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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 96
Dicembre 2007
Editoriale:
Il tragico del comico
In questo periodo festivo non potevamo perdere l'occasione
per lanciare il nostro nuovo concorso Prosapoetica
terra/di/nessuno arrivato ormai alla VII edizione con la novità
della pubblicazione delle opere vincenti. E come la prosapoetica tenta
la costruzione di un ponte fra generi letterari, questo numero ci offre
un interessante saggio di Maria Rosa Panté sulla
comicità feroce di Aristofane; poi Leela Marmapudi
indaga la zona crepuscolare/ossimorica della vita, e similmente Raffaele
Ibba interroga l'incerta incostanza in cui possiamo fare
spazio all'amore assoluto di Gesù; padre Bernardo
M. Gianni ci ricorda che è la parola del fratello, della
sorella a dar certezza alla Parola; Luigina Bigon nella
sua ricerca natalizia trova “in meso al scuro / un ciaro…”,
e Marco Scalabrino ci ricorda che “C’è
forbici ammulati di straforu / chi tagghianu di nettu niuru e biancu…”
Che la luce dell'Emmanuele possiamo sempre sentirla vicina: felice Natale!
Ferocia
e poesia nella comicità di Aristofane
di Maria
Rosa Panté
Genette diceva che “il comico è il tragico
visto di spalle”, certo i Greci dovevano saperlo perché
i grandi tragici partecipavano alle gare teatrali con tre tragedie e
un dramma satiresco, una chiusa comica dopo la catarsi, provocata dai
terribili fatti tragici.
I greci sapevano ridere, fin dal mito compare la risata come fonte di
benessere e addirittura di fecondità.
Baubo
Baubo alza, alza la gonna, / leva l’ampia sottana. / Guarda bella
signora: / seno caldo e materno, / fica dolce che saggia / parla, guarda
signora, / natiche alte, faconde. / Baubo, Baubo grinzosa /
figlia, allegra dei campi: / danza, ballano i fianchi, / candidi e nudi.
Ridi, / ridi bella signora. // Rise Demetra e la terra rinacque: /
donò bionde le messi, il pianto tacque.
Baubo era sempre vissuta in quel piccolo villaggio,
era sempre stata contadina.
Un giorno da quelle strane arrivò uno strano corteo. Giunsero
una signora bellissima e altera, la sua figura era quasi splendente,
ma il volto era oscuro e rigato di lacrime; la seguiva un fanciullo,
con l’espressione da vecchio e un sorriso bambino.
Stanchi e impolverati si fermarono presso la prima casa
del villaggio: quella di Baubo.
Era una giornata soleggiata e un poco afosa, i campi erano brulli: una
vera disperazione per i contadini. La terra, come impazzita, da qualche
tempo non produceva più nulla, solo erba secca.
Baubo preparava un magro pasto, ma accolse gli ospiti e presentò
loro tutto ciò che la sua povera casa offriva; non sapeva che
fare, continuava a guardare quella bella signora piangente.
Come avrebbe voluto consolarla, distrarla, farla sorridere, addirittura
farla ridere: sapeva, nella sua saggezza antica come la terra, che una
risata aiuta a superare molti ostacoli e a vedere la vita meno cupamente.
Baubo, colta da un’ispirazione, si alzò le gonne, mostrò
prima il suo prosperoso deretano, poi il suo sesso e i seni. D’un
tratto di fronte a quella buffa faccia che era il corpo di Baubo, il
fanciullo, che si chiamava Eros, scoppiò a ridere; dopo un momento
di costernazione anche la signora si mise a ridere di cuore, in modo
quasi irrefrenabile.
Fu la salvezza.
La signora era infatti Demetra, dea delle messi, che cercava la figlia,
rapita dal dio dell’aldilà. Piangeva per la desolazione
e i campi, desolati come la loro signora, non producevano più
nulla.
Grazie a Baubo, Demetra riacquistò fiducia e buon umore;
grazie a Baubo i campi ritornarono fertili e fecondi.
In questo mito (il testo è mio), oltre al potere
rigenerante del comico, compare qualche altro fattore fondamentale:
- il riferimento alla sfera sessuale
- il linguaggio libero e scurrile
- l’elemento del basso, del legame con la terra e la materialità
- il nutrimento
- insomma tutto ciò che è carnale e materiale (come ci
insegna Bachtin)
Aristofane
I Greci conoscevano le tecniche per suscitare il riso (tecniche molto
complesse: è molto più difficile far ridere che far piangere).
