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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 97
Gennaio 2008
Editoriale:
Open year
Buon inizio 2008 con questo nuovo
Faranews che offre: una empatica recensione di Maria Rosa
Panté a La vendetta di Maricika di Alon Altaras,
alcuni freschi inediti di Luca Ariano, un racconto
“psicologico” di Leela Marampudi, nuove
intense poesie di Raffaele Ibba una bella selezione
e traduzione di poesie di Inês Hoffmann a cura di Marco
Scalabrino, la sempre intensa lectio lucana di padre
Bernardo. L'immagine NeonNato è di Alberto
Mori che ringraziamo per la gentile disponibilità. Vi ricordiamo
il nostro concorso Prosapoetica
2008
Scrivere
della madre (su un romanzo di Alon Altaras)
di Maria
Rosa Panté
Alon Altaras è uno scrittore israeliano di origine
rumena già affermato in patria, che ora vive e lavora in Italia
(è anche ottimo traduttore di vari autori italiani, che ha contribuito
a far conoscere in Israele). Ha pubblicato due libri con la casa editrice
Voland.
Il secondo libro uscito in Italia, nel 2006, si intitola La
vendetta di Maricika. È un romanzo dichiaratamente
autobiografico (nonostante alcune circostanze siano state inventate
dall’autore), un omaggio alla madre, appunto Maricika, da tempo
defunta.
Questa donna, giovanissima, lascia la campagna rumena per Bucarest e
poi parte dalla Romania per Israele.
Coraggiosamente, forte della sua abilità some sarta e creatrice
di modelli, affronta la vita da sola.
Una esistenza apparentemente comune, la sua, fatta di lavoro, ma soprattutto
di sogni e speranze. Lo sfondo è uno stato di Israele, intorno
agli anni ’50 e ’60, in cui non si colgono, se non incidentalmente,
gli aspetti politici e più chiaramente “ebraici”.
Anche perché la famiglia dell’autore resta soprattutto
rumena e in Israele cerca di ricreare una sorta di “colonia”
della madre patria, i cui membri a stento sanno qualche parola di ebraico
e mantengono un forte legame con la Romania attraverso il rapporto epistolare
coi parenti. Parenti che, poco alla volta, arriveranno tutti in Israele.
La vicenda ruota proprio intorno a Maricika: la seguiamo nei suoi primi
passi in Israele, quando lavora come aiutante presso una sarta e sogna
di creare una sua personale collezione.
Riuscirà nell’intento, facendo lei stessa da modella per
i suoi abiti, ma non avrà il successo sperato e dunque quello
della collezione resterà un sogno costante nella sua vita, anche
quando dovrà adattare la sua arte a semplici riparazioni.
In un primo tempo Maricika crede di trovare un aiuto in Paul, un conterraneo,
un uomo bello, ma, all’inizio, indecifrabile. Paul sposerà
Maricika, la conquisterà, anche grazie a una macchina per cucire,
nella speranza di diventare l’agente della donna e di fare fortuna.
Superate le molte perplessità, Maricika si affezionerà
a Paul, ma verrà da lui sistematicamente delusa e scoprirà
che il carattere indecifrabile dell’uomo nascondeva un animo pavido,
meschino e sostanzialmente indifferente a tutto fuorché al traguardo
d’un mai raggiunto successo professionale.
Dalle delusioni nascerà nella donna il desiderio della vendetta
finale.
Bisogna però dire che Paul riuscirà almeno a rendere madre
Maricika, che sarà una madre “anziana”, affettuosissima,
attenta e ansiosa, quasi perennemente stupita d’avere raggiunto
il traguardo tanto desiderato: un figlio, Alon, appunto.
Paul non sarà nemmeno un buon padre, si spaventerà della
malattia del figlio e Maricika dovrà affrontare anche questi
problemi quasi completamente sola. Quasi perché riceverà
un aiuto inaspettato dal suocero, giunto in Israele, un uomo diverso
dal figlio, che sarà un nonno attento e affettuoso, tanto che
Maricika lo ritiene, insieme al figlio Alon, l’unico dono ricevuto
dal matrimonio con Paul.
Intanto Alon guarisce, cresce. Maricika invecchia: è stanca,
scopre d’essere ammalata (sopravvive a un attacco di cuore) e,
insieme al marito, decide di ritirarsi in una casa di riposo, dove finalmente
si realizzerà la vendetta a lungo covata della donna nei confronti
del marito.
Una vendetta decisa, senza “fronzoli”, in linea cioè
col carattere della donna, che si ritrova nella sua stanza in una condizione
che riporta quasi circolarmente all’inizio del libro.
Il romanzo è scritto molto bene (e ben tradotto), narrativamente
è incalzante, le descrizioni dei personaggi di contorno sono
vivide. Si sente il caldo di certe località israeliane, si immaginano
i paesaggi rumeni evocati nelle lettere ai familiari.
L’autore è riuscito a raccontare vicende tanto personali
in modo a un tempo molto asciutto e sobrio eppure partecipe e ricco
di affetto per la protagonista.
Maria
Rosa Panté è nata nel 1961 a Borgosesia, cittadina
in provincia di Vercelli dove vive. Insegnante di materie letterarie
in istituti superiori, attualmente si occupa della produzione di materiale
multimediale e ipertesti per la didattica. Ha pubblicato un libro di
poesie e prose, L’amplesso retorico. Voci femminili dal mito
(2004) e nel 2006 un libro di racconti: Noi che non fummo muse
(Manni). Ha partecipato a diversi concorsi di poesia e narrativa, conseguendo
premi sia per la produzione poetica, che per la prosa e la saggistica.
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UP
AND DOWN – La mossa è dentro te
di Leela
Marampudi
Sono una persona strana.
Sono sempre stato una persona strana.
Mi chiamo Gant, Alfred Gant.
Forse è stato il mio cognome ad indirizzarmi verso fantasie di
vite altrui. Chi lo sa.
Mi sento a metà tra il filosofo Kant e il trader Gann.
Per questo, o forse per un altro motivo del tutto sconosciuto, mi ritrovo
come Jekyll e Hyde: frammentato.
Spezzettato.
Ma stabile.
Due passioni, due colori, due complementari. Così complementari
che basta guardarne uno per accorgersi che attraverso quello si può
vedere anche l’altro.
Giallo – Viola.
Quando uno? Quando l’altro?
Entrambi insieme. Per me e per loro. Frammentati, spezzettati, in un
unico contenitore. Doti diverse che si uniscono per un unico scopo.
Questo sono io.
Gioco in borsa. Perché?
Guadagnarli è bello, ma rubarli è meglio. Per questo gioco
in borsa. Come Gann, anch’io ho le mie teorie assurde. Assurde.
Che strano: quando un’assurdità funziona nessuno dice più
che è assurda e le mie funzionano.
Partendo dal presupposto che per me nel fare trading ci vogliono le
intuizioni di una donna, ho provato a strutturare una teoria finanziaria
basata su di un punto di vista femminile.
I grafici con i trend li analizzo come se fossero le linee della mano
dell’azienda. Le azioni speculative sono da considerasi uomini
latin lover e le azioni da “cassettisti” uomini da sposare
nel momento in cui si è stanchi di speculare. E impietosamente,
come una donna, senza preoccuparmi troppo, quando il fidanzato mi fa
soffrire, prima che mi spezzi il cuore, applico il concetto di “stop
loss”, che corrisponde al lasciarlo.
Mi diverto a giocare.
In parallelo a questo mio percorso, nel quale mi trovo soddisfatto,
per rispetto di quel Kant che altrettanto ha in comune con me, a parte
una similitudine di nome, cerco di leggere libri che parlano di interiorità,
di mondi paralleli.
Poi, ogni tanto, per prendermi in giro, perché prendersi troppo
sul serio anche nelle assurdità ti fa sentire fastidioso per
te stesso, invento delle scenette nelle quali potermi sdrammatizzare.
Per esempio: un giorno che mi aggiravo ormai da un’ora per casa
con una candela accesa, visto che l’azienda addetta all’elettricità
aveva deciso di tenere il quartiere al buio, avevo pensato bene di fare
una telefonata al loro numero verde e, dopo che l’operatore dall’altra
parte della comunicazione mi aveva tranquillizzato sul fatto che l’inconveniente
sarebbe durato ancora per poco io, da assurdo quale sono, avevo risposto:
“Bene: ero preoccupato. Sa, ho comprato delle azioni dell’azienda
e temevo in problemi più seri…”
Era logico. Se compro delle azioni, l’azienda è anche mia
e io faccio i miei interessi. Così logico da essere assurdo.
Assurdo. Assurdo. Così assurdo che a volte le persone fingono
di non conoscermi.
Quindi sono solo?
No. C’è la Madre.
Costante e presente in un angolo della cucina. Gonfia, molle, calda
e avvolgente, lei sta ad aspettarmi ad ogni mio risveglio. Anche quando
rincaso: lei è lì, appoggiata sul piano di lavoro della
cucina.
La mia vecchia amava le tradizioni. Le amava a tal punto da fare il
pane in casa senza usare come lievito quelle sostanze secche che si
trovano in commercio: lei usava staccare da un blobbone di pasta lievitata
che chiamava Madre, brandelli che utilizzava come lievito.
Quel blobbone vivo che si autorigenera nell’oscurità della
notte, senza sapere di cosa possa nutrirsi, è sopravvissuto anche
dopo la sua morte… e così… la Madre è rimasta
con me in un altarino della mia cucina, perché la continuità
della Madre mi dà conforto nella mia solitudine.
Ah! E poi c’è anche lei. La mia fidanzata. Mirna: la mia
ex domestica. Ha fatto carriera e così ora è la mia fidanzata
a sistemare la casa. I suoi giorni: martedì e giovedì.
