la Commedia)
le metafore che includono concetti matematici e geometrici…
come se a dire le cose estreme la poesia abbia bisogno d’una potente
alleata, cioè la matematica. (Platone scrove: non entri qui chi
non è geometra, cioè matematico)
b. In particolare nel XXXIII canto del Paradiso ricorrente
è l’immagine del cerchio, della rota (il
cerchio, la circonferenza è infatti simbolo dell’infinito
per quel suo apparente non avere né inizio né fine), che
culmina nella similitudine finale tra il matematico che cerca la quadratura
del cerchio (fatto che nel dire comune indica qualcosa di impossibile)
e il poeta che vanamente cerca di dire quello che ha veduto. (Ci sono,
però, immagini, dipinti e mosaici in cui Dio col suo bel compasso
riesce a quadrare il cerchio, ma è Dio).
E dunque ecco l’ultima similitudine dantesca che unisce due somme
manifestazioni umane: poesia e matematica e quindi veramente al cospetto
di Dio l’uomo è completo… poeta e scienziato.
Qual è 'l geomètra che tutto
s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond' elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
Maria Rosa Panté
è nata nel 1961 a Borgosesia, cittadina in provincia di Vercelli
dove vive. Insegnante di materie letterarie in istituti superiori, attualmente
si occupa della produzione di materiale multimediale e ipertesti per
la didattica. Ha pubblicato un libro di poesie e prose, L’amplesso
retorico. Voci femminili dal mito (2004) e nel 2006 un libro di
racconti: Noi che non fummo muse (Manni). Ha partecipato a
diversi concorsi di poesia e narrativa, conseguendo premi sia per la
produzione poetica, che per la prosa e la saggistica.
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Lettera
alle monache di clausura di S. Clemente
in occasione della Festa del Transito di San Benedetto,
21 marzo '07
di Bernardo
Francesco Maria Gianni
Reverendissima Madre Maria Gabriela,
Reverendissima Madre Scolastica,
Reverende e carissime sorelle tutte di San Clemente,
Vi scrivo queste poche e confuse parole sette giorni dopo
la celebrazione, con Voi, del Transito del nostro Santo Padre Benedetto…
Carissime sorelle nella medesima vocazione, sappiate che davvero per
me quell’indimenticabile pomeriggio è stata un’occasione
di grazia immensa! Ve ne sono profondamente grato. In mezzo a Voi ho
avuto anche la possibilità, ritornando sui luoghi dove è
germogliata la mia vocazione, di ripercorrere, in pochi istanti di tempo
e soprattutto in quell’anticipo di eternità che è
la liturgia, un arco significativo della mia vita, che fra le pareti
della Vostra splendida chiesetta ha sempre trovato un grembo accogliente
dove far rinascere in me una più forte confidenza col Signore.
Siete state voi, con la vostra silenziosa ma tenace testimonianza di
fedeltà e di speranza, di attesa e di pazienza, a stendere intorno
al mio cuore inquieto una tenda dove riposare e ascoltare la Voce del
Dio che chiama, cerca e attende l’uomo!
Da voi ho imparato l’arte difficile ma necessaria della pazienza,
del desiderio (parola tanto cara a San Gregorio Magno!) e soprattutto
l’arte oggi rarissima della speranza…
Come dimenticare? anni addietro ecco oltre la grata pochissime sorelle,
molte anziane, qualcuna malata, e tuttavia ogni giorno Voi non avete
mai fatto mancare nel cuore e nelle viscere della città il canto
tenue della vostra preghiera, della vostra gioiosa testimonianza di
amore, di perdono, di dedizione al lavoro e alla comunità, al
bisogno del prossimo, alla Chiesa intera…
E ogni giorno avete lasciato aperta la porta del monastero in fiduciosa
attesa che lo Sposo arrivasse…
E lo Sposo un giorno è arrivato, con la Sua gratuità che
è sempre imprevedibile e del tutto esorbitante i nostri calcoli
e le nostre attese… lo Sposo vi ha portato in dono volti e cuori
nuovi, sorelle tenaci che alla vostra scuola imparassero l’arte
difficile della conversione, sorelle pazienti che con la loro perseverante
obbedienza permettessero al monastero di continuare a vivere obbedendo
all’obbedienza del Figlio, che altro non è se non il suo
donarsi al Padre per noi e per la nostra salvezza, perché quell’emorragia
di amore dalla Croce Santa inondasse di bene e di speranza la nostra
storia altrimenti destinata alla consunzione.
