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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 94
Ottobre 2007
Editoriale:
Ombre e radici, normalità e follia…
… di questo ci parla nel suo vivido racconto Subhaga
Gaetano Failla e proseguiamo con un racconto empatico sulle apparenze
vs le presenze di peso di Marco Bottoni, proseguiamo
con i begli echi poetici di Enrica Musio e la caustica
ironia di Giovanni Tuzet. Abbiamo poi l'avvincente
racconto di Vesna Andrejevic che ci ricorda che “l’inizio
di ogni viaggio sta nella nostra ignoranza” e infine la sempre
illuminante lectio lucana di padre Bernardo M. Gianni.
Buona lettura!
Lo
zio Pino
di Subhaga
Gaetano Failla
Ricordi? Si parlava di ombre famigliari, nostre o altrui,
che gravano nelle relazioni all’interno delle famiglie, che limitano
le nostre vite, se tali ombre non appaiono alla luce, se esse non spariscono
sotto i piedi, sotto il sole a perpendicolo, allo zenit, divenendo allora
vivificanti radici. Parlammo anche della formazione piuttosto recente
di numerosi psicoterapeuti, che conducono oggi gruppi di clienti durante
sessioni denominate “Costellazioni familiari”, e d’una
mia partecipazione ad uno di questi gruppi, alcuni anni fa, durante
un soggiorno nella comunità di Miasto.
Mi chiesero di interpretare il ruolo di “figurante”, essendo
il numero di tali partecipanti insufficiente. Dovevo rappresentare cioè
un figlio, un padre, un amante, una “figura” significativa
all’interno di dinamiche familiari cristallizzate in grovigli
irrisolti. Perfino da morti, la presenza di questi personaggi, i loro
fantasmi, volteggiano cupi nel mantenere ben stretti dei nodi relazionali
soffocanti, anzi, tale potenza può accrescersi proprio perché
nascosta, non riconosciuta, corrompendo l’anima d’una famiglia
e portando non di rado i suoi membri verso la condizione di malattia.
Questo in teoria, ma quando mi trovai a muovermi come un fantoccio,
sotto le direttive del terapeuta, all’interno d’un cerchio
di uomini e donne seduti a terra, con accanto a me, a breve distanza,
persone che giocavano le parti di altre figure, dapprima pensai alla
futilità e all’elemento grottesco di quei gruppi. Qualche
minuto dopo pensai anche con disprezzo: “Devono essere davvero
ricche queste persone se trovano il modo di buttare via così
i loro soldi…”
Poi, però, con sorpresa, mi accorsi che qualcosa stava accadendo.
Le nostre conversazioni di Nantes, a svuotare golosi al mattino il ricco
buffet dell’albergo, nel timore scanzonato di violare il bon ton
e la pazienza delle cameriere sorridenti, e poi, a parlare felicemente
spersi nei nostri passi dopo il vino, di notte, nelle strade d’un
tratto chiassose di giovani intenti nei cauti bagordi estivi attorno
ad altri tavoli all’aperto, e nelle nostre passeggiate alla luce
cangiante del giorno, tra nuvole pioggia sole, sorpresi dal volto antico
d’una chiesa che spunta allo sbocco di strade anonime o dall’improvviso
apparire d’una vastissima piazza futurista, deserta, e a spasso
ancora accanto alle acque placide della Loira, che sembra accompagnare,
assorta, il nostro assorto cammino.
Io ti parlai poi d’un mio zio, dello zio pazzo, per quel che il
ricordo mi donava. Non mi interessano ulteriori ricerche sui fatti,
sulla verità di questa storia. Ti racconterò delle storie
ascoltate, e vissute, non solo attraverso l’ascolto; d’una
memoria che esiste, della sua verità nella mia vita odierna,
di quel che adesso trovo nel ricordo.
Come al solito, mi faranno compagnia a tratti, durante il racconto,
alcuni libri. Essi giungeranno, assieme ai miei giorni, per alleviare
forse la solitudine del narratore.
Ci siamo. Inizio.
Si parlava raramente di questo mio zio – a tavola
in genere, a pranzo, con mio padre al posto d’onore, mia madre,
con un occhio ai fornelli, noi quattro figli chiassosi e spesso anche
una mia vecchia zia, simpaticissima – e ogni volta che il suo
nome giungeva nei discorsi dei miei genitori, le voci si abbassavano,
circospette, a temere quasi l’ascolto d’orecchi estranei
affondati nei muri della cucina. Questo mio zio, lo zio matto, lo chiamerò
zio Pino, non solo per proteggerne – in un gesto forse del tutto
inutile – la memoria, ma anche perché, sembra strano, adesso
non ricordo più il suo nome. Gli psicologi avrebbero probabilmente
qualcosa da dire su tale dimenticanza, ma a parlarne rischieremmo la
noia.
Si bisbigliava, in racconti pieni di reticenze, frammentari, che lo
zio Pino era impazzito durante il servizio militare, forse negli anni
Quaranta o verso la fine degli anni Trenta. Sembra che a far scoccare
la scintilla del suo grave malessere siano stati alcuni lavori di caserma
umilianti, in cui egli venne relegato e sottoposto alla derisione degli
altri soldati. Quei lavori, quei soprusi, avevano amplificato in zio
Pino una dissonanza di status; proveniva egli da una formazione scolastica
molto elevata per quel tempo e per un meridionale: forse era laureato
o laureando in medicina. Da allora una grande sofferenza, una sorta
di profonda tristezza, in mancanza d’un efficace aiuto, lo avvolsero
strettamente, soffocandolo pian piano e guidando i suoi inconsapevoli
simili, il suo prossimo, a rinchiuderlo in uno dei famigerati manicomi
del Sud Italia.
Sollevare delle questioni sulla normalità e sull’anormalità
non significa affatto (…) negare l’esistenza dell’angoscia
personale che spesso è associata alla “malattia mentale”.
L’ansia e la depressione esistono. La sofferenza psicologica esiste.
Ma la normalità e l’anormalità, la salute e l’infermità
mentale, e le diagnosi che ne derivano, potrebbero essere meno reali
di quanti molti di noi credono. (D.L. Rosenhan, “Sani in
manicomio», in L’altra pazzia, a cura di L. Forti)
Io non avevo mai incontrato lo zio Pino, fino alla mia
età adolescenziale. Devo sottolineare, tuttavia, che di lui in
famiglia non si parlò mai in termini dispregiativi o in alcun
modo offensivi: il ricordo che mi giunge adesso di quelle frasi sommesse
ha il tono del dramma incombente e d’una malattia dalle possibilità
contagiose, se di quella malattia se ne fosse parlato a voce alta.