Al sabato e alla domenica fa gli straordinari. C’è voluto
un po’ prima che mi accorgessi di lei. Il nostro primo contatto
fisico è avvenuto a causa di un incidente. Ero rincasato, lei
era in ginocchio, in cucina, con lo sportello del freezer aperto. Dalla
mia angolazione non riuscivo a vedere perché piagnucolasse. Mi
avvicinai e mai avrei pensato di assistere a una cosa così particolare.
Mirna con la bocca aperta. La sua lingua attaccata ad un ripiano interno
del freezer. Dopo che riuscii a staccarla usando acqua calda, dopo alcune
ore, il tempo necessario perché la facoltà della parola
potesse ripossederla, lei mi confidò che, lottando con il ghiaccio
da sbrinare, si era lasciata andare a tal punto nel combattimento da
averlo morso e le labbra le si erano incollate allo sportellino e allora
con la lingua aveva cercato di bagnare la superficie per staccarsi.
Mi ricordo che ero riuscito solo a dirle:
“Che cosa orribile!”
Da quel giorno il frigor e il freezer decisi di pulirli io. E lei nel
frattempo mi guardava e mi parlava. Che ragazza particolare Mirna: una
donna che ascolta solo ed esclusivamente una canzone di Mina. Una donna…
e poi il suo cane: Semola. Che io chiamo, per non avvilirlo, Seneca.
Semola è l’essere più credulone che abbia mai incontrato.
Crede così a tutto che da quando sto con Mirna, per natale sono
costretto a travestirmi da babbo natale per lui.
Sì, a volte Mirna sa essere così odiosa. Una sera, per
darmi una lezione mi aveva preparato una sorpresa: una serata a tema.
Il tema era: la mia morte. Non voleva uccidermi del tutto, solo una
parte. L’atmosfera era tetra: la tovaglia nera per la cena, le
candele da cimitero come centrotavola… il suo umore. Teneva in
testa un cappellino nero con una specie di pizzo leggero che scendeva
davanti al viso… e poi aveva quei guantini scuri trasparenti che
lasciavano intravedere uno smalto molto scuro per le unghie. Mi accolse
dicendomi: “Stasera, caro, faremo il funerale del tuo orgoglio”.
Come in una cerimonia religiosa dovevo promettere solennemente al cospetto
anche di Semola qualcosa per il nostro futuro? Mah, il funerale si concretò
nel suo dirmi 10 volte “Inetto” e io non dovevo reagire.
Cosa che mi sembrò semplice da compiere, almeno al primo funerale…
ma ogni tanto lei diceva che il funerale non era stato completato correttamente
e di fisso il sabato sera lo trascorrevamo così: lei mi insultava
e io non reagivo. Forse è stata lei, con il suo voler distruggere
il mio egocentrismo a farmi fare quello che ho fatto. Grazie Mirna.
Come nasce l’idea?
Resta ferma per tanto tempo nel mio subcosciente come un’immagine
latente su una pellicola ancora da sviluppare…
Tutte le mattine alle 9.00 precise, pronto come se dovessi andare in
ufficio a timbrare il cartellino io mi siedo composto davanti a GX1.
GX1, il mio computer, per Mirna, che da donna mischia il lavoro al piacere
nella leggerezza, semplicemente Gi, è il contenitore del mio
lavoro che inizia a muoversi esattamente alle 9.00: l’orario d’apertura
della borsa.
Questa mattina sono arrivato, per colpa di un sogno che volevo concludere,
in ritardo.
Un sogno confuso fatto di colori e di linee. Linee che si muovevano
e si costruivano come rughe all’interno di volti virati su colori
diversi.
La linea che mi ha colpito maggiormente è stata quella che caratterizzava
l’andamento di Mirna. Una linea che presentava due trend. Il principale
era in una condizione ottimale: sempre ascendente e il secondario era
caratterizzato da delle oscillazioni spaventose nella sua ascesa. Il
viso di Mirna, sullo sfondo, virava tra il rosso e il giallo in espressioni
bizzarre.
L’idea forse contenuta in questo sogno resta ferma finché
Mirna, mentre faccio una pausa per andare a prendere un bicchiere d’acqua,
non si presenta a me travestita per carnevale. È una specie di
arlecchino, il volto colorato metà di rosso e metà di
giallo.
Mi dice: - secondo te faccio troppo ultras della Roma dipinta così?
Non rispondo. Prendo una sedia e mi siedo di fronte a lei. Dopo aver
acceso una sigaretta inizio a osservarle attentamente il viso.
- Allora?
Insiste: - allora come ti sembro?
Poi, spazientita: - cos’è che stai osservando?
Io, ancora assorto, rispondo: - le tue rughe.
Si arrabbia.
Si arrabbia molto. E senza darmi la possibilità di spiegare replica
subito: - tu non hai le rughe? quelle linee piatte che hai in fronte
e che delimitano uno spazio molle, non sono rughe? No, hai ragione.
Però quello in mezzo è solo grasso che ti è cresciuto
in fronte perché non ti alleni pensando a quello che dici!
A volte mi chiedo come sarebbe stato il nostro rapporto se non le avessi
staccato la lingua dal freezer.
Comunque prende quel pretesto per darmi una lezione.
- Penso che dovresti essere più carino con me.
Dentro me penso: “Inetto”.
- Non fai mai nulla per me, non pensi nemmeno al nostro futuro.
- “Inetto”.
- Penso che sei un grande egoista che non si cerca neanche un lavoro
serio.
- “Inetto”.
- Che garanzie mi dai?
Alzo il viso che nel frattempo si è come da contratto abbassato
per guardarmi le scarpe e rispondo:
- devo andare in bagno.
Mirna mentre sto già dirigendomi verso il bagno: - penso che
tu sia bravo solo a scappare.
- “Inetto”.
Alla sera vado a cena da mia sorella e suo marito.
Durante la cena da ultimo dell’anno anche se ci troviamo a febbraio,
lei inizia in quell’atmosfera da “The Truman show”,
nella quale il marito non è protagonista insieme a lei, a darmi
una lezione:
- penso che sarebbe ora che ti trovassi una ragazza.
Il mio capo si china subito di scatto.
- “I…”
- Penso che anche la mamma e il papà se fossero vivi vorrebbero
vederti felice come me e il mio topino.
- “…”
- Ma non c’è proprio nessuna nella tua vita? Ti presento
una mia amica?
Alzando il capo:
- devo andare in bagno.
Tornato a casa, dopo aver aperto la porta, lei è li. Mirna severa,
in piedi con le braccia incrociate.
- Penso che tu ti vergogni di me.
- “…”
- Perché non mi hai portata?
Senza rispondere mi dirigo verso la cucina.
Intravedendo la Madre abbasso subito la testa e, raggiungendo lo studio,
chiudo a chiave.
Dentro trovo Seneca sulla poltroncina. Sta dormendo, ma da cane vigile
qual è subito alza lo sguardo e mi scruta.
- Non guardarmi così - gli dico.
- Tu cosa pensi? Come sono? Come dovrei essere?
Seneca zitto mi guarda con sguardo indagatore.
Così mi viene il dubbio che lui non abbia un’idea precisa.
Mi siedo al suo fianco. Lui senza muoversi gira solo la testa continuando
a scrutarmi.
Vedo per terra in un angolo la sua pallina. Lo guardo: - io so quello
che vuoi. Penso che dovresti prendere la tua pallina. Dov’è
Seneca la tua pallina?
Il cane di scatto scodinzolando scende dalla poltrona e va a prendere
la pallina.
E dopo che me la riporta gli accarezzo la fronte dicendogli: - bravo
SEMOLA.
Torno in cucina con orgoglio, sorrido alla Madre e, dopo averne staccato
un pezzo come da rito, vado a metterlo sotto il mio cuscino del letto.
Mirna si è già addormentata. Questa notte la passerà
nel mio letto. Faccio piano per non svegliarla. Spengo la luce dell’abatjour.
Click.
Click. Devo andare in bagno. Mirna dorme con Semola. Ha un rigonfiamento
sulla pancia. Le alzo delicatamente la maglietta del pigiama. Sotto
tiene “Bubi”.
Un peluche che ho rubato a mia sorella qualche mese prima per regalarlo
a Mirna. Semola alza il muso e in un sorriso gli dico:
- penso che devi starle molto vicino… è in gravidanza isterica.
Vado in bagno. Mentre sto seduto sul water, perché farla in piedi
di notte è rischioso, visto che a pulire è Mirna, penso
prima a Bubi, poi al volto di Mirna rosso e giallo. Le rughe le si arrampicano
sulla sua faccia per depositarsi in modo orizzontale sulla fronte e
anche a lei compare quella ciccetta da pensiero, o non pensiero.
- Pensiero o non pensiero: questo è il dilemma? Uhm…
Mi alzo di scatto dal water senza accorgermi che sono nel “mentre”
ed esclamo: - geniale!
Ho trovato, l’idea!
No. Di più: l’idea delle idee.
Posso ribaltare tutta la mia vita facendo scacco matto su Mirna e mia
sorella che sanno cosa devo pensare.
Dlin dlon. Dlin dlon.
Stanno suonando al campanello della mia porta a quest’ora di mattina.
Perché?
Vado, ancora nel dormiveglia, in pigiama a guardare dallo spioncino
della porta. È il mio vicino di appartamento.
Apro.
- Buongiorno.
Lui non risponde al mio saluto ma guarda contrariato la mia tenuta e
per invidia inizia così il suo monologo: - scusi se la disturbo
a quest’ora, ma sa, la gente normale poi va al lavoro…
Seneca nel frattempo mi raggiunge alla porta per vedere chi è
l’ospite indesiderato.