È dal vostro martirio di speranza che ho appreso la bellezza
essenziale di quella schola caritatis che è il monastero
benedettino: tanti o pochi che si sia, non c’è comunità
dove non si possano e non si debbano inaugurare logiche nuove di amore
e perdono, di lode e di gratuità, di speranza e di attesa che
solo trovano nel mistero pasquale la loro più vera autenticità
e consistenza.
È per questo che nell’omelia fosse importante sottolineare
con voi il paradosso tutto pasquale di un uomo che attende e va incontro
alla morte in piedi! Si può dare un’esperienza
simile? Alla lettera no, ma nel piano della simbologia spirituale senza
dubbio sì e proprio questo San Gregorio ci ha voluto trasmettere
del Suo e del nostro Santo Benedetto: vivere pensando con austero realismo
alla morte che dovrebbe sempre essere sotto il nostro sguardo (RB 4,
47), ma al contempo ecco la necessità di un’intensificazione
tutta pasquale del desiderio: Vitam aeternam omni concupiscentia
spiritali desiderare (RB 4, 46)! Che bello, che stupore scoprire
assieme come esista per san Benedetto una concupiscenza che è
buona, quella che proietta nella vita eterna in Cristo ogni nostra esperienza
di gioia, di pienezza, di bene, di bello… alimentando una simile
concupiscentia della vita eterna è davvero possibile
osare la speranzosa attesa della morte in piedi!
Nuovo Abramo, colui che spera contro ogni speranza (Romani 4,18), il
nostro Padre Benedetto, ergendosi in piedi, ci mostra il volto umanissimo
e divinissimo della speranza cristiana che riesce a rinvenire il segreto
pasquale anche al cospetto della morte, del limite, del peccato, anche
sotto la cenere grigia della nostra fragilità e del nostro peccato…
quella cenere con cui, a inizio di Quaresima, ci siamo lasciati coprire
ci ha infatti ricordato la temporaneità, l’impermanenza
della nostra struttura corporea, ma al contempo sappiamo, nello sguardo
della fede, che quella cenere è destinata a riprendere luce e
vita nel fuoco pasquale: da sigillo di umiltà penitente quella
cenere torna ad essere brace che accende la notte della nostra città
di fiamme altissime di vita e speranza: la vita e la speranza che il
Risorto con specialissima fiducia ha consegnato alle mani fragili ma
tenaci di voi tutte, carissime sorelle nascoste nel cuore della città
e della chiesa.
E anche voi adesso, simili a brace coperta dalla cenere, nell’apparente
inutilità del silenzio e della clausura, offrite un supplemento
essenziale e decisivo, ricco di senso e di logica: il fuoco della fede,
della gratuità, della donazione, dell’amore, della speranza,
della perseveranza…
Anche se cosparsa di cenere la brace che siete, la brace che custodite
qui nel gomitolo di strade cittadine, è lievito di vita per questa
nostra chiesa a Prato: è solo il suo calore che viene dall’ardore
del Santo Spirito a innalzare le nostre membra anche contro l’ultimo
nemico, la morte, per farci morire in piedi a ogni sterile
e oscuro egoismo e peccato.
Possa il vento dello Spirito, che qui a Prato ha sovente la forza simbolica
e la direzione della tramontana, ossigenare la luce e il calore da voi
custodito in questo piccolo monastero, benedizione per una città
intera, esperienza di speranza per chi vi incontra, misterioso lievito
di fecondità apostolica per tutte le diverse membra della chiesa
sparse nel mondo! Possiate, con la forza che viene dalla Santissima
Trinità, sorgente e compimento di ogni esistenza, rallegrarvi
sempre nel Signore per l’umile consapevolezza del dono mirabile
ricevuto, la vocazione ad una vita marginale, apparentemente periferica,
ma in realtà inscritta nel cuore del cuore della Chiesa che vi
custodisce e vi ama come sorelle che quasi mimetizzate fra le case e
i palazzi della città, ma soprattutto “nascoste con Cristo
in Dio” (Colossesi 3,3), riecheggiano incessantemente la voce
della Sposa allo Sposo: “Vieni!”… (Apocalisse 22,17)
Bernardo
Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano dell'Abbazia
di San Miniato al Monte:
Monaci Benedettini di Monte Oliveto
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze
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