Le notizie sulla vita quotidiana di zio Pino, successive alla sua crisi,
erano pressoché nulle, come se la sua esistenza fosse finita
nel momento stesso della sua catastrofe esistenziale, ed egli vivesse
adesso una esistenza postuma. Era stato risucchiato dal manicomio e
lì la sua vita spariva. I suoi “fuochi d’artificio”
linguistici divenivano per gli psichiatri e per molti altri soltanto
incomprensibili e inutili deliri.
CARLO Non può rispondere.
CAPA D’ANGELO È muto?
CARLO No. La storia è un po’ lunga. Non parla perché
non vuol parlare. Ci ha rinunziato. Eh, sono tanti anni. Dice che parlare
è inutile. Che siccome l’umanità è sorda,
lui può essere muto. Allora, non volendo esprimere i suoi pensieri
con la parola… perché poi, tra le altre cose, è
pure analfabeta… sfoga i sentimenti dell’animo suo con le
“granate”, le “botte” e le girandole. Perciò
a Napoli lo chiamano Sparavierze. Perché i suoi spari non sono
spari: sono versi. È uno stravagante.
CAPA D’ANGELO Parla sparando, e voi lo capite?
CARLO Io no, mio fratello sì. Mio fratello capisce tutto quello
che dice. Io capisco poche cose. (E. De Filippo, Le voci di
dentro)
Ma un giorno i sussurri su zio Pino si fecero più
frequenti, e venni a sapere che egli era stato trasferito in un manicomio
vicino alla nostra città. Mio padre pensò di andare a
fargli visita, e comunicò la sua intenzione a mia madre. Io osservavo
in disparte quel confabulare, non chiesi mai alcuna informazione al
riguardo. Avevo forse quindici anni.
Tornarono i miei genitori con aria seria da una di quelle rarissime
visite. L’impressione fu per loro talmente intensa che non nascosero
alla famiglia alcuni particolari dell’incontro con mio zio.
Prima di ricevere il permesso d’entrare in manicomio, i miei genitori
avevano atteso un po’ all’ingresso, e forse tale attesa
si era protratta, in quel momento, inspiegabilmente. Poi furono ammessi
in una stanza dove trovarono zio Pino. Il luogo era stato ripulito così
in fretta che il fetore ancora perdurava. Mio zio aveva un braccio rotto,
ingessato. Il personale del manicomio disse ai miei genitori che una
caduta aveva procurato la frattura. Sembra che negli spazi delle istituzioni
totali ci sia una diffusione davvero incredibile di incidenti di questo
tipo… Mio padre non riuscì a nascondere il suo dispiacere,
e il suo sdegno e disgusto. Da quel che compresi, lo zio Pino non aveva
dato alcun chiarimento su quei fatti. Forse da tempo, come il personaggio
di Baratto nel brano che segue, egli non era più “interessato
alla partita”, o da quella partita era terrorizzato.
Racconterò la storia di come Baratto, tornando
a casa una sera, sia rimasto senza pensieri, e poi le conseguenze del
suo vivere da muto per un lungo periodo.
Verso la fine di una domenica Baratto sta giocando una partita di rugby
con la sua squadra. Nel primo tempo compie un paio di azioni in contropiede
ed entrambe le volte si ferma a tre quarti scuotendo la testa. Gli attaccanti
della sua squadra non sono scattati in tempo per prendere i suoi lanci,
ed entrambe le volte la palla è andata perduta. Gli sembra che
la partita non lo riguardi, lo dice ad un giocatore con un orzaiolo
sotto l’occhio che gioca in difesa con lui. (G.Celati, “Baratto”,
in Quattro novelle sulle apparenze)
Non avevo mai visto mio zio, tuttavia, solo adesso, proprio
in questi attimi, davanti allo schermo del mio computer, mi giunge dal
pulviscolo della memoria una foto mostrata dai miei genitori a tutti
noi della famiglia.
“Guardate, guardate com’era bello!” diceva mia madre.
“Ah, quanta sfortuna ha avuto…”
E nella foto c’era un giovane d’una raffinata eleganza,
sorridente, con accanto forse alcuni suoi compagni di studio. Il luogo
probabilmente era Napoli, sede universitaria di molti studenti del Sud.
Avevo più volte immaginato lo zio Pino nel suo successivo stato
disgraziato, prima di vederlo in carne ed ossa, come poi avvenne. In
tali occasioni, non giungeva alla mia mente nessun timore d’una
follia violenta, nessuna immagine che incutesse in me la paura della
cattiveria. Si parlava di lui come d’una persona mite e riservata,
e proprio questa sua delicatezza, secondo le parole smozzicate dei miei
genitori, gli aveva impedito una giusta reazione alle angherie subite
in caserma, al tempo della sua crisi. Tuttavia, pensando a mio zio,
non riuscivo a distogliere una sensazione di vaga inquietudine, attraverso
quei sussurri che evocavano lontane e subdole possibilità di
“contagio”: il caos poteva diffondersi verso tutti coloro
che erano vicini a mio zio. La follia poteva colpire anche me.
- Lo “schizofrenico” è diventato
un po’ come un eroe per la cultura underground, come l’outsider
degli anni Cinquanta. Ha qualcosa da dire a questo proposito?
- Io non lo considero un eroe, penso che queste persone siano vittime,
non martiri. Sono vittime, come altri nella nostra società, in
relazione alla pratica psichiatrica istituzionale. (…) Inoltre
sono vittime di questo tipo di idealizzazioni che, a suo modo, è
altrettanto distruttiva, invalidante e mistificante della psichiatria
istituzionale. […]
- Lei usa la parola schizofrenico. Ha per lei un qualche significato
o validità?
- Uso questo termine tra virgolette, “diagnosticato schizofrenico”.
Deve averlo sempre in mente. Questo termine ha per me validità
scientifica solo come etichetta sociale, non ha alcuna validità
dimostrata come etichetta clinica. (Intervista con Aaron Esterson,
a cura di A. Rossabi, in L’altra pazzia, a cura di L.