Lui guarda il cane e il suo volto diventa paonazzo. Seneca dalla coscienza
sporca si nasconde dietro le mie gambe.
- Volevo comunicarle che il suo bastardo ha inguaiato la mia Sissy,
un splendida barboncina con pure il pedigree. Non credo sarà
facile dar via quei meticci che nasceranno e quindi è giusto
che lei si prenda la sua responsabilità di padrone.
Guardo Seneca, in fondo ne sono orgoglioso e non mi va di sgridarlo
e allora, dopo essermi grattato il collo in segno di riflessione, dico:
- ma il cane non è mio.
Lui ribatte subito: - sì, è della sua compagna, ma è
la stessa cosa.
Ancora guardando il cane rispondo: - non è la mia compagna, è
la mia domestica.
Subito sento un frenetico tamburellare dietro alla schiena.
Mi giro lentamente. Mirna severa, in piedi, con le braccia incrociate,
in silenzio, ma il rumore del suo piedino nella pantofola con il pon
pon da coniglio che tamburella le zampe pronto all’attacco già
dice tutto.
Esclamo:- Mer… no! Inetto!
Guardo l’uomo. E il suo viso conferma la mia esclamazione.
Per colpa di quell’inconveniente arrivo in ritardo al lavoro.
In un ottica di indisciplina, per poter fare più in fretta, non
mi preparo adeguatamente. Come se fossi in videoconferenza per il mondo,
la grande rete, indosso velocemente giacca, camicia pulita e cravatta,
ma avverto un senso di inadeguatezza che aumenta quando, non potendo
distrarmi, per recuperare il tempo perso, Seneca si attacca alla mia
gamba sporcandomi di sperma i pantaloni del pigiama.
- Ma non ce la fai proprio a trattenerti? - gli dico.
Mirna entra in studio.
Io mi irrigidisco sulla sedia con sguardo fisso sul monitor. È
dietro me, la vedo da un riflesso sul video. In silenzio, immobile.
Dopo dieci interminabili minuti mi giro lentamente. Ha gli occhi iniettati
di sangue. La mia testa si accuccia tra le spalle e allora lei di scatto
abbassa la sua mano sul comò a fianco, come se stesse componendo
un forte accordo al pianoforte e poi striscia lentamente le unghie,
lasciando il segno della sua emozione. Esce. Tiro un sospiro di sollievo.
Vado verso il mobile. Guardo attentamente l’impronta delle sue
unghie. Mi viene un brivido. E poi il piacere. Con il tratto-pen che
ho in mano racchiudo i suoi segni sul legno in un grande cuore e metto
le nostre iniziali.
Troppe distrazioni. Oggi non riesco proprio a lavorare. Così
decido di andare sul mio solito forum di trading a chattare con il mio
unico amico: P.K., che probabilmente vive in quello spazio, per chiedergli
conferme sulla fattibilità della mia idea.
- Cos’è che vuole fare?
- Lei ha mai giocato in borsa?
- No, perché?
- L’andamento delle singole azioni è dato dai pensieri
degli uomini, da ciò che vogliono e non vogliono, e il bravo
trader sa che per poter guadagnare deve, ponendosi al di sopra delle
parti, speculare sui loro pensieri. Pensieri diversi in rapporto alle
singole azioni, che sommati determinano i vari andamenti. Ecco io ho
cercato l’azione delle azioni. Ciò che potesse comprendere
tutto, per così poter speculare sull’intera umanità.
Il mio viso durante il discorso si rivolge verso il cielo, come se mi
aspettassi che scendano, in questo momento, in questo ufficio, su di
me, i poteri dell’”Highlander”, ma l’impiegato
statale riabbassa quel tono solenne con un: - ha assunto qualche droga?
Indispettito per l’insolenza: - si può fare o non si può
fare?
- Sì… sì… si può fare…
Visto che mi sta dando la ragione come la si dà ai matti gli
faccio capire subito la mia superiorità: - e allora? Lo faccia.
Faccia il suo lavoro.
Mentre torno a casa, parcheggiando la macchina nel mio posto auto del
cortile interno del condominio, noto che qualcosa è stato scritto
sul muro di fronte. Quel muro è il muro della mia macchina: è
suo, è mio. Metto gli occhiali appoggiati sul cruscotto e prima
di finire la manovra leggo: “INETTO!”
Corro in casa infuriato. Mirna sta sul mio divano con i piedi appoggiati
al tavolino, fumandosi il mio sigaro cubano. Un regalo extra che mi
sono fatto per natale. Senza accorgersi che si sta fumando centoventi
euro, nell’altra mano tiene un pennarellone e mi sorride.
Le prendo il braccio, la strattono per portarla al parcheggio.
Davanti allo scempio la sgrido così forte che alcune persone
del palazzo si affacciano per vedere cosa sta accadendo: - guarda cos’hai
fatto!
Le tengo il collo da dietro con una mano per avvicinarle il viso al
muro.
- Tu non puoi comportarti così. Io torno adesso. Sono stato all’ufficio
brevetti. E tu fai così dopo che l’ho fatto? Io ho brevettato
l’azione delle azioni, non sono un inetto! Io ho brevettato il
pensare. E tutti quelli che vorranno pubblicare un pensiero ora dovranno
pagarmi i diritti. Cosa cerchi di fare? Vuoi pubblicare in nero? È
per colpa di gente come te se il sistema non funziona!
Nel frattempo Mirna inizia e singhiozzare e ad un tratto mi sembra che
quella voce che mi accusava sempre da fuori ora sia interna. Sento:
inetto, inetto, inetto…
Lascio il collo di Mirna che scappa subito per ritornare in casa. Guardo
verso l’alto per vedere la finestra del mio salotto e mi accorgo
che quel pensiero sono occhi che mi scrutano.
Grido allargando le braccia: - non sono un inetto!
Tutti chiudono le finestre. Solo una vecchietta rimane lì ferma
ad osservarmi. I suoi occhi non vogliono chiudersi. Sto per abbassare
il capo quando lei dall’alto dice: - cos’è che ha
detto?
Di scatto la fulmino con lo sguardo e me ne vado.
Trovo Mirna in casa ancora singhiozzante a pulire da sola il freezer.
E capisco che è vero: la sensazione provata al parcheggio…
non sono gli occhi esterni, sono io ad essermi dato del’inetto.
Le prendo la mano infreddolita. Lei la toglie di scatto.
- Devo lavorare! - dice.
- Ascoltami!
- Ho detto che devo lavorare, non ho tempo.
E allora, stizzito: - e allora vai a pulire il comò dello studio!
Il comò non lo pulisce, e interpreta quella mia frase come il
tentativo di una persona poco paziente di cercare di farle vedere il
proprio amore, dove per me era solo il ricordarle che mi aveva rovinato
un mobile costoso.
Alla sera Mirna è molto amabile. Mi chiede di poter fare con
me il suo gioco preferito, che inizia sempre con: - dai! Facciamo finta
di non conoscerci!
Così, senza conoscerci ci ritroviamo in una camera da letto del
“Gugliel’Motel”. Un postaccio che ha come insegna
l’immagine di una mela trafitta da una freccia.
Lei che ama fare foto che rappresentano il “prima” e il
“dopo”, per così riguardandole potersi ricordare
meglio tutto il mentre, mi fa un sacco di ritratti. Nel “prima”
fa uno scatto così ispirato da farmi capire che quella è
l’immagine del mio cambiamento. Il nuovo Alfred Gant.
Quella notte io e Mirna facciamo l’amore, cosa che non capita
assai spesso, ma quando capita io... io sento di amarla profondamente.
E mi trovo a fare con piacere anche cose che mai avrei pensato di riuscire
a fare nemmeno nella finzione. E anche lei. Parliamo della possibilità
di avere un figlio. Cerchiamo un nome. Lei vuole un maschio per compiacere
il mio egocentrismo. Io ovviamente apprezzo senza proporle la possibilità
di una femmina per innalzare lei, però già le dimostro
di volerle bene spontaneamente: sto cercando un nome.
Ad un certo punto lei dice: - e se lo chiamassimo Arnold?
Il mio petto si rigonfia. Io che sono sempre stato gracile e piccolo
ho la possibilità di chiamare mio figlio come il grande Swarzenegger.
Subito mi balena un’altra idea geniale e le rispondo: - che ne
pensi… uhm… e se entrassi in politica?
Lei replica con il broncio: - che cavolo stai dicendo Willis.
Sgonfio e demotivato concludo: - ma chiamiamolo Guglielmo!
Come si fa a farsi notare?
Come spiegare al mondo che ora io sono assoluto padrone dei loro pensieri?
Il mio amico P.K. mi consiglia di inviare l’informazione attraverso
internet alle maggiori agenzie. Lo faccio e direttamente il giorno seguente,
collegato al solito sito di finanza che amo usare per seguire in diretta
l’andamento del mercato, mi accorgo che tra i vari banner di informazioni
spicce per mettere in guardia i trader compare: ore 11.45. certo Alfred
Gant controllerà le comunicazioni attraverso un brevetto sul
pensiero.
Commosso chiamo subito Mirna per farle vedere quello che sta accadendo.
È fiera di me.
Dopo qualche giorno il TG delle otto apre con la notizia di un uomo
dal nome Alfred Gant che ha avuto un’idea rivoluzionaria: brevettare
il pensiero.
Divento l’uomo del mese, ma no, che dico, dell’anno. Iniziano
pure a cercarmi giornalisti per intervistarmi e partecipo a programmi
televisivi nei quali, più che spiegare la mia idea, mi chiedono
di spiegare chi è Alfred Gant.