I Greci conoscevano le diverse sfumature della comicità: sapevano
infatti ridere dei fatti di costume, dei loro stessi vizi, ma soprattutto
erano capaci di satira, di satira politica.
La grande stagione della democrazia ateniese (molto imperfetta, basti
pensare che ne erano esclusi: schiavi, donne, stranieri) è la
grande stagione del teatro sia tragico che comico.
Il più grande autore comico dell’età classica è
Aristofane che visse ad Atene tra il 450 a.C. e il 388 a.C. circa. Fu
uno dei principali esponenti della Commedia Antica insieme a Cratino
ed Eupoli, nonché l'unico di cui ci siano pervenute alcune opere
complete. Scrisse principalmente durante il periodo della Guerra del
Peloponneso, che si concluse con la sconfitta di Atene di fronte a Sparta.
Le sue opere sono un unicum, dopo di lui, finita l’epoca
dell’Atene democratica, un tipo di teatro come quello, fortemente
politico, non fu più possibile, anzi già le sue ultime
commedie mostrano questo mutamento sociale e politico in atto. Finita
la stagione della commedia antica, iniziò la nuova, i temi erano
più intimi, legati al costume sociale, temi più vicini
alla comicità latina, giacché a Roma non vi fu praticamente
mai la libertà artistica di Atene.
Nelle sue opere Aristofane prende di mira in particolare tre obiettivi:
• politico (fu grande sostenitore della pace, della fine della
guerra del Peloponneso);
• sociale (la mania ateniese dei processi, la schiavitù
nei confronti del denaro)
• culturale (Socrate e i sofisti, Euripide)
Un esempio molto interessante di feroce satira politica è nei
Cavalieri, questa commedia mette in luce anche i lati
deboli della democrazia. Si scontrano due capi politici, uno, Cleone,
effettivamente capo del partito democratico ai tempi di Aristofane,
fautore della guerra e chiamato nella commedia Paflagone, l’altro
un immaginario avversario, un salsicciaio: entrambi faranno una figura
tremenda.
PAFLAGONE: Io confesso d’essere un ladro: ma tu
no.
SALSICCIAIO: Sì per Ermes, dei bottegai.
PAFLAGONE: E io spergiuro anche quando mi vedono.
SALSICCIAIO: Allora escogiti le arti degli altri.
Ma anche Popolo, il terzo personaggio (in democrazia,
non dimentichiamolo, l’attore principale), si dimostra se non
peggiore, uguale ai due politici. Vincerà chi saprà parlare
al ventre di Popolo…
SALSICCIAIO: Troppo sei convinto che il popolo sia cosa
tua.
PAFLAGONE: Perché io so come imboccarlo.
SALSICCIAIO: E poi, come le nutrici, lo alimenti male: dopo aver masticato
il suo cibo glielo imbocchi un poco; e tu, per parte tua ne hai inghiottito
tre volte tanto.
PAFLAGONE: Certo, per Zeus, con la mia abilità io posso fare
il popolo largo o stretto.
SALSICCIAIO: Una cosa simile l’ha escogitata anche il mio sedere.
PAFLAGONE: No, mio caro: non crederai d’avermi maltrattato in
Consiglio: andiamo dinanzi al popolo.
Una situazione che non pare essere passata di moda, basti
pensare a molti dibattiti televisivi, a molti proclami politici.
Alla fine Popolo avrà il governo che si merita.
Ma in Aristofane c’è anche l’utopia che ispira una
poesia lirica che non si immaginerebbe possibile nella ferocia del commediografo.
Infatti la carica utopica e la poesia spiccano soprattutto nelle descrizioni
di mondi senza uomini (o in mondi governati dalle donne), nei cieli
tra le Nuvole. Ecco un passo tratto proprio dalle Nuvole,
veniva cantato dal coro, fuori scena:
Nuvole eterne,
leviamoci visibili nella nostra rorida agile natura
dal muggente padre Oceano
su le chiomate vette dei monti eccelsi,
a mirare
le come lontane e le messi
e la sacra terra irrigata e dei fiumi divini il fragore
e il pelago di cupi fremiti sonante.
Instancabile l’occhio dell’Etere
fulge di splendidi raggi:
scuotiamo, suvvia, la bruma piovosa.
(traduzione di Raffaele Cantarella)
In conclusione, rispetto alla triste, cupa satira sociale
romana, anche se grandiosa nei suoi esiti (ad esempio il Satyricon
di Petronio) nelle commedie di Aristofane ci sono slancio ideale e parentesi
liriche di grande ampiezza. Però proprio la delusione politica
porterà la commedia a temi più vicini alla satira sociale,
a un particulare gretto che fa ridere, ma davvero a denti stretti.