Forti)
E venne il giorno in cui anch’io incontrai lo zio
Pino. La notizia d’una sua visita a casa nostra si diffuse con
rapidità; questa volta i bisbigli erano pronunciati a voce più
alta.
“Mi raccomando, siate educati con vostro zio,” ripeteva
a noi figli mia madre.
Mi sembrava che straordinari preparativi segreti d’accoglienza
si svolgessero in casa, in attesa di zio Pino. Forse era un pomeriggio
di fine inverno. Io aspettavo. Ero allora un timido adolescente, spaventato
dalla vita. Ricordo il corridoio in penombra. Qualcuno si avviò
verso la porta d’ingresso.
A metà corridoio incontrai zio Pino, accompagnato con molta cortesia
da mio padre, il quale mi presentò a lui. Non avevo mai visto
una persona così gentile e raffinata. Zio Pino forse aveva quasi
sessant’anni, era abbastanza alto, e indossava un completo grigio,
classico, elegante, portato con grande disinvoltura. Mi salutò
con un bel sorriso e con una carezza sul capo. Per la prima volta nella
mia vita mi sentii trattato come un principe. Dire che rimasi molto
sorpreso non esprime nemmeno lontanamente il mio stato d’animo.
Non rimasi a bocca aperta, ma quella sensazione indicibile si spalancò
nel mio animo e rimase lì, protetta, ed ancora adesso ne sento
la bellezza, la sua purezza. Zio Pino entrò poi con i miei genitori
in cucina. Socchiusero la porta e non riuscii a sentire quel che si
dissero. Si fermò a casa poco tempo, poi uscì e non lo
vidi mai più.
Qualche anno dopo giunse la notizia della sua morte; anche quell’evento,
accaduto in manicomio, fu ricostruito approssimativamente attraverso
dettagli imprecisi. Si parlò d’infarto, si vociferò
d’un fisico fin troppo provato, si pensò all’ovvio
atto conclusivo d’una condizione disumana durata diversi decenni.
I funerali si svolsero in un luogo distante. Io non vi partecipai.
Ad un certo punto, a volte, per i motivi più disparati, alcune
esistenze diventano inanimate, senza anima appunto, trasformandosi esse
in maschere di cartapesta, con un’unica immobile espressione.
Forse ciò, pur in uno stato estremo di costrizione e sofferenza,
non capitò a mio zio. Forse la sua anima rimase in vita fino
alla fine, e chissà ora essa dov’è, se davvero esiste,
leggera come un sorriso.
“Provi a mettermi le mani addosso e le faccio
vedere” disse Fantozzi con un fil di voce, e quello gli strappò
tutta la parte anteriore della giacca e la buttò a terra, poi
con sadica lentezza gli strappò la camicia in quattro pezzi,
gli sputò in faccia, gli diede un calcio tremendo all’osso
sacro e gli urlò dietro, mentre lui si allontanava: “Vai,
fila prima che ti ammazzi di botte!”. Lui riprese la passeggiata
con la signorina, continuando con un leggero tremito nella voce il discorso
interrotto, senza commentare l’episodio.
(P. Villaggio, “Fantozzi va a passeggio con la signorina Silvani”,
in Fantozzi)
L’estate è alla fine, il cielo è carico
di nuvole scure, alcuni forti temporali hanno lavato le strade impolverate
e la mia macchina. Il sole illumina per minor tempo questa parte di
Terra. La grande carpa che aveva allietato i nostri giorni di mezza
estate, nel piccolo lago, è stata uccisa dai pescatori, qualcuno
ha visto i prati della riva colorati dal suo sangue. Il ciclo di nascita
e morte, di trasformazione, prosegue inalterato, nonostante le profonde
corruzioni operate nell’organismo del pianeta. E questo ciclo
si presenta ancora a noi con sorprendente eleganza.
L’ultima rivelazione. Per questo per tanti secoli
si faceva la maschera funebre del volto, per cercare di cogliere quell’essenza.
Non appena una persona moriva, veniva fatta una maschera funebre, per
catturare quell’immagine che la persona stava liberando nell’istante
della morte.
(J. Hillman, Il piacere di pensare. Conversazione con Silvia Ronchey)
(Toscana, 24 agosto 2007)
Subhaga
Gaetano Failla è nato a Scalea in Calabria nel 1955. Laureato
in Sociologia a Urbino, ha pubblicato con altri un volume di carattere
sociologico. Negli anni Settanta ha collaborato con la rivista «Carcere
informazione». Suoi racconti e poesie sono apparsi sulle riviste:
«Fernandel», «Il babau», «Re Nudo»,
«Calamo», «Orizzonti», «Il foglio letterario»;
e su riviste e siti on-line italiani ed esteri (Il babau, alcuni anni
prima rivista cartacea, L(’)abile traccia, un sito francese e
uno thailandese); una poesia è stata pubblicata dal «Messaggero»,
un racconto è stato trasmesso da RAI Radio 3. Con Aletti ha pubblicato
le raccolte di racconti Logorare i sandali (2002, vincitore
del concorso Alla ricerca dell’autore), Il coltello e il pane
(2003) e un racconto nell’antologia I porti sepolti vol.
3 (2002). È presente nelle antologie di Giulio Perrone Editore
Racconti sotto l’ombrellone e Vite sportive,
entrambe del 2007. Il lungo racconto “Il seminario di Vinastra”
è stato pubblicato, quale vincitore del concorso Pubblica con
noi nel volume 3x2
(Fara, 2006). Con Fara ha pubblicato anche La
signora Irma e le nuvole (2007). Suoi haiku sono presenti nelle
antologie in lingua inglese Zen poems (Londra 2002) e Haiku
for lovers (Londra 2003). Queste antologie sono state tradotte
in francese e tedesco. Suoi testi sono apparsi sulla rivista londinese
«Hazy Moon». In «Orizzonti» ha pubblicato, fra
l'altro, le interviste a Rigoni Stern, Alda Merini (in collaborazione
con M. Mangani), Giuseppe Bonaviri (con V. Failla), Roberto Amato, poeta
premio Viareggio 2003, Suad Amiry, scrittrice palestinese. Ha fatto
parte di gruppi teatrali e partecipato a numerosi reading e iniziative
letterarie. Svolge la professione di insegnante. Vive a Massa Marittima
(GR).