I meticci di Seneca vengono venduti a peso d’oro con il nome del
padrone: Alfred 1, Alfred 2, Alfred 3… e io mi sto rapidamente
arricchendo avendo solo mosso ciò che è dentro me: il
mio pensiero. Un pensiero superiore.
Ma, dopo mesi, il TG delle otto si conclude con: “E ora andrà
in onda in forma ridotta il talk show 'affari vostri?' e, a seguire,
il programma 'Il gioco degli amanti' verrà sostituito da un documentario
sulla riproduzione dei facoceri africani.”
Subito il mio fiuto da trader mi fa percepire che con molte probabilità
la mia genialità sta per rivoluzionare il mercato dei media.
Con molte probabilità il mio arricchirmi deteriora a tal punto
l’utile dei media che ora sono costretti, per non rimetterci,
a dover selezionare cosa pubblicare. Questo vuole dire che mi pagheranno
di meno. Devo recuperare quei soldi che mi spettano, i pensieri intimiditi,
in altro modo. Come si fa a guadagnare quando un’azione scende?
Penso subito al attuare un strategia “short”, al ribasso.
Tornare alle mie pratiche da puro trader, che nel frattempo ho abbandonato,
appagato dal resto e giocare allo scoperto sui media, speculare su un’azienda
che sta per fallire: questo è il mio piano, ma poi mi viene in
mente l’immagine della prigione e, ricordandomi che ciò
che voglio fare, giocare su titoli che posso controllare, è illegale,
entro in depressione da insider trader castrato. Potrei far giocare
Mirna al posto mio? Ma anche questo è illegale. E poi lei pensa
di essere etica. Allora spero in P.K.… spero che, anche se non
posso dirgli esplicitamente che deve farlo, lui capisca l’affare
e, dopo aver speculato subdolamente, mi riconosca un minimo il favore
che gli ho fatto con la mia mossa e mi dia quello che mi spetta. Quindi
devo mantenere maggiori contatti con P.K. e, a titolo solo di amicizia,
rischiando sulla sua intelligenza e buon cuore finale, raccontargli
in modo criptato tutto quello che avviene. Non c’è bisogno
di dover instaurare un altro tipo di rapporto. Io, A.G. e P.K. siamo
già intimi. Lui sa tutto della mia personalità da trader.
Gli ho spiegato persino la mia teoria finanziaria dove le azioni sono,
seri o non seri, solo uomini. Mi ricordo che l’aveva definita
come un’idea geniale.
Decido che è ora che io e P.K. iniziamo a sentirci attraverso
e-mail senza utilizzare il forum di trading. Accetta subito. Ne è
così entusiasta che penso che probabilmente quell’uomo
è più solo di me. Forse dovrei, per arruffianarlo, regalargli
un pezzetto di Madre.
Penso un sacco di cose, ma un giorno mi stupisco di ricevere una sua
mail dal subject: “Forse è il caso che ora rompa le tue
resistenze”.
Ogni trader che si rispetti sa cosa sono i supporti e le resistenze,
sa che quando un titolo rompe una resistenza schizza verso l’alto.
Dal subject è chiaro che lui ha capito il mio piano e vuole diventare
complice quindi, da complice, parlando apertamente, posso riuscire a
creare quella piccola società illegale di trading pirata.
Mi intriga il subject. Mi intriga a tal punto che iniziamo a mandarci
assiduamente mail dove attraverso un linguaggio puramente tecnico io
spiego a lui tutto quello che lui deve fare per arricchirsi nella situazione.
Un uomo astuto P.K. La nostra complicità mi coinvolge così
tanto da farmi quasi dimenticare il progetto che abbiamo in mente e
mi spinge a contattarlo spesso solo per sentire quel legame che non
riesco ad avere con nessuno. Nemmeno con Mirna.
Come può una donna così fuori dal
mio mondo maschile capirmi?
A Mirna viene una sorta di bulimia da fiori. Una specie di depressione
inversamente proporzionale al mio star bene, che la porta a riempire
ogni angolo della casa di fiori. Le mie mattinate, i miei pomeriggi
e le mie nottate sono accompagnate da profumi misti. Una depressione
che vuole raggiungermi attraverso l’odore. Più io non dò
peso alla presenza di Mirna in casa mia e più quell’odore
diventa intenso. Ridare prima odore e poi voce alla propria individualità?
Per questo si comporta così? Un’individualità persa
nel constatare che io non sono inetto?
Una sera, perché il mio io in fondo è troooppo buono,
passivamente la accontento e la porto da mia sorella per una cena in
famiglia.
Mia sorella è molto contenta del fatto che finalmente il profumo
femminile mi ha raggiunto, così contenta che, oltre ad aver preparato
la solita cena da ultimo dell’anno, ha deciso di intrattenerci
per un dopocena, nel quale, presentandosi insieme al suo topino come
coppia modello, ci fanno vedere l’album e il filmino di nozze.
I primi del loro corso prematrimoniale ora possono, come premio, esporsi
anche nei contesti più frivoli: quindi ci sorbiamo le quattrocento
diapositive del loro viaggio di nozze.
Mentre mia sorella parla amabilmente con Mirna che, a differenza mia,
come entrando in un personaggio sconosciuto, non si sta annoiando nella
situazione e dopo uno sguardo al sorriso stampato sulla faccia di mio
cognato, mi verso il settimo ammazza-caffè.
Tutti sorridenti. Ora Mirna non ha più bisogno dei suoi fiori
e io, che guardo tutti, capisco che loro vogliono solo quello: farmi
diventare come loro, perché altrimenti si sentirebbero inetti.
Per questo mi viene istintivo rispondere per primo a mia sorella quando
chiede:
- ma come vi siete conosciuti?
- Le ho paspato il sedere in metropolitana.
L’umore di Mirna dopo questa frase non attacca il mio buonumore
riconquistato.
Non mi disturba nemmeno quando, tornati a casa, mi chiama per farmi
vedere una scena da psyco-thriller che la sta facendo soffrire. Semola
sul balcone, fermo davanti ad una lucertolina che sta fingendo di essere
morta. Occhi negli occhi, senza un respiro per entrambi. In questa scena,
nella sua tensione che si taglia con un coltello, intuisco che sarei
potuto essere il supereroe delle sue fantasie: - Alfred, fai qualcosa!
Dopo uno sguardo protettivo nei confronti della mia donna, la protagonista
femmine, finalmente mi sembra di prendere in mano con orgoglio la mia
vita: chiudo la portafinestra del balcone lasciando che Semola diventi
adulto.
Il mio rapporto con Mirna è alla frutta. In un sadismo che mi
fa star bene continuo a fingere di accontentarla. Ora a volte vado pure
a fare la spesa con lei e, mentre io carico il carrello di cose inutili,
lei cerca di dare un senso a quella spesa comprando più cose
utili riesca. Frutta e verdura che marciscono nel nostro frigorifero.
Un destino orribile per prodotti sani perché Semola, oltre ad
essere diventato un cacciatore, non è vegetariano.
Un giorno che sono lì nel reparto elettronica, mentre lei cerca
cose sane, ho la mia apparizione.
E chi l’avrebbe mai detto che mi sarei potuto convertire così…
tutto di botto: calze nere con la riga nera e scarpe col tacco a spillo
verniciate di nero. Gambe eleganti, audaci e intelligenti. Sì,
intelligenti. Mi blocco pensando a Mirna. Mirna che quando è
semplice sembra mia nonna e quando osa… una da … Mirna…
Seguo quelle gambe come un segugio. Le sto dietro finché non
sbatto contro Mirna che sta per fare un cambiamento importante per la
sua vita. Guardo dietro di lei, ma le gambe sono sparite così,
purtroppo, devo guardare in faccia lei che sta nel reparto giocattoli
per scegliersi una nuova amica.
- Ti piace? Si chiama “Barbie Chic”! Ho deciso: voglio comprarmi
un’amica da prima pagina. Forse mi insegnerà ad essere
come tu mi vuoi?
Per un attimo dimentico i velati collant: la sto piegando. Mirna striscia
verso l’approvare che io sono il meglio.
Tornati a casa, mentre lei si strucca insieme alla sua nuova amica,
mentre si mettono insieme il latte detergente, io guardo in camera da
letto, insieme a Bubi il peluche, le autoreggenti di Mirna.
Forse perché rientrando in camera Mirna ci vede, ma già
dalla mattina dopo e per molte altre a seguire, al mio risveglio trovo
sempre nei posti più assurdi Barbie Chic con Bubi in situazioni
hard.
Mandare in avanscoperta l’amica da prima pagina per entrare nel
giro e poi avvicinare me?
Non dò importanza alla cosa e così, dopo un po’
di tempo, Bubi ritorna nella sua castità forzarta sul comò
della camera.
E lei riinizia con i fiori.
Dovremmo incontrarci!
P.K. mi dà il nostro primo appuntamento.
Elegantissimo, in stile anni trenta ma da convention, il Palace è
il miglior hotel della zona.
Ci dobbiamo incontrare alla reception, io da copione ho una rosa rossa
nel taschino e così sarò riconosciuto.
Sono seduto ad aspettare nervosamente pensando che è strana quella
situazione… perché una rosa nel taschino quando tutti conoscono
la mia faccia? Guardo in giro mentre sorseggio un caffè ordinato
durante l’attesa. D’un tratto una voce maschile alle mie
spalle. Mi giro e vedo un uomo sulla quarantina.
Il brizzolato dice con tono garbato: - il signor Gant?
- Sì - rispondo io.
- È atteso nella suite impero. Sesto piano.