C’è da chiedersi: e oggi? Il testimone della nostra epoca
sarebbe Aristofane o, ad esempio, Marziale?
Maria
Rosa Panté è nata nel 1961 a Borgosesia, cittadina
in provincia di Vercelli dove vive. Insegnante di materie letterarie
in istituti superiori, attualmente si occupa della produzione di materiale
multimediale e ipertesti per la didattica. Ha pubblicato un libro di
poesie e prose, L’amplesso retorico. Voci femminili dal mito (2004)
e nel 2006 un libro di racconti: Noi che non fummo muse (Manni). Ha
partecipato a diversi concorsi di poesia e narrativa, conseguendo premi
sia per la produzione poetica, che per la prosa e la saggistica.
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À
LA CARTE – piccolo amore mangia avanzi
di Leela
Marampudi
Nella zona crepuscolare
Quale tramonto?
Vai a cercare
Per
Spalanchi porta,
vento
senza invito ti scaldi
Butto
onda di fuoco
sabbia
calda, aria si alza
Ti senti forte, vento
"tua"
casa in fermento
Vuoi dare ciò che non hai
(ma in fondo non vuoi
sentire stupri)
ad occhi più "piccoli"
dio del vento, per i tuoi
Per
non essere annientato
chi è in cerca dovrà
trovare in fretta
per sé
e per te
Per non essere amato
da un amore che vede
bellezza
nella fragilità del
giustificarsi
pensando che
ti appartenga Cassandra
impotente tu soffi
nel tempo che trasporta
hai solidi problemi
con il presente
Vengono da te
per non piangere
per ridere e basta, no!
I teschi di chewing-gum
graffitano il
muro
Biglie stridono
i metropolitani
binari
Non hai più caramelle
vento
ti muovi
parassita del nostro
tempo
Quando
non ti crederai più protagonista
inizierai ad esserlo
"uomo vero" che
distruggi
per non vederti
senza casa la tua offerta
per
***
Mi ripeto il concetto
di getto mie parole
del mio amore protetto
File -> Salva con nome
Per un povero ingioiellato
Salomè si fa madre
Raccoglitore a buchi
con testo a fronte
Soprano
con occhi da pernice
che
fermano il vuoto
girando il viso
L'ingenuità sta nel dimenticarsi
il proprio disincanto
"Ahia! Ho sbattuto la testa contro il muro."
Dolce
debolezza accettata
Maniacale spalanchi
l'impermeabile per
mostrarmi il tuo sorriso
Un gioiello sdentato
Egocentrica
fragilità domina tenerezza
Un coniglio sotto luna di carta
Risparmiare parole
per alberi muti che
vivranno
in quel vocabolario scoppieranno
Approfitti della tua
confusione per
concedermi solo oscurità che vuoi
"Ci vuoi bene?"
dolore
inutile
il giocattolo della disistima
Sai che la mia morale
porterà al sacrificio
comunque
Mi vuoi mangiare?
fallo
ma sappi che io lo so
E ora per questo
cerco di darti
solo le parti
migliori
***
E se cupido diventasse un angelo?
Cerchiati da luna
Ballerina la notte
i tuoi splendidi incanti
sapienti di stagioni
richiaman pianti
di infinite illusioni
Aquilone la sera
sopra burbero bulbo
sbuca raggio bambino
Sul retro grandi faggi
indietreggiano i passi
La luna si è vestita
di madreperla
Scovando rughe di latte nel tuorlo
quando non penso
saltello
Nella triade
il bindhi illuminato
verso il canale
il fine ha inciampato
cerchiato
Haiku torna a sperare
(togli il conflitto
dallo sguardo di vetro
dove ruggine macchia
il centro più vuoto)
Il tuo dunque saprà di miele
ricordando il susseguirsi
di gracili emozioni
Filamenti tra i miei pensieri
Mary
Leela Peverelli è nata in India nel 1975, vive in provincia
di Como. Collabora con il regista Paolo Lipari. Tra i cortometraggi
realizzati, come operatrice al montaggio: “Due dollari al chilo”,
presentato alla 57° Edizione del Festival di Venezia e “La
sera dell’ultima”, vincitore al Festival di Annecy 2004.