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I
Gravi
di Marco
Bottoni
Ci sono persone che attraversano il tempo della loro vita
con passo lieve.
Leggeri e sottili, scivolano in superficie con grazia apparente, si
potrebbe dire con eleganza, e così facendo evitano gli ostacoli,
sorvolano le difficoltà, galleggiano sulle situazioni più
spinose e dure senza affrontarne i nodi, senza sentirne il peso.
Ad alcuni di questi accade, a volte, di volare in alto, o almeno così
appare agli occhi del Mondo, e ciò gli basta, perché è
nell’apparire che investono le loro energie, come se l’apparenza
fosse un valore.
Se hanno un corpo ben fatto diventano Velini o Veline, se sono astuti
e voraci primeggiano nella finanza, negli affari; se sono sufficientemente
ambiziosi e privi di scrupoli, nonché tendenzialmente ipocriti,
salgono i gradini della carriera politica su su fino ai più alti
livelli del Potere.
Anche se non brillano, sono comunque sempre in vista perché stanno
tanto più in alto quanto più sono leggeri, e se gli accade
di essere del tutto vuoti, tanto meglio.
Ci sono poi Esseri (pochi e rari, a dire il vero) che non sono affatto
leggeri.
Sono un numero esiguo, ma quando ci sono, sono certamente Uomini e Donne,
e vivono la loro Vita piegando il Mondo, il Tempo e i fatti della quotidianità
del loro peso.
Con il loro stesso esistere, e per quanto è pesante il loro corredo
di Valori, deformano la Realtà che li circonda, modificano i
fatti, orientano i comportamenti e, soprattutto, l’Essere delle
altre persone.
Le influenzano, le modificano, le determinano.
Le fanno diventare, le plasmano.
Questi Uomini e Donne così particolari e rari, che vivono una
vita a volte oscura, comunque sempre poco appariscente, sono i Gravi.
La loro Essenza, ciò che fa di loro il “sasso grosso”
difficile da smuovere, è un impasto di Valori che riempie la
quasi totalità del loro Essere, e che li rende solidi e forti,
integri, fermi.
Coraggio e Onestà, Verità e Onore, Sapienza e Volontà.
Modestia, che è sapere esercitare il modus, cioè
la giusta misura.
Autorevolezza, che è scegliere, nei rapporti con gli atri, la
via dell’ augeo – auctor sum, io faccio crescere.
Critica e Coerenza, che è continuo dubitare e continuo perseguire.
Bontà, che vuol dire godere nel vedere gli altri stare bene.
Giustizia, che è avere una Legge Morale dentro di sé,
e applicarla.
Fedeltà, che è rispondere sempre e comunque alle domande
della Vita con tre semplici parole: “io ci sono”.
E Amore, che se uno deve farselo spiegare, non saprà mai cos’è.
Quando ci sono, per tutti i mesi e gli anni che stanno insieme a noi,
può accadere che passino quasi inosservati, e che noi non riusciamo
a valutarne bene le dimensioni, tanta è la parte di loro che
sta al di sotto della linea d’orizzonte, dove vanno a cadere gli
sguardi superficiali: ciò che appare, del loro essere, è
a volte molto meno della famosa punta dell’iceberg.
Ma quando vengono a mancare, ci troviamo a fare i conti con l’enormità
del vuoto che, della loro assenza, rimane.
All’improvviso, non ci sono più, e la mancanza della loro
“gravità” ci fa sentire persi e spaesati, quasi incapaci
di mantenerci in piedi, come astronauti impacciati e traballanti, privati
della Forza in virtù della quale ci siamo sempre mantenuti in
equilibrio.
Al di là del dolore della perdita, è questo vuoto, di
loro, che ci sconvolge e ci dispera, e lo spazio che fino a ieri, col
loro Essere, avevano occupato, diventa ora una voragine immensa, dentro
la quale si ha paura di cadere.
Ed è così per ognuno di loro, indipendentemente da quanti
e quali siano stati i giorni delle loro Esistenze, perché costoro
sono fatti della stessa Essenza, e conosciutone uno, li sai praticamente
tutti, si chiamino Pietro o Nino, Antonio o Giorgio, o Enrico, o Giovanni.
O Giovanna.
Così è.
Cioè, Amen.
E noi?
Noi qui, sassi ancora troppo piccoli, noi che restiamo, tristi e perduti,
a guardare disperatamente il vuoto, “noi ritardatari” come
dice Montale, che ne sarà di noi? Ci sono persone che, attraversato
il tempo della loro vita con leggerezza estrema, compiuti che siano
i loro giorni, volano via sottili, leggeri come sono sempre stati, e
non esistono più.
A chi gli è stato vicino, ed ha buona memoria, di loro rimane,
per un po’ di tempo, un sentore vago e indefinito, come il ricordo
che si ha di un profumo.
Ma essi, non ci sono più.
Spariti, perduti, morti.
Ci sono Persone, invece, che non se ne vanno mai.
Quando si compie e si esaurisce il tempo del loro esser stati carne
e pelle e cuore e muscoli e cervello, continuano ad esistere, anche
nella loro assenza.
Soprattutto nella loro assenza.
Sono i Gravi, che hanno lasciato un’impronta, che hanno deformato
la Realtà del loro peso, che hanno attirato con la loro Forza
le Persone che gli sono state accanto e attorno, riuscendo a plasmarle
e a farle crescere con gli stessi Valori dei quali erano impastati loro.
Coraggio e Onestà, Verità e Onore, Sapienza e Volontà.
Modestia.
Autorevolezza.
Critica e Coerenza.
Bontà.
Giustizia.
Fedeltà.
E, soprattutto, Amore.
Sono i Gravi, che hanno saputo compiere il miracolo di entrare in noi,
di penetrarci della loro Essenza per farci diventare quelli che siamo.
Anche quando se ne sono andati, non c’è bisogno di esercitare,
di loro, il ricordo, ci basta vivere: questo, di quel che sono, è
Nino; questo, di quel che sento, è Giovanna; questo, di quel
che conosco, è Pietro.
E in questo modo continuano ad esistere.
Sono i Gravi, Padri e Madri soprattutto, ma anche Amici, Insegnanti,
Fratelli, dei quali viviamo l’assenza come un vuoto ma di cui,
se siamo sinceri fino in fondo, possiamo dire che non ci è mancato
niente, perché ci hanno sempre dato tutto, di sé stessi.