Arrivato al sesto piano, quando l’ascensore si apre, mi trovo
di fronte alla suite impero. Sto per bussare ma mi accorgo che la porta
è solo accostata. Entro. Mi guardo in giro: nessuno. Più
avanti, oltre al salottino pieno di fiori e frutta c’è
una portafinestra aperta. Mi dirigo verso quello che è l’ingresso
di una “bow window”. Mi fermo sull’ingresso: di schiena
due gambe. Velati collant muniti di riga nera. Scarpe con il tacco in
vernice nera. In preda ad un istinto primordiale mi avvicino a quelle
gambe intelligenti e quando sono lì lì per toccarle esse
si girano per guardarmi.
- Alfred!
Deglutisco di fronte a quella chioma leonina color rosso fuoco e balbetto:
- P…P… P.K.!
- Chiamami Patricia.
Sento la mandibola inferiore abbassarsi di botto dopo aver detto:
- sì, Patricia… Patricia K.!
Lei, richiudendomi la bocca con gesto deciso: - Patricia Kant.
Gann e Kant. Come due complementari… quel cognome mi riporta cosciente.
- Scusami un attimo Patricia.
E vado a chiudere la porta finestra della bow window.
Dopo avermi dato il suo biglietto da visita rosa profumato e spiegato
una proposta molto interessante, il motivo del nostro incontro, Patricia
fa l’amore con me.
Dieci minuti interminabili. Anche per lei che, nuda nel letto, mentre
io cerco, guardando il soffitto, di realizzare cosa sia accaduto, si
fuma una sigaretta alla menta sottile dal filtro bianco. Sto sublimando
il momento quando lei si alza di scatto, prendendo il lenzuolo per coprirsi.
Va verso la finestra… un lenzuolo messo ad arte come un grande
abito da sera. Così scollato sulla schiena che permette di intravedere…
verso la finestra continua a fumare e poi, girandosi:
- ora dobbiamo agire Alfred!
Tornato a casa da Mirna non ho nessun senso di colpa. L’unica
cosa che mi indispone è che lei si comporta come se volesse qualcosa
da me.
Mi porta a cena fuori, nel suo gioco preferito.
A mangiare all’aperto. In piedi a fianco della strada una giovane
e bionda ragazza dell’est, in una specie di fast food in roulotte,
taglia a metà wurstel da poi grigliare come imbottitura di panini
che vengono dati in pasto ad uomini affamati. La ragazza dell’est
vedendomi mi sorride. Lei conosce bene me e Mirna e lo spettacolo a
cui di lì a poco assisterà. Quando la clientela aumenta
Mirna inizia il grande monologo nel quale descrive per tutti il nostro
finto passato. Lei, ex prostituta locale, mi aveva conosciuto in quella
zona e ad ogni anniversario tornavamo lì a mangiare per ricordare
i vecchi tempi.
A differenza delle altre volte non sto tanto al gioco di Mirna nei suoi
botta e risposta. Così lei si arrabbia.
Di notte mi sveglio e lei sta mettendo tutte le sue cose in una grande
valigia gialla.
- Cosa fai?
- Torno da mia madre!
Esclama lei.
- È morta,
rispondo io. E allora, forse perché non se lo ricorda, inizia
a prendere la roba che ha buttato in valigia per gettarla in modo isterico
addosso a me. Con un paio di mutandine che mi fanno da cuffietta dico:
- che c’è? È perché hai voglia?
Diventa più isterica.
Mirna… se la tratti da… non va bene: è lei che deve
deciderlo.
Poi, calmandosi da sola, mentre io mi guardo allo specchio grande appeso
alla parete di fronte a me e mentre estraggo ciocche di capelli fuori
dai lati delle mutandine, si siede sul letto. Chiama Semola. Lo prende
in braccio. Semola guarda incuriosito la cuffietta con orecchie di capelli.
Lei me la toglie di scatto e poi: - io e Semola ce ne andiamo, Alfred.
- Va bene.
Rispondo riprendendomi la cuffietta e rimettendomela in testa.
Lei scoppia a piangere:
- come… va bene?
- Se non vuoi star con me non posso obbligarti.
Si blocca, nel pianto. Mi guarda spaventata e poi riscoppia a piangere.
- Non vuoi sapere perché?
- Avrai i tuoi motivi.
Rismette di piangere e mi riprende la cuffietta e sa la mette in testa
lei.
- Ti lascio per questo: l’odore che hai addosso.
Mi annuso…
- Ti lascio perché… come è difficile Alfred…
sai… io ti ho scelto perché non avevi odore. Sai…
l’attrazione per le donne è una questione di odore. Un
odore che alcuni uomini hanno. L’odore che lasciano tutte le donne
che gli si avvicinano. Li fanno diventare attraenti… non so…
ma è così. Ecco: io ti ho scelto perché tu eri
un uomo serio. Senza odore. E io da un po’ di tempo… poi
stasera…
riscoppia a piangere.
- Io, Alfred, ti lascio perché mi sento attratta da te! Tu mi
tradisci!
Se n’è andata.
Il giorno seguente sento un grande vuoto. Come un lutto interiore. Il
giorno precedente non mi ero accorto… prima l’incontro con
Patricia. Poi la serata con Mirna. Troppi incontri per accorgersi delle
cose importanti. Una vita di incontri per dimenticarsi dei sentimenti.
Guardo l’altarino della mia cucina e piango.
Piango come mai avrei creduto di poter fare.
Io non sono stato presente.
Io non ho capito cosa sarebbe potuto accadere.
Semola cacciatore, che se n’è andato insieme a Mirna, ha
mangiato la Madre.
Piango con un briciolo di pasta e peli rinsecchita tra le mani. Cerco,
facendo cadere dall’indice delle gocce d’acqua del lavandino
su di lei, di farla rinvenire. Ma la Madre se n’è andata.
Sono così depresso da non rispondere nemmeno alle telefonate
di Patricia. Per questo viene a trovarmi.
- Ah! Tu vivi qui…
Non rispondo mentre tengo la briciola di Madre e lei mi guarda delusa.
- Come avrai visto dal mio biglietto da visita io sono una curatrice
di immagine e quindi per il nostro progetto sarà meglio che ti
dia una ripulita!
Nel mio silenzio prende il briciolo di Madre e, dopo essere andata verso
la cucina, lo butta nel lavandino.
Patricia mi ha in pugno!
Lei la burattinaia e io il burattino. Dopo aver buttato ciò che
rimane della Madre, lei riesce, non so come, a prendere il controllo
dei miei desideri. La lascio fare perché quel piano che per lei
è il nostro si realizzi.
Patricia decide che io debba fondare, in società con lei, un
partito nel quale sono leader ideologico.
Io non devo far altro che fingere di fare il politico e lei, reclutando
delle persone da altri partiti e un tizio che possiede una TV privata,
tutta gente che ha in pugno facendoli pendere dalle sue calze, penserà
a tutto il resto.
Questa idea che mi aveva già descritto al Palace è la
copertura per riuscire a continuare a fare soldi facili attraverso il
brevetto sul pensare: - Alfred, se tu diventi un politico che vende
fumo… il re dei politici che vendono fumo… tutti cercheranno
di presentarsi attraverso i media per dirtelo. Bingo! Più lo
fai e più la gente dovrà pagarti per darti contro!
Ora che siamo seduti l’uno di fronte all’altra, senza più
la Madre io mi sento piccolo.
Apatico.
Non mi è nemmeno venuta in mente l’idea di poterla escludere
dalla situazione, ma lei ci tiene a sottolineare che se non voglio fare
a metà dei guadagni mi denuncerà.
- Per cosa?
Rispondo io.
- Per avermi chiesto di giocare al ribasso per te su titoli che potevi
controllare. Non l’ho mai fatto… però ho depositato
da un notaio tutta la nostra corrispondenza. Ah! La tirerà fuori
se mi dovesse capitare qualcosa…
così lei diviene la mia mente. E in men che non si dica mi ritrasforma
la vita. Non mi oppongo su nessuna scelta. L’unica cosa che chiedo
e che mi concede dopo mille problemi è quella di utilizzare,
per la mia campagna stampa, la foto-ritratto che Mirna mi aveva fatto
al Gugliel’Motel. Quella dove sullo sfondo, su un muro, si vedeva
in un quadro il logo della mela trafitto da una freccia. Andandosene,
Mirna aveva dimenticato a casa mia i negativi.
Un’ottima manager Patricia. Ha ideato tutto: dal nome del partito
al mio vuoto programma elettorale.
Un suo amico che fa video industriali mi ha anche fatto uno spot pubblicitario
degno di un grande regista, nella forma.
Lo spot inizia in bianco e nero: in una grande sala da convegno ci sono
tre gruppi di persone che discutono… dalla sinistra, in giacche
marroni, scarpe scamosciate e occhialini rotondi: “Come si può
rappresentare la classe operaia in un contesto multiculturale che ha…”
Dal centro, in un’eleganza un po’ dimessa: “La moralità…
la centralità della famiglia… l’abbiamo sempre professato…”.
E dalla destra, in completi d’autore impeccabili: “Il trattamento
fiscale delle rendite finanziarie…”
A questo punto la porta si apre. Lo spot diventa a colori e, dopo una
serie di formose donne che fanno da infioratici, entro io con un stile
da italiano in America. Elegante, con occhiali da sole a lenti nere.
Un dj inizia a mettere musica finché, oltrepassando i tre gruppi
di persone, vado a sedermi su di un trono accerchiato dalle prosperose
donne. Poi guardo in camera e, dopo aver abbassato gli occhiali in un
sorriso d’intesa, dico lo slogan: “No Alfred! No party!”.