Come Leela
Marampudi scrive il racconto “Kamala”, selezionato al
primo concorso “Lo Sguardo dell’Altro” e con Fara
pubblica il romanzo Mal
bianco.
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Quest’aggrovigliato
tralcio di fili
di Raffaele
Ibba
Quest’aggrovigliato tralcio di fili
quest’ininterrotto rompersi di trame
e riannodarsi e ritessersi e volgersi indietro
come latrati di cane a guardia contro rischi
solo sentiti appena odorati e fugaci,
come ombre di sparviero distanti ed alte,
severe su questa notte lenta, che s’allontana.
Questa incerta incostanza di dune
che stanno, necessarie alla danza del mare
ed al salvarsi della piattaforma, scesa nelle acque
tra foreste di giunchiglie ed altre alghe odorose,
cibarie di pesci e minutaglie vite inenarrate.
E ti sento pregare dentro me, Gesù cuore,
in questo così margine di carezze, e ti frugo,
certo del tuo amore che è, feroce tuo cuore vivo
a divorarmi, leone giocoso bambino a stritolarmi
le ossa della mia gioia, a farmi
cibo della tua passione amante.
E ti chiedo di questo mondo, amor mio,
tanta colpa e pena di martirio orgoglio
– ce la facciamo da soli –
– non c’è Padre, né senso e pregare –
senza vivere il limite stracciato,
il bordo strappato di questa coperta,
per noi qui solo sangue di carni rotte,
che i tuoi occhi del cuore sanno bella
in groppi di filature tessute
disegnate nelle ininterrotte forme
– e gracili delicate –
del tuo amore bello, Gesù,
mio bell’amore.
Raffaele
Ibba è nato nel 1950 a Cagliari, città dove vive e
lavora come insegnante di storia e filosofia nei licei. Si dedica alla
poesia in modo intenso dal 2000, per una sua neccessità intima
di vita e di cuore. Ha pubblicato due libri di poesia con le Edizioni
della Meridiana di Firenze: Il disonore dei canti nel 2003
e La verità bugiarda nel 2006.
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Riflessione
sul brano del Vangelo di Luca 7,1-16
la lectio divina settimanale all’Abbazia di San Miniato
al Monte
di Bernardo
Francesco Maria Gianni (v. anche qui)
Venerdì 26 ottobre 2007
Il nostro compito di stasera è di sperimentare
gli eventi miracolosi descritti nel Vangelo di Luca, in un orizzonte
quotidiano e storico dove è sempre più difficile aprirsi
alla speranza, come ci dice Dietrich Bonhoeffer nel testo Vita
comune: «Per questo il cristiano ha bisogno degli altri
cristiani che dicano a lui la Parola di Dio, ne ha bisogno ogni volta
che si trova incerto e scoraggiato; da solo infatti non può cavarsela,
senza ingannare sé stesso e la verità. Ha bisogno del
fratello che gli porti e gli annunci la Parola divina di salvezza. Ha
bisogno del fratello solo a causa di Gesù Cristo. Il Cristo nel
mio cuore è più debole del Cristo nella parola del fratello;
il primo è incerto, il secondo è certo. Quindi è
chiaro lo scopo della comunione dei cristiani: essi si incontrano gli
uni gli altri come latori del messaggio di salvezza. In questo senso
Dio fa in modo che si trovino insieme e dona loro la comunione.»
Queste parole spiegano il senso del ritirarsi insieme, perché
ciascuno sperimenti l'intima e personale confidenza col Signore e la
grazia dello stare insieme con i fratelli per comprendere quale novità
è la venuta del Signore Gesù e il suo annuncio di salvezza.
I miracoli che abbiamo letto sono il segno della credibilità
del Signore, nonostante il grigiore del nostro tempo. Ci siamo soffermati
su questa esperienza di comunione anche perché i primi gesti
salvifici di Gesù nel Vangelo di Luca seguono la scena del discorso
delle beatitudini, quando il Signore si ferma in un luogo pianeggiante
dove le persone possono radunarsi per ascoltarlo ed essere guariti dalle
loro malattie: due momenti fondamentali dell'azione di Gesù:
la parola e il gesto. Perciò: «Quando ebbe terminato di
rivolgere tutte queste parole al popolo… entrò in Cafàrnao.
Il servo di un centurione era ammalato… Il centurione l'aveva
molto caro». (Lc 7,1-2).