Persone morte sempre troppo presto, delle quali rimpiangiamo di avere
potuto bere troppo poco, ma solo perché il bicchiere, purtroppo,
è stato piccolo.
Bicchiere, della loro Vita, che ci hanno sempre offerto pieno.
Rimangono, ci sono, immanenti e presenti esistono non come un pensiero
ma nella Realtà di quel che vogliamo, di quello che pensiamo,
di quello che proviamo.
Paradossalmente rimangono, reali e veri, anche nella fame e nella sete
che ancora abbiamo di loro, insaziata e insaziabile, né più
ne meno come in tutto ciò che di loro abbiamo mangiato e bevuto.
Che ci ha nutriti, che ci ha cresciuti, che ci ha fatti diventare quelli
che siamo.
E noi?
Noi qui, ancora così leggeri, noi qui ritardatari, che ne sarà
di noi?
A noi restano giorni da vivere, spazi vuoti da occupare, Realtà
da deformare con la nostra propria Gravità.
Soprattutto, ci restano bicchieri da riempire per offrirli a figli,
mogli, mariti, amici, fratelli; bicchieri grandi o piccoli, non importa,
basta che riusciamo a darli loro sempre e comunque pieni.
Pieni di Coraggio e Onestà, di Verità e Onore, di Sapienza
e Volontà.
Di Modestia, di Autorevolezza, di Bontà, di Giustizia, di Fedeltà.
Ma, più di tutto, di Amore.
Intanto che lo facciamo, i Gravi sono qui con noi.
Sono qui in questa Bontà di Nino, in questa Forza di Giovanna,
in questa Fedeltà di Antonio, in questa Conoscenza di Giovanni
che è in me.
Da oggi, anche in questo Dolore.
Di Pietro.
Marco
Bottoni (nella foto con Paola
Castagna a sx e Leela
Marampudi a dx) è nato a Castelmassa (RO) sul Po. È
medico. Nel 2004 la Newton&Compton pubblica “Sullo stesso
treno” nei Racconti nella Rete 2003 (presentato alla
Fiera del Libro di Torino); Montedit pubblica la raccolta L’Altro
e altre storie. Nel 2005 Fara inserisce “Storie di Donne”
in Antologia
Pubblica; Fullcolorsound pubblica “Addio” in Parole
in corsa III; Giulio Perrone pubblica “Mareo” in IO
scrivo – narrativa. Nel 2006 corre con la Fiamma Olimpica
di Torino nel Comune di Mira (VE); pubblica con Fara la sua seconda
raccolta di racconti intitolata Sullo
stesso treno e altri racconti in Storie
di vita. È socio fondatore della Associazione Culturale “Amici
di Gianni per il Patì – Onlus” (progetti di alfabetizzazione
e recupero sociale dei meninos de rua di Salvador de Bahía, Brasile).
Sito personale www.marcobottoni.it
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Nuove variazioni
poetiche
di Enrica
Paola Musio
Non sono mai qui ad aspettare,
il suono dell’ariete
a sfondare questo mio dolore
questa vostra fedeltà
tradita e interrotta
ma verrò a cercarvi
con le mani in tasca
e una bella lama di coltello
a braccare il mio desiderio
di omicidio
o di mio suicidio
verrò solo a cercarvi
dove si perde per sempre
questo mio volto di donna.
(variazione di una poesia di Luca Benassi)
ALLEATI CIMITERI
Schivi nei litorali,
milizie tutte bianche
nude croci
tutte ben schierate
rovinano
questi cumuli
di saline.
(variazione di Cimiteri alleati poesia di
Renzo Vassalluzzo)
(qui sotto variazioni ispirate a Fiori
di Vetro di Antonietta
Gnerre)
Nell’interno alla mia esistenza,
uno spazio ascolto
che mi viaggia e che tarla
passi scritti
nell’universo dei dettagli
una immagine resta
e un sogno si alimenta
e bussa solo al cuore
a portoni notturni
delle strade.
***
A rottami di parole,
senza pianto
pago le tangenti
a silenzi solo intelligenti
sto solo pregando
al cimitero
degli ebrei
e ascolto ferma
gli oggetti
nei ghetti
da racconti mutilati
nella storia.
(agli ebrei sterminati nei lager)
***
L’inchiostro del tramonto,
appende dei ricordi
e una poesia naviga
tanto bassa
a serbatoi smarriti
di parole
e mai gioca
scrollandosi lacrime
tanto notturne.
(a giovanna gazzoni e floriana raggi)
***
Le rive della Puglia,
raccolgono solo un equilibrio
del mare
pareti delle sillabe
offerte al sole nascente
racchiudono un flebile ricordo
sprigiona una minuta luce
a sfere di speranze
e l’onda si rompe
dietro ai miei passi
nel vuoto degli scogli
dondolante
della carta marina.
(ai miei parenti di Tricase-Lecce)
Enrica
Musio è nata a Santarcangelo nel 1966. La sua prima pubblicazione,
la silloge “Sarà da poeti il futuro” è stata
inserita in Antologia
Pubblica (Fara 2005). Nel 2006 ha pubblicato con Fara Dediche
sillabiche.
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Ritirata
di Giovanni
Tuzet
(questo racconto fa da contraltare a Pranzo
di campagna)
Non c’è da scherzare per niente. È
stata un’esperienza traumatica. Non ci hanno mostrato il menù!
Non c’era preparazione! Non c’era ordine! Mostratemi se
ce n’era un briciolo! È inaccettabile! Poi si stava troppo
stretti! Considerando 60 centimetri di spazio per ogni commensale, in
media, era impossibile stare tutti nello stesso ambiente senza dare
le spalle a qualcuno! E che lentezza! Poi non c’erano gli aspiratori
a diverse velocità! Non c’erano le salviette ai profumi
di bosco! Neanche i bagni! Altro che! Alla faccia dell’ospitalità
genuina! Almeno le posate potevano cambiarcele! Ce ne sono in offerta
a prezzi da ridere! Che delusione! Quando Luís ha ordinato consommé
gli hanno risposto con un grugnito! Quando Augusto ha rifiutato il primo
quella cameriera che sapeva di scalogno si è messa a strillare
come un ossesso! Oh sì, le specialità della casa e i piatti
di una volta e la torta della nonna! L’oste era un villano! Quando
ci ha servito quella benzina nelle sue coppette preistoriche non ci
guardava neanche negli occhi! Non è un uomo! Non dovevamo cadere
in un tranello del genere! Stolti che siamo stati! Bisognerebbe ritirargli
la licenza, sarebbe sacrosanto, che tornino con le galline! Chi ha un
parente in politica si faccia avanti! Questo è il problema! Non
dico la raffinatezza, ma almeno la decenza! E poi sprecare così
un Jolly, che ne abbiamo così pochi! Per non parlare del cinema
parrocchiale! Della Pro Loco! Del Presidente! E le Drag Queen! Tutti
degli incapaci, ignoranti, balordi! Gente che non sa stare al mondo!