Una voce profonda fuoricampo conclude con il nome del partito: “POSSIBILIMETE
AGNOSTICI”.
Non si sa come, ma vengo eletto. Forse nessuno ha capito che party in
inglese significa anche partito…
Così per cinque anni non divento altro che il ricchissimo salvadanaio
di Patricia. Nel frattempo mi ha sposato.
La mia vita in ribasso, davanti a quella donna che seguendomi in ogni
iniziativa è diventata il modello per tante altre. Le calze con
la riga nera sono tornate alla moda, ma no, che dico: sono all’ultima
moda. Calze nere con la riga e chiome leonine color rosso fuoco.
Ed io in tutto questo, tra i soldi e la popolarità di entrambi,
spero di trovare qualcuno che mi dica solo: “Pooovero Alfred!”.
Un giorno, mentre sono in una piazza per un comizio organizzato
da Patricia, il primo di una serie per ripresentarmi al nuovo ciclo
di elezioni, mi sembra di vedere qualcosa di strano. Qualcuno nascosto
tiene in mano qualcosa di famigliare. Io continuo a parlare, fregandomene
se sbaglio a leggere quello che Patricia mi ha scritto…
- tanto i contenuti non sono importanti Alfred: devi solo metterci la
faccia.
Queste sono parole di Patricia… e, per chi è troppo lontano
per vedere la mia faccia, dietro di me è stata appesa apposta
la gigantografia della foto del Gugliel’Motel. Così, non
dando importanza a ciò che dico, a ciò che leggo, cerco
di seguire quel qualcosa o qualcuno che si nasconde tra le persone…
Ad un tratto sbuca dalla folla un bambino. Sì, un bambino sui
cinque anni… mi viene vicino. Sale sul palco e mi dà una
foto. Mi giro per guardare dietro di me. La foto del piccolo è
quella del Gugliel’Motel! Scoppio a piangere sulla mela e la freccia,
perché il bambino, nell’altra mano, tiene la Madre e, mentre
Patricia ha sguinzagliato la security verso di lui e la Mia Madre, vedo
che nel frattempo una donna è arrivata sotto al palco e mi guarda
con occhi compassionevoli.
Mirna… e Semola!
Mirna con calze con la riga nera. Mirna con la chioma leonina rosso
fuoco.
Mirna che tendendomi una mano dice:
“Pooovero Alfred!”.
La sveglia suonava già da un po’. Mi
alzai e andai in bagno per lavarmi. Dopo essermi rasato accesi la TV
in cucina mentre mi preparavo la colazione. Le notizie di politica e
subito fuori casa, con ancora i pantaloni del pigiama, per andare a
ritirare al portone di ingresso il pane che era stato consegnato. Tornai
in cucina e appoggiai il pane sul ripiano. Ora il TG stava parlando
della chiusura dei mercati asiatici. Tornai in bagno. Finii di vestirmi:
pantaloni e cravatta. Entrai nel mio studio e guardai il solito calendario
di una nota ditta di calze appeso sopra al computer: era cambiato il
mese. Girai la pagina con le gambe in collant a riga nera. Presi la
mia ventiquattrore con stampato il marchio della banca per cui lavoro,
piena dei fascicoli sui fondi d’investimento che propongo. Mi
diressi verso la camera e lei era lì. Con gli occhi aperti e
un dolce sorriso. Il mio posto era già stato occupato. Cane e
bambino aspettavano sempre che io mi alzassi. Un bacio al piccolo, una
carezza al cane e, infine, da lei: “Ciao amore! Io vado...”
Un bacio sulla bocca e poi: “Buona giornata, Alfredo”.
Mary
Leela Peverelli è nata in India nel 1975, vive in provincia
di Como. Collabora con il regista Paolo Lipari. Tra i cortometraggi
realizzati, come operatrice al montaggio: “Due dollari al chilo”,
presentato alla 57° Edizione del Festival di Venezia e “La
sera dell’ultima”, vincitore al Festival di Annecy 2004.
Come Leela
Marampudi scrive il racconto “Kamala”, selezionato al
primo concorso “Lo Sguardo dell’Altro” e con Fara
pubblica il romanzo Mal
bianco.
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E vuoti
restare nell’accoglienza
nuove
poesie di Raffaele
Ibba
Ho Lisbona come un sogno di mare
aperto su acque più larghe di queste,
persa in cieli più vasti, amari di Dio, più caldi
come occhio d’uomo che tiene nel cuore
il corpo frutto delle sua donna d’amore.
Ho sempre pensato Lisbona come un pioppo
legato in un sonno, un odiato riposo
drogato di sangue da oscuri tiranni
falsi credenti, ipocriti, menzogni
stillanti sangue e satani
- e la città di sotto s'arrotola di vicoli
che s’incalzano ore scendendo al mare
velocemente, come folaghe di quiete -
E se pure stamani ti sussurro, Lisbona ardua
ai catenacci dei tuoi porti,
alle solitudini dei tuoi stranieri,
alle tue mercantie di sangui carni,
è perchè c'è un sogno di fede
una pietra arrotata di preghiere
un mattone affilato di voci nel vento
e perduto dal tuo terremoto famoso
di città peccato, di città orgoglio,
la protetta da Dio e dalla Maria araba,
tua vicina, e innalzata di cielo
su canti d'amore lunghi di tempo.
Perché Lisbona è azioni amori
aperti nei passati come desideri
di ragazze in corsa di mare:
aquile aguzze di fame
colombe eleganti di gioco.
-----------------
Fiori appesi alle pietre;
campi di grani duri disselciati in fosse;
lenti calabroni di miele, tra i fiori.
Oggi ci crescono languori
in tanto estiva festa del nostro inverno,
meraviglia delle mani, aperta
a solchi di luce, queste staffilate di sole,
a leggeri ronzii anticipi dell’aspre stellare
accampato nel vicinante stare di Dio.
Penetrare, con tutte le fauci del mio cuore,
dentro al ventre del tuo seno per farmi cibo
del tuo darti a me in cibo d’amore.
E così via, vita, vita di vita, larga
nei gialli chiodi delle calendule,
nei consumati voli delle api,
nei sottili sboccare in ghirigori, delle rose.
-----------------
Farsi domande inutili,
asseverare i più noti gradienti di sole,
perforare notti scure di nebbia
con poveri lumini di stoppia;
arrivare senza sapere dove,
senza spengere alcuna luce smorta,
nutrendo di acqua il mare,
abbellendo di fuoco il sole,
dando luce al vento d'aprile che giunge
improvviso e adorna di sale
le risate di carne delle nostre gioie;
disporsi a otre di vino nuovo,
a vasca per dissetare animali e umani,
ad anfora di acqua e negra terra
per raccogliere ori di pietre di luce;
farsi a vuoto
farsi vuoto
farsi di vuoto.
E vuoti restare nell’accoglienza
attesa di ciascuna fame
di tutti i respiri di male
di ogni fremere di bene
attesa dell’incolmabile.
Pronti a schiavi, al legame
catena, alla libertà di ogni cosa
adatta a quel “ti amo”
legata a quel filo di piacere intenso
nel mio sorpreso vedere
e tu,
tu che vieni
a me,
tu.
Raffaele
Ibba è nato nel 1950 a Cagliari, città dove vive e
lavora come insegnante di storia e filosofia nei licei. Si dedica alla
poesia in modo intenso dal 2000, per una sua neccessità intima
di vita e di cuore. Ha pubblicato due libri di poesia con le Edizioni
della Meridiana di Firenze: Il disonore dei canti nel 2003
e La verità bugiarda nel 2006.
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Riflessione
sul brano del Vangelo di Luca 8,1-21
la lectio divina settimanale all’Abbazia di San Miniato
al Monte
di Bernardo
Francesco Maria Gianni (v. anche qui)
Prima di inziare la lectio chiediamo che il Signore ci
disponga ad avere un'intelligenza più profonda della Parola,
per essere strumenti di una comunione più grande con Lui e quindi
di una umanità più piena. Riprendiamo così il testo
del Vangelo di Luca con l'intento di rendere operante quell'intelligenza
del cuore, che è capace di intuire significati ulteriori che
arricchiscono il cammino di tutti noi; perché questo è
il senso dello stare insieme in ascolto della parola di Dio. Luca non
ha una sezione dedicata esclusivamente alle parabole come, ad esempio,
nel caso di Matteo, dove la parabola del seminatore è nel capitolo
13 della sezione denominata «Discorso Parabolico». In Luca,
infatti, la parabola del seminatore è isolata rispetto alle altre
disseminate nel suo vangelo, ed è preceduta dal brano dedicato
alle donne al seguito di Gesù, che non figura negli altri evangelisti:
«In seguito egli se ne andava per le città e villaggi…
annunciando la buona novella… C'erano con lui i Dodici e alcune
donne che erano state guarite da spiriti cattivi e infermità:
Maria di Màgdala… Giovanna, moglie di Cusa, amministratore
di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni»
(cfr Lc 8,1-3).