L'attenzione di Gesù è per una figura sociale di modesta
importanza: il centurione che non era ebreo, anche se era interessato
al credo giudaico al punto d'aver fatto costruire la sinagoga per il
popolo. Il Vangelo sottolinea che l'interesse di Gesù sarà
rivolto addirittura a un servo, perché il Dio che si fa amico
degli uomini in Cristo è un Dio che ha a cuore l'amicizia fra
gli uomini oltre le strutture sociali. Il centurione «Perciò,
avendo udito parlare Gesù, gli mandò alcuni anziani dei
Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro giunti
da Gesù lo pregavano con insistenza: Egli merita che tu gli faccia
questa grazia, dicevano, perché ama il nostro popolo, ed è
stato lui a costruirci la sinagoga» (Lc 7, 3-5). La sinagoga è
un luogo dell'ascolto della Parola e sicuramente il centurione aveva
sentito la gente parlare di Gesù, e poteva farne un confronto
con quanto la tradizione profetica annunciava riguardo a quest'uomo:
da un lato la storia viva, da un altro lato la parola scritta nei libri.
«Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto
distante dalla casa quando il centurione mandò alcuni amici a
dirgli: Signore, non stare a disturbarti, io non sono degno che tu entri
sotto il mio tetto… ma comanda con una parola e il mio servo sarà
guarito» (Lc 7,6-7). È da rilevare il contrasto fra quella
folla che nella pianura bramava toccare il Signore Gesù, perché
sentiva che dal suo corpo usciva una forza risanante, e un uomo che
preferisce non toccare Gesù perché probabilmente consapevole
anche di una diversità etnica e culturale. Ma è la forza
dell'umiltà del centurione che conquista Gesù: «Signore
io non son degno che tu entri sotto il mio tetto». Per la nostra
vita spirituale questa umiltà può aiutarci a entrare in
comunione con il Signore che è venuto a cercarci; e l'umiltà
di chi riconosce la novità di Gesù che risana fa chiedere
l'impossibile! «Ma comanda con una parola e il mio servo sarà
guarito… All'udire questo Gesù ammirato… disse: Io
vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!
E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.»
(Lc 7,7-10). È da notare come il Signore sottolinei che il primo
grande miracolo è già avvenuto: la fede del centurione.
Quest'uomo nonostante la sua diversità e lontananza, ha capito
che Gesù lo riguarda profondamente con una forza di vita nuova;
il centurione aveva infatti costruito la sinagoga, amava il suo popolo
e aveva cura del suo servo. Il Vangelo è una scuola di umanità
che ci educa ad amare di più, con più gratuità
e quanto più gratuitamente amiamo tanto più entriamo in
una dimensione fede.
L'altro miracolo è forse ancora più toccante: «In
seguito si recò in una città chiamata Nain e facevano
la strada con lui i discepoli e grande folla» (Lc 7, 11). Gesù
non si ferma mai; obbedisce ad una logica d'amore che viene dal Padre.
«Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva
portato al sepolcro un morto, figlio unico di madre vedova… Vedendola
il Signore ne ebbe compassione le disse: Non piangere!» (Lc 7,12-13).
Qui ci sono due tragedie che l'evangelista non manca di sottolineare:
la prima grande tragedia è il figlio morto che è figlio
unico di madre vedova; l'altra tragedia è che questa donna resta
tragicamente sola. Queste due esperienze di morte e di solitudine sono
le esperienze che il Signore Gesù farà sulla croce, dove
la solitudine sarà spezzata dalla promessa fatta al ladrone:
«oggi sarai con me in paradiso». Sulla croce si sconfiggono
queste due tragedie: la morte e la solitudine perché Gesù
riapre al ladrone la prospettiva della relazione con gli altri, e col
riportare alla vita un figlio riapre la prospettiva di una relazione
alla madre vedova che non ha altri figli. Tutto questo ci fa comprendere
come il Vangelo sia prima di tutto un testo di profondissima umanità.
«E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono.
Poi disse: Giovinetto, dico a te, alzati! Il morto si levò a
sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre»
(Lc 7,14-16). Risalta ancora l'umiltà di Gesù che tocca
la bara pur sapendo, anche nell'orizzonte della sua figura, che il morto
è impurità. La parola dunque si fa gesto con una grande
carica d'amore e Luca sottolinea questa duplice dimensione. «Tutti
furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: Un grande profeta
è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo» (Lc 7,16).
Ricordiamoci che due giovedì fa riprendendo la lectio ci siamo
soffermati a riflettere sul versetto 19 del Salmo 102: «Questo
si scriva per la generazione futura e un popolo nuovo darà lode
al Signore». Ebbene, tutto questo è stato scritto anche
per noi che siamo la generazione futura riunuita qui a San Miniato per
dare lode al Signore che ha operato e continuerà a operare fino
alla resurrezione finale.