Non c’era logica! Zero organizzazione! Neanche il minimo sindacale!
Se non li mantenessimo noi (garantito!) si sarebbero già estinti!
Come i trichechi! Bisognerebbe raderla al suolo quella baracca ed erigere
un monumento, un monumento a Darwin! Una bella piazza! Pulizia! Questo
sì che sarebbe un piano regolatore e di sviluppo! Io mi candido
con questo programma! Votatemi! Amici! Per un servizio degno di noi,
del nostro rango, della nostra virtù! Questo ed altro richiedono
le esigenze della società e della crescita! Oltretutto, è
chiaro, potevamo comportarci peggio! Abbiamo fatto solo un po’
di baccano, rovesciato qualche vassoio, cantato, ruttato, vuotato lo
stomaco, pisciato dalla finestra, toccato il culo della cameriera carina,
strappato le tende, spaccato un attaccapanni, bruciato un sombrero!
Non ci hanno fatto neanche uno sconto! Pezzenti! Barboni! E volevano
contare i danni! Ma che danni! Figùrati! Via, via! Pedalare!
Giovanni
Tuzet (Ferrara, 1972) scrive poesie,
racconti
e saggi di argomento letterario. Fra le sue pubblicazioni, si segnala
il recente A
regola d'arte (Este Edition, 2007), raccolta di saggi. È
redattore di Atelier
e di Argo.
Insegna Filosofia del diritto all'Università Bocconi di Milano.
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Alla ricerca di
Dulcinea
di Vesna
Andrejevic
Sono già mesi che mi lambicco il cervello avendo
delle seccature con la traduzione di un libro. Niente di strano ed insolito.
Il lavoro di un traduttore è sempre una sfacchinata indescrivibile,
un giogo a cui ti attacchi da solo per un’unica ragione. Ogni
giorno che passa ne divento più sicura. All’inizio pensavo
che si trattasse di una “nobile ricerca” della parola vera,
se non propria, allora almeno della parola altrui. Poi, la ricerca è
mutata in motivo di uscire dalla propria mutezza, cioè in desiderio
che il testo originale diventi una specie di cartacarbone o di laccamuffa
dei sentimenti e dei pensieri del traduttore, una sorta di finestra
della propria creatività attraverso cui si entra ed esce dalla
seducente illusione di una buona riuscita. Col passar di tempo, tutto
il processo otteneva le sfumature ed i contorni dell’impazienza
di intuire la fine di questa frenetica corsa sugli altri e sui noi stessi.
E finalmente mi sono resa conto che si vive solo per scuotere il giogo,
per provare il sollievo liberatorio di una potenza vulcanica che viene
con ogni punto finale.
E come succede di solito, correndo dietro alle parole ed ai loro echi
che diventano sempre di più deboli che gli si corre più
dietro, uno si chiede nel proprio stordimento ma perchè questa
maledetta parola sta proprio qui e perchè proprio essa è
venuta in mente allo scrittore?! Così, mi sono chiesta pure io,
scappando dall’impressione di aver fatto qualche bella cilecca,
perchè il mio scrittore si è dovuto rompere la schiena
per le gole balcaniche cent’anni fa e perchè ha dovuto
rompere le scatole con le sue descrizioni dettagliate proprio a me un
secolo dopo?! Una volta calmate la furia e l’ impotenza, chiamiamo
quell’ultima pure “creativa”, (ma loro non spariscono
mai, nemmeno quando ci sorridono dalle vetrine), da loro è emersa
in un modo assai strano l’essenza della mia domanda: prima, perchè
il mio scrittore ha scelto di viaggiare e poi perche di tutto quello
che poteva scrivere, si è deciso a scrivere proprio un libro
di viaggi con i cenni storici? Poi, che cosa rappresenta in realtà
un viaggio e perchè mi sono messa in viaggio pure io insieme
con lui, invitata o non invitata, chi lo sa, e finalmente come un viaggiatore
diventa uno scrittore? Ma prima di tutto, chi è oggi un viaggiatore?
Un’altra specie che il nuouvo ordinamento del mondo ha sterminato
o forse lui è sopravvissuto in qualche versione turistica, assai
mutata che a volte finisce prima che cominci in una travisata realtà
virtuale in cui solo un clic del mouse porta una soddisfazione perversa
“dell’instant viaggio” dove abbiamo visto tutto in
modo migliore, senza alcuna fatica, senza stress che oggi sono impiantati
in ogni aeroporto, in ogni stazione sia ferroviaria che degli autobus,
in ogni autostrada?
Si dice che ogni viaggio sia simile allo specchio della nostra anima
e a tutto quello che noi siamo. Ed io aggiungo: “Assomiglia pure
a tutto quello che noi non siamo”. Perché l’inizio
di ogni viaggio sta nella nostra ignoranza. Essa fa differenza fra il
formicaio turistico che si mette in viaggio per vedere ciò che
sa già in anticipo che vedrà e che potrà aspettare,
il che più o meno sta in una bella cartolina illustrata, e fra
il viaggiatore che segue la sua incognita provando un’insopportabile
febbre cerebrale e dei brividi che una volta erano i pensieri, i quali
lo costringono a scoprire tutto quello che si deve vedere e sapere.
In una parola, durante il viaggio bisogna venir a sapere il suo scopo.
E di fini di un viaggio ce ne sono tantissimi, specialmente oggi quando
quasi tutto è scoperto, quando le frontiere cadono da una parte
e dall’altra risorgono come le catene vulcaniche che minacciano
e separano la gente. Eppure, qualche viaggiatore si azzarda a partire.