Per comprendere il processo di formazione della Scrittura e nel nostro
caso il brano di Luca, è da tenere presente che i vangeli traggono
origine dai «fatti» e i «detti» di Gesù
trasmessi dagli apostoli, che li rilessero alla luce dell'evento straordinario
della Pasqua e con la piena conoscenza data loro dallo Spirito Santo
annunziarono il vangelo nella predicazione orale. Le prime comunità
cristiane che si formarono nel mediterraneo ebbero come termine di confronto
l'esperienza di Gesù e nella seconda metà del primo secolo
le tradizioni orali vennero messe per scritto dagli evangelisti. Abbiamo
dunque una triplice prospettiva: quella del Gesù storico rivolto
ai discepoli nella Palestina, quella della predicazione apostolica dei
testimoni oculari, e quella degli evangelisti. I tre strati sono spesso
presenti nei singoli brani e non è facile distinguerli univocamente;
ma nella parabola del seminatore possiamo dire di trovarci a un livello
vicino a quello di Gesù, perchè la parabola è il
tratto specifico nella sua predicazione pubblica, un genere di racconto
per farsi capire bene dall'interlocutore e che permette di cogliere
la ricchezza di significato delle parole dette da Gesù nel contatto
diretto con la folla radunatasi intorno a lui. Le apparenti contraddizioni
che emergono raffrontando i vangeli, si spiegano perciò con l'opera
redazionale degli evangelisti e le necessità delle comunità
per le quali scrivevano.
Un fatto che Luca sottolinea, sconvolgente per quel tempo, è
che Gesù, oltre ai Dodici, si contornava di donne che provvedevano
ai bisogni materiali del gruppo dedito alla diffusione del vangelo;
esse saranno le testimoni della morte e della resurrezione di Cristo.
Riguardo alla parabola del seminatore che Gesù rivolge alla folla
riunita (Lc 8,1-8), può essere importante chiederci quale atteggiamento
dobbiamo assumere nell'ascolto della parola di Dio affinché questa
abbia efficacia nella nostra vita: a Luca, forse, premeva anche questo
aspetto nei confronti della sua comunità che non aveva conosciuto
Gesù. E' anche da tenere presente che quando Gesù si esprimeva
in parabole, usava delle parole e delle immagini che ai suoi contemporanei
dovevano suonare come una risposta a ciò che i profeti avevano
già annunciato: «Ecco, verranno giorni - dice il Signore
- nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà
da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la
giustizia sulla terra… questo sarà il nome con cui lo chiameranno:
Signore-nostra-giustizia.» (cfr Ger 23,5-6). Dove germoglio è
il nome del Messia che Geremia profetizza in un momento disatroso per
Israele: l'esilio, la distruzione di Gerusalemme e il crollo delle speranze.
E ancora il profeta Osea: «E avverrà in quel giorno - oracolo
del Signore - io risponderò al cielo ed esso risponderà
alla terra: la terra risponderà con il grano, il vino nuovo…
Io li seminerò di nuovo…» (cfr Os 2,23-25). È
la promessa di una rinnovata alleanza nel segno dell'amore: quando Gesù
parla, bisogna dunque aprirci incondizionatamente a Lui che è
la novità assoluta.
Nella parabola del seminatore troviamo tutta la dimensione della crescita;
si va dal seme fino al frutto attraverso gli stadi intermedi che possono
arrestarne la crescita, perché il seme caduto nella strada è
calpestato e poi divorato dagli uccelli, per cui non marcisce e non
produce frutto: la parola di Dio giunge all'orecchio ma non scende nel
cuore. Quando il seme trova il terreno sassoso inaridisce e quando trova
il terreno spinoso non arriva a fruttificare perché le spine
lo soffocano. Ma quando il seme cade sulla terra buona germoglia, fruttifica
e produce cento volte tanto. «Detto questo, (Gesù) esclamò:
Chi ha orecchi per intendere, intenda!» (cfr Lc 8,8). Il Signore
Gesù chiama ad ascoltare la sua parola, interpella la nostra
libertà per introdurci ad una intelligenza più profonda.
«I suoi discepoli lo interrogarono sul significato della parabola»
(Lc 8,9). Gesù spiega che il seme è la parola di Dio,
ma il diavolo la porta via dal loro cuore, sede dell'intelligenza e
della volontà secondo l'antropologia biblica. I semi caduti sul
terreno pietroso sono coloro che ricevono con gioia la parola, ma non
hanno radici profonde, hanno fede sul momento ma viene loro a mancare
nel tempo della prova; i semi caduti tra le spine sono coloro che hanno
ascoltato, ma lungo il cammino sono sono sopraffatti dalle preoccupazioni
della vita e non giungono a maturità. La cosa significativa,
nel finale della parabola, è che l'ascolto produce frutto quando
trova un cuore bello e buono e perseverante. Se pensiamo alla nostra
generazione ci accorgiamo che un conto è cogliere l'attimo perché
non si ha certezza del domani e un conto è cogliere il tutto
nel frammento, che è la logica cristiana, in cui il piccolo rimanda
alla totalità.
La dottrina contenuta nella parabola del seminatore è paragonata
ad una luce ben esposta che illumina tutti (Lc 8,16-17). «Fate
attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha sarà
dato, ma a chi non ha sarà tolto anche ciò che crede di
avere» (Lc 8,18). L'ammonimento è rivolto ai discepoli
destinati a diffondere il vangelo che hanno ascoltato da Gesù,
e perciò devono devono coglierne l'esatto significato. Questo
loro sforzo sarà premiato con una conoscenza piena del messagio
evangelico, mentre se non avranno posto attenzione all'insegnamento
di Gesù sarà tolto loro anche ciò che credono di
avere. «Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli…
Gli fu annunziato: Tua madre e i tuoi fratelli… desiderano vederti.
Ma egli rispose: Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano
la parola di Dio e la mettono in pratica» (cfr Lc 8, 19-21). La
risposta di Gesù assume un valore universale e l'evangelista
sottolinea principalmente la parentela spirituale di Gesù; l'episodio
è in un certo senso collegato all'insegnamento della parabola
del seminatore e caratterizza la predicazione di Gesù intesa
come manifestazione della volontà di Dio.
Bernardo
Francesco Maria Gianni è monaco benedittino olivetano dell'Abbazia
di San Miniato al Monte:
Monaci Benedettini di Monte Oliveto
Le Porte Sante, 34
50125 Firenze
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Il povero
professor Emilio
opera in fieri di Luca
Ariano
ad I.
Gli occhiali scuri la mattina presto
per Patrizio sono uno scudo alla sabbia
della notte, all'ansia d'un passo autunnale.
Ti porti sempre la tua aria di sagra
e ravioli d'oca ma quel giro di giostra
un po' stantio l'hai lasciato lì.
I palazzoni delle periferie non sono poi
così diversi nella Metropoli e in quei piani
s'intrecciano note suonate male e l'odore
umido del vento quasi non si sente più.
Teresa per mano ti porta nel suo molo di pescatori,
in una di quelle navi dove è salita,
dove si sentivano le grida di mercato e reti
ancora da sciogliere; parla e ti racconta
la sua storia di piazze e sotto la campana
di strade vuote e rintocchi di lacrime
sono i graffi della lunga notte.
Don Gigi nel suo oratorio di quartiere
un po' di teste le aveva cambiate tra biglietti
anonimi e giornali bruciati ma solo nell'ombra
d'uno sparo le sue preghiere durano l'attimo
d'una notizia alla radio e le stanze si gonfiano
di paura un'altra giornata.
***
Il povero professor Emilio
che stava sempre incollato al telefono,
quasi imbarazzato, è ora uno stillicidio
di chi non sa mai dire di no, d'uno sguardo
troppo buono tornando all'imbrunire.
L'Enrico torna con un treno di tifosi,
uno di quelli che vorrebbe per la sua squadra
decaduta, trama locale d'un filo di ricordi
e il suo amore marino s'è dissolto come il sale
che sputa fuori ad ogni tuffo fuori stagione.
La Rina ha risparmiato una vita,
lei che non pensava di dover più vedere
piani regolatori su cartine di Risiko
e guerre a tavolino, ma lui s'è bevuto tutto
e il fiele s'è ingrossato come il fegato.
Nome di battaglia Volpe se lo ricorda
quando bambino vennero a prendere suo padre
che per le botte sciancato non durò poi molto;
vent'anni dopo sceso in pianura una sera,
i conti li ha sistemati lui con un colpo in testa,
lì dove c'era la tavola apparecchiata ancora calda.
***
ad I.
Eserciti s'affrontano ai limes sguarniti:
orde depredano tra burocrati e ministri
da Basso Evo e dal balcone si sente
la canzone dell'eroe del Rione
benedetto la domenica in confessione.
Il tuo naso semita – forse traccia cromosomica
d'un altra epoca – è il passo di braccianti
da masseria a masseria
quando i briganti aspettavano i Piemontesi
al bivio; le tue mani pulite hanno dita
d'artigiano a risuolare scarpe.
Teresa oggi è chiusa in casa con quel tempo
che non sai più che stagione è:
“Mira mira” il battello che costeggia le isole
con gli ultimi spruzzi di sole
ed è tempo di migrar come bufale
a pascolare su discariche.
Accanto alle scuole in via Toscana dell'Eridania
è rimasto solo lo scheletro e siringhe
tra l'erba dove domani si sposeranno.
Una dose la puoi comprare al Parco Ferrari
e t'immagini un'azione della banda Corbari
prima dell'ultima rappresaglia gridando “W l'Italia!”
***
ad I.
Dal mare sono arrivati guidati da Hasting
e di Luni non sono rimaste che rovine:
funzionari corrotti e ultime scintille
d'una civiltà e quelle preghiere del vescovo
trucidate in piazza.
Ronny – ma forse non è questo il suo nome –
anche oggi si scòfana bistecca di cavallo
e maccheroni al ragù; un'altra giornata
di muscoli in palestra e belle signore
annoiate a lisciargli la barba incolta
da fotomodello. Forse la racconterà al bar.
Teresa luccica come i detriti sulla spiaggia
quando le ruspe spianano la sabbia
e si raccolgono i rifiuti di mano turista.
Lui stringe quella conchiglia e dal faro
nemmeno se lo immagina quante navi hanno visto.