Bernardo
Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano dell'Abbazia
di San Miniato al Monte:
Monaci Benedettini di Monte Oliveto
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze
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El Nadale
de sto ano
di Luigina
Bigon
Xe qua Nadale
ma mi non so come trovarte.
Te go perso tra sassi slavassi
e fioreti, te geri el me baston
el me ciaro sempre inpissà.
Vardo ne la stala
la greppia xe voda
to mama sparia
to popà scanpà col baston.
Le bestie rumega sensa rason.
Sento un vodo sol stomego,
un caminare come se la tera
fusse paltan, also un piè
e m’impaltano co’ st’altro…
Vardo par’aria
vedo un oseleto svolare
cantando, el sole sbrancarme
come se fusse so morosa.
La tera diventa dura
i me passi me porta
verso na cieseta,
un bocia me ciapa par man
el se cava el bareto, 'ndemo
dentro pian-pianeto.
Infondo, in meso al scuro
un ciaro dentro un sesteo.
Finalmente el me Puteo.
(1 dicembre 2007)
(foto di Luigina Bigon)
Luigina Bigon
è nata e resiede a Padova. Ha pubblicato Barattare Sogni,
Clessidra 1989; Lucenenèra, Maseratense 1995; Cercando
O, Panda 2001, tradotto in inglese da A. Piazza Nicolai. Ha ideato
e curato la collana «… in versi», pubblicando Camminando
in… versi, Panda 1996; Gelato… in versi, Media
Diffusion 1997; Occhiali in… versi, Panda 1998. Fa parte
del direttivo del "Gruppo letterario Formica Nera" dal 1980.
Nel 1989 ha fondato il "Gruppo Poeti UCAI", sez. di Padova,
il cui intento è quello di promuovere i valori cristiani attraverso
l'arte in tutte le sue espressioni. Ha realizzato, con il contributo
di R. Bettiol, L. Gaddo e M. Ottogalli diverse antologie.
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C’è…
di Marco
Scalabrino
C’è tanfu di morti e scrusciu di guerra.
C’è in giru arrè pi st’Europa
lasca
crozzi abbirmati cu li manu a l’aria.
C’è surci di cunnuttu assimpicati
chi abbentanu, ogni notti di cristallu
li picca l’esuli l’emarginati.
C’è forbici ammulati di straforu
chi tagghianu di nettu niuru e biancu
lu sud lu nord lu pregiu lu difettu.
C’è vucchi allattariati di murvusi
chi masticanu vavi di sintenzi
cu ciati amari chiù di trizzi d’agghia.
C’è svastichi c’è fasci c’è
banneri
chi approntanu li furni a camiatura
cu faiddi di libra e di pinzeri.
C’è culi ariani beddi e prufumati
chi strunzianu fora di li cessi.
C’è di quartiarisi; c’è di ncugnari.
C’è catervi di cazzi di scardari
– droga travagghiu paci libirtà
giustizia malatia puvirtà…
e c’è na razza sula: chidda umana.
C’è…
(versione in Italiano di Flora
Restivo)
C’è lezzo di morte e brontolio di guerra.
C’è ancora in quest’Europa lacerata
scheletriche braccia
le falangi contorte alzate al cielo,
le orbite ridotte vermicaio.
C’è topi di fogna assatanati
che azzannano
in notti di cristallo rosso-sangue
i deboli, i reietti, i senza-voce.
C’è subdole forbici affilate
che separano senza pietà
il bianco e il nero, il sud e il nord
chi ha diritto di vivere e chi può morire.
C’è bocche ributtanti
che vomitano sentenze dal fiato greve
più di spicchi d’aglio.
C’è svastiche c’è fasci c’è
bandiere:
divampano i forni assassini
e ottuse lingue di fuoco
divorano sapere e civiltà.
C’è culi ariani lisci e profumati
che stanno facendo del mondo una latrina.
C’è da stare alla larga;
c’è da tenerci stretti e far barricate.
C’è cataste di rogne da grattare
– droga, lavoro, pace, libertà
giustizia, malattia, povertà…
e c’è una razza sola: quella umana.
Marco
Scalabrino è nato a Trapani nel 1952. Poeta
(Palori, 1977; Tempu, palori aschi e maravigghi, 2002),
saggista,
traduttore
ha pubblicato anche commedie in siciliano.
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