Come mai? Proprio perchè ogni viaggio, nonostante la sua immensa
contradditorietà, ha delle sue buone regole. Prima di tutto,
si viaggia perchè ogni viaggio deve incominciare e poi finire.
Se non finisce, si deve procedere o si parte di nuovo tornando sempre
“al posto di delitto” finchè non ci sia chiaro cosa
abbiamo fatto. Per questo, oggi più che mai, il viaggio è
in realtà il viaggio dentro noi stessi, nella nostra curiosità
e meraviglia, alla ricerca di una valida risposta, o almeno di una sola
parola che porterà l’acquietamento e il declino della moderna
epidemia di adrenalina con cui si perde ogni senso e la bellezza del
vivere. Quasi ogni viaggio rappresenta la ricerca di noi stessi e della
nostra identità perduta anche se ognuno di noi può addurre
un miliardo di motivi perchè si è recato in un certo luogo.
Così si viaggia per dimenticare o per ricordare, per trovarsi
o perdersi, per mostrarsi coraggiosi, ma allo stesso tempo per trovare
l’occasione e il pretesto di piangere un po’ perché
non siamo amati, compresi, felici, sani e salvi, ricchi ecc. Le scuse
e le ragioni si trovano sempre, ma la nostra più grande spinta
è la cognizione che dopo ogni viaggio dobbiamo tornare in qualche
posto, e “il posto” vuol dire soprattutto la casa perché
il ritorno a casa significa che abbiamo almeno qualche certezza, perfino
allora quando durante un magnifico viaggio intuiamo che alla fine del
nostro viaggio ci attende solo un’ombra che assomiglia proprio
a noi stessi dall’inizio della nostra ricerca. La bell’illusione
che abbiamo visto o colto qualcosa, cioè che “l’
abbiamo trovata”, prima o poi svanisce in mille ricordi e immagini
spezzate, per non dire in specchietti, che solo uno scrittore può
allungare e salvare dalla completa perdita. Per questo i più
grandi e i più bravi viaggiatori sono gli scrittori e i poeti
perchè ogni parola scritta rappresenta un viaggio dove si palesano
gli innumerevoli veli che coprono la parola e la nostra illusione che
alla fine del viaggio riusciremo ad arrivare fino ad essa, non è
altro che solo un gioco tentacolare di verita e d’ inganno che
ci spinge sempre a un nuovo gioco, a un nuovo viaggio, a una nuova parola.
L’antica saggezza incarnata nei racconti tradizionali porta sempre
con sè un tocco divino cioè le indicazioni per l’uomo
come può non solo passare bensì viaggiare attraverso la
vita in modo migliore. Così, in una favola di origine serba si
narra di una ragazza di una straoridinaria e insolita bellezza, fatta
di neve, rugiada, vento, fiori ecc., la quale ha ammaliato non solo
tutti i ragazzi ma anche il figlio del re. Innamorato cotto, il principe
acconsente insieme con gli altri pretendenti alla mano di ragazza alle
condizioni assai insolite che lei pone promettendogli che sposerà
il ragazzo che sarà con il suo cavallo più veloce di lei.
Però, ogni pretendente perirà se lei vince la gara. Certo,
incantati da una bellezza così grande, tutti i pretendenti e
il principe con loro cominciano a gareggiare con lei. E come succede
in ogni favola dopo tante peripezie, il principe essendo il più
bello, buono e abile, riesce a raggiungere la ragazza, ad acchiaparla
ed a metterla in sella dietro di sè, ma “giunto che fu
in montagna altissima, si girò d’immproviso, ma di ragazza
non c’era nemmeno una traccia”. Non c’è modo
più adeguato, più raffinato e più artistico per
esprimere l’eterna brama umana di bellezza che ci sfugge sempre
e la quale è sempre inafferrabile. Le finitezze esistono solamente
sotto le nostre apparenze della loro esperienza vissuta, solo nel viaggio
dei nostri pensieri attraverso i nostri desideri e aneliti. Nello stesso
modo a volte può succedere che allo scrittore sfugge il vero
motivo e scopo del suo viaggio, però, nonostante tutto, continua
a portarlo avanti proprio quell’illusione seducente che è
instancabile a sussurragli che una volta, magari nell’ultima parola
scritta, lui riuscirà a cogliere un’altro filo della bellezza
vissuta scoprendola in un’altro punto, in un’altra virgola,
in un nuovo punto interrogativo o almeno nei puntini…
Su tutti i viaggiatori del mondo emerge per la sua “nobile illusione”
il personaggio di Don Chisciotte di Cervantes, una simbiosi irripetibile
tra il carattere di protagonista e la poetica dello scrittore. Don Chisciotte
è un vero viaggiatore perchè oltre il viaggio eseguito
fisicamente, lui viaggia pure tra la realtà e la finzione, tra
la verità e la favola, e la sua stella splendente che lo conduce
sempre avanti è proprio la sua Dulcinea che nè lui nè
noi abbiamo mai visto o incontrato. Però, quanto più è
assente, tanto meglio la immaginiamo presente. Proprio come la raggaza
della favola serba, no? Anche se Sancho Panza a volte ci avvisa ironicamente
che Dulcinea è tutto tranne una “segnora”, lei rimane
sempre per noi, proprio attraverso l’ebbrezza d’amore e
le fantasticherie del più noto sognatore del mondo, il più
nobile ed irraggiungibile esempio di bellezza e nobilità a cui
uno deve non solo aspirare bensì bisogna corrergli dietro così
da sconsiderato e folle come lo fa il coraggioso cavaliere. Per questo
il viaggiatore non può persistere nel suo cammino se in lui non
vive un po’ di Don Chisciotte. Perchè anche lui come Don
Chisciotte trasfigura la realtà esterna in quella propria lasciando
il posto allo scrittore il quale le mette il timbro della sua immaginazione
trasformandola nella “realtà narrativa” che qualche
volta passa nella vera realtà proprio per la sua autenticità.
In breve, non viaggiamo mai da soli, è tutto il mondo intorno
a noi che viaggia con noi. Il viaggiatore-scrittore porta con sé
sempre il binocolo puntato al contrario. Così mentre guarda il
mondo intorno a sé, il mondo si specchia dentro di lui. Quale
immagine, tale lo scritto.
Per questo, quando ci penso un po’, una volta passati “l’urlo
e il furore”, mi resta solo da ringraziare il mio scrittore per
avermi portato con le sue vicende a una bella ricerca della sua Dulcinea
riportandomi alla fine attraverso le gole balcaniche a casa. Del resto,
Lassie comes home sempre, no?
Vesna
Andrejevic (1965, Belgrado) nata nello stesso giorno del suo idolo
Pirandello, sempre in cerca di un editore e con la modesta speranza
che un giorno realizzerà almeno la decima parte del successo
del suo idolo, si occupa di traduzione multimediale a Belgrado. È
professoressa di lingua e letteratura serba e di letteratura internazionale
e fresca neolaureata in lingua e letteratura italiana. Fra i vari riconoscimenti
a lei sono particolarmente cari: la segnalazione nel concorso Pubblica
con noi (2005), il secondo posto nel concorso Artistico Internazionale
“Amico Rom” (2005) e Premio ICON (2006). Scrive narrativa,
traduce film e i libri e coltiva i suoi sogni letterari.
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Riflessione
sul brano del Vangelo di Luca 4,14-30
di Bernardo
Francesco Maria Gianni
Dopo che lo Spirito Santo manifestatosi nel Battesimo
aveva condotto Gesù nel deserto, ora lo conduce ad agire e manifestarsi
come Messia, taumaturgo; come uomo che parla con autorità e agisce
con potenza nel suo ministero pubblico. L'espressione «Gesù
ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo…
e tutti ne facevano grandi lodi» (cf Lc 4,14-16) non significa
che Gesù, appena vinte le tentazioni, rientrò in Galilea
per attuare la sua opera di evangelizzazione. A Luca interessava ricondurre
Gesù in Galilea per fargli inaugurare la sua predicazione nella
sinagoga di Nazaret nel momento più solenne del sabato, quando
gli Ebrei si riunivano per ascoltare e commentare la Parola ed ogni
adulto poteva essere invitato a leggere un passo della Scrittura. Gesù
ne approfittò per pronunciare il suo discorso programmatico:
«Si recò a Nazaret… ed entrò… di sabato
nella sinagoga… Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo
trovò il passo dove era scritto: Lo Spirito del Signore è
sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato
per annunziare ai poveri un lieto messaggio… per rimettere in
libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore»
(cf Lc 4,16-19). Questo testo inserito tardivamente nel libro del profeta
Isaia, quando il popolo d'Israele tornato dall'esilio di Babilonia trova
il tempio distrutto, fa riferimento all'anno di misericordia del Signore,
cioè al Giubileo, un momento più di ideale che effettivo
ripristino della giustizia sociale.
«Poi arrotolò il volume… Gli occhi di tutti nella
sinagoga stavano fissi sopra di lui» (Lc 4,20). Luca qui mostra
tutta la sua abilità letteraria e il suo spirito di osservazione;
infatti dopo la lettura del testo profetico viva è l'attesa dei
presenti che desiderano sentire come il giovane Maestro spiegherà
quel misterioso oracolo che Gesù dichiara, con una frase lapidaria,
riguardarlo direttamente: «Oggi si è adempiuta questa scrittura
che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4,21) Questo è
uno dei punti centrali del brano dove Gesù fa una "lectio
avverativa" ovvero: quanto dice la Scrittura oggi si compie! La
portata messianica di parole applicate a se stesso, provoca sui presenti
un duplice sentimento: «Non è il figlio di Giuseppe?»
(cf Lc 4,22) Da una parte un senso di ammirazione per quanto Gesù
aveva detto con seplicità in ordine all'oracolo; dall'altra un
senso di avversione per la persona che, provenendo da umili condizioni,
aveva osato attribuirsi la qualifica di Messia designato da Dio. Gesù
non solo non dà spiegazioni ma incalza l'uditorio e dice: «Di
certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo
udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui…» (cf Lc 4,23).
I Nazaretani sono increduli e richiedono che Gesù compia dei
miracoli anche nella sua patria. Gesù richiamandosi ad un altro
detto: «Nessun profeta è ben accetto in patria» rivela
la ragione per la quale si rifiuta di fare miracoli a Nazaret, che sta
nell'atteggiamento dei concittadini che mostrano la mancanza di una
iniziale apertura alla fede. Nel suo ministero segue i profeti Elia
e Eliseo che hanno operato, per mandato divino, miracoli in favore di
indivudui non appartenenti al popolo di Israele. (cf Lc 4,25-27). Luca
ci apre così una prospettiva perché legge gli avvenimenti
alla luce dell'evento pasquale, dal quale promana un messaggio di salvezza
universale.
Riprendendo il testo del v. 21 «Oggi si è adempiuta questa
Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi», è
da osservare che Luca usa la parola "oggi" sette volte e sempre
in un contesto importante, cosa che fa anche la liturgia nel giorno
di Pasqua (oggi Cristo è risorto!), e in altri tempi dell'anno,
cioè l'azione di riportare all'oggi la storia e l'evento che
Gesù ha vissuto. In Luca, ad esempio, la prima indicazione di
ciò la troviamo al capitolo 2,11 «oggi vi è nato
nella citta di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore»;
una seconda indicazione la troviamo al capitolo 3, 22 nella scena del
Battesimo di Gesù, secondo la seguente più probabile traduzione:
«Tu sei il mio figlio prediletto, io oggi ti ho generato»;
un'altra indicazione la troviamo nella scena di Zaccheo, ricco capo
dei pubblicani, al capitolo 19,9: «Oggi la salvezza è entrata
in questa casa»; il settimo oggi è al capitolo 23, 42-43,
quando il ladrone sulla croce dice: «Gesù ricordati di
me quando entrerai nel tuo regno. Gli rispose: In verità ti dico,
oggi sarai con me in paradiso». La liturgua ripropone questa operazione
di Luca e l'oggi diventa uno dei luoghi, come ad esempio i poveri, i
prigionieri, che Gesù sceglie per rivelarsi. Ma uno dei luoghi
che eccelle su tutti, in cui il popolo di Dio incontra il suo Signore
vivente, è la confessione della fede pasquale, dove la liturgia
rende contemporanei gli eventi della storia, li mette a contatto con
la nostra storia affinché possa partecipare di quella salvezza
che Gesù ha operato una volta per tutte.
Bernardo
Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano dell'Abbazia
di San Miniato al Monte:
Monaci Benedettini di Monte Oliveto
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze
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