Pietro se le ricordava bene le torture
della Banda Koch – in viale Romagna;
vent'anni dopo in una sera di dolce vita romana,
s'è gettato dalle scale di un casermone
da boom economico tirato su come erbaccia di campo.
***
ad I.
Vito ex partigiano – già allora lo chiamavano
il terùn – ha combattuto
nei GAP ma ora vive col respiratore dieci ore al giorno:
non ci sta più con la testa e ti racconta
che lui lì era di casa... quelli sì sono bravi ragazzi
– non sa di baci e strette di mano cose loro –.
Suo figlio s'è bruciato i polmoni d'Eternit
in trent'anni di cantiere e suo nipote Nino
ti porta in qualche bettola a cenare;
cibi discount – studente fuori sede –
ma poi dal bancomat preleva un'altra serata etilica.
Teresa e fiulin in un caffè un po' chic
paiono usciti da un romanzo francese;
tra le pareti si respira sapore di moka
e fumo di castagne cotte in padella
- quella coi buchi che ti ricorda focolari –
e il tramonto su tangenziale tra pali e fili
brilla anche su cupole e campanili.
Arriva il freddo porco a soffiarti la bocca
di tosse e starnuti e il volo d'uccello
è solo l'arrivederci d'un abbraccio.
***
L'Andrea – sì sempar lù,
quello che si strafogava -
gioca a fare il bell'Antonio, brutta copia
d'un Mastroianni di provincia;
forse per giocare il suo ruolo al bar
o per una morosa mai piaciuta
che non gli fa scordare i pomeriggi soli dalla zia
– perché in Lombardia si lavorava duro –
L'Anna è da quando s'è vista allo specchio
i seni grossi che con spiccio tono di classe
sta scalando piani e fa girare fronti.
Matòc li ammazzava a mani nude tedeschi,
lui che i cinni prendevano a sassate dietro la siepe
e poi giù di corsa a scappare:
gli hanno fracassato il cranio di pietra
una mattina che pedalava già gonfio di Lambrusco.
Il vento che scuote i tetti fa scappare sotto i portici
della vostra Bologna – di quella che non è più –
e gli occhi barluccicano tra salumi
e dolciumi per ricordarsi che si stava peggio.
Via dei Giudei ti porta nel suono sefardita
e quelle urla in notti di retate sono così lontane,
dimenticate in un borseggio o nel passo affrettato
prima di girare la toppa sospirata.
Luigina Bigon
è nata e resiede a Padova. Ha pubblicato Barattare Sogni,
Clessidra 1989; Lucenenèra, Maseratense 1995; Cercando
O, Panda 2001, tradotto in inglese da A. Piazza Nicolai. Ha ideato
e curato la collana «… in versi», pubblicando Camminando
in… versi, Panda 1996; Gelato… in versi, Media
Diffusion 1997; Occhiali in… versi, Panda 1998. Fa parte
del direttivo del "Gruppo letterario Formica Nera" dal 1980.
Nel 1989 ha fondato il "Gruppo Poeti UCAI", sez. di Padova,
il cui intento è quello di promuovere i valori cristiani attraverso
l'arte in tutte le sue espressioni. Ha realizzato, con il contributo
di R. Bettiol, L. Gaddo e M. Ottogalli diverse antologie.
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Selezione da PARTO di
Inês Hoffmann
nella versione in Italiano di Marco
Scalabrino
DISEGNO SBIADITO
La casa non fu mai abitata
da una famiglia.
Per molto tempo
vi dimorarono
quattro sagome
sfigurate,
squartate
dalle stilettate
dell’infelicità.
Si muovevano
incalzati dai pettegolezzi
degli altri,
che da loro s’aspettavano
che fossero normali.
Una famiglia …
La pena
era la ruota del mulino,
che non cessava mai di girare
e arrecare nuova pena.
Quattro solitudini aggregate
nel tentativo di dare contenuto
a una parola:
Famiglia.
Quattro larve
di individui
che mai
sarebbero stati normali.
Mai avrebbero conosciuto
la pace dello spirito,
della quale talvolta leggevano nei libri,
e rimanevano a immaginare
se questa
fosse dormire
per una notte intera
o porre la mano sul saliscendi della porta
senza paventare
ciò che avrebbero trovato dall’altro lato.
O non fosse magari una mano
che coccolava i pezzi
di un cuoricino
impaurito e senza vigore.
Oggi la casa accoglie fantasmi
nelle sue stanze vuote,
corridoio compreso,
e gelate.
Nel silenzio
sembra quasi udire
alcune timide risa
provenienti dal passato,
frammiste a grida e gemiti
di notti di incubo.
Ci saranno stati bambini
in quella casa?
O non piuttosto
adulti
celati in piccoli corpi?
I fantasmi fanno compagnia
ai due superstiti della casa,
ognuno di loro isolato nel proprio cantuccio,
senza parole
senza sguardi
senza carezze
né sorrisi.
Sopravvivono al tempo:
le loro sembianze una brutta copia
imbrattata dalla vita.
Ma le loro anime
e la pace dei loro spiriti,
se mai le incontrarono,
imputridirono
come frutta marcia.
Persistono a ingannare sé stessi
e aspettano così che la Sorella
che li spia
li ghermisca e ponga fine
a quella morte in vita.
PARTO
Dopo avere vagato
cercando tutto e trovando nulla,
dopo essere stata umiliata
e dichiarata pazza
fui bloccata dalle tutele
imposte
al mio corpo
alla mia mente
alla mia vita.
Quindi la pazzia vera
e gli errori mi piegarono,
sprofondai nel baratro
e vissi inebetita
sopraffatta dall’angoscia dell’esistere.
Allora mi sono riscattata
con le mie sole forze
e mi sono concessa
il perdono degli innocenti.
Una volta ritrovata la mia anima
partorirò daccapo me stessa.
DISFATTA
Sedersi.
Abbandonarsi
lasciare scivolare,
colare fino ai piedi,
il cruccio
che sconquassa l’anima,
lo sconforto
che corrode giorno dopo giorno,
il disincanto
che l’esistenza ha impresso
alla vita.
Sciogliere l’anima,
affidare al tempo la vita
affinché essa si riabbia ...
Chiedere al tempo, per un istante,
di tornare indietro.
E interrogarsi:
che fare se si ferma?
Cancellare le nefandezze
rimediare alle pecche
mantenere soltanto l’allegria?
Ci sarebbero dunque solo gioie
se non vi fossero più afflizioni?
Che il tempo riprenda.
Per un attimo
non mi incontri, qui
seduta.
Che mi lasci nel mio quietismo
fino all’ora di alzarmi.
Seduta,
gli occhi nel vuoto
spoglia di pensieri …
Avvertire che non si riconosce
l’entità che è in noi.
Del tempo
non è l’immanenza
che mi assilla,
non sono gli anni
che si assommano
a pesarmi.
Il mio tormento è sapere chi sono.
Il peso che mi opprime
è ciò che non ho fatto,
ciò che non ho raccolto,
che non ho costruito.
Il peso è il vuoto.
Temo di perdermi,
di non ritrovare il varco
di ritorno alla ragione.
Sento che sgattaiolo dal corpo,
dalla coscienza,
che mi spingo fino a un luogo nel quale
non ci sono conseguenze,
non ci sono lotte da ingaggiare,
non è necessario ribattere
per atti inconsulti.
Là sono dissennata e libera.
E se poi non torno?
DANZA MALEDETTA
È nella notte che gli spettri
attraversano i nostri corpi.
È nella notte che le creature inimmaginabili
diventano reali.
È nella notte che i cani latrano.
È nella notte che i demoni attaccano.
Ed è quando i demoni attaccano
che io mi libero.
Metto in libertà le ombre della mia follia
con le loro fisionomie
deformi e dissolute.
Lascio che danzino tutt’intorno a me
la danza maledetta
di coloro il cui senno bazzica la luna.
Lascio che mi trascinino
all’inferno
nel mio corpo malato.
Danzo con loro
la danza degli esseri
senza memoria,
senza intelletto,
senza salvezza.
La danza sfrenata
di chi ha non ha più
ritegno alcuno verso la vita e verso la morte.
Danzo … danzo …
Danzo il furore della pazzia
che consuma la mia mente.
Danzo il supplizio dell’essere cosciente.
Danzo l’onta del ripudio.
Danzo … danzo … danzo fino a cadere
esausta sul pavimento.
DOMINIO
All’orizzonte
cielo sfumato di rosso,
sfera del sole che tramonta.
Imbrunisce lentamente.
Tra gli alberi e i poggi
il sole si eclissa.
E in me
si ridesta l’animale
che mi affligge.
La bestia nera e ributtante
ingabbiata nel mio corpo
vuole fuggire
dileguarsi
nella notte che s’appressa.
Mi dilania
con i suoi artigli,
lacera il mio seno,
le sue ali furibonde
mi stordiscono.
Anch’io vorrei fuggire
varcare la soglia
e correre.
Divaricare lo sterno
affrancare la fiera
che mi fa impazzire,
mi domina.
E così
per ore.
Io a controllare la fiera,
la fiera a cercare di divincolarsi,
fino a che non sopraggiungono
le tenebre della notte.
Nessun vincitore.
Ognuno si arrende all’altro.
Ci apparteniamo …
siamo della medesima essenza,
inseparabili.
E ogni giorno,
a ogni crepuscolo,
la lotta ricomincia ...
fino alla morte.
ASEPSI
Eccomi.
Consegnata nelle mani
di estranei
che vanno e vengono:
osservano
guardano
toccano.
Manipolano
il mio corpo,
il mio polso.
Toccano,
ma non mi inteneriscono.
Mi trattano
come fossi
bambola d’uno straccio di vita,
d’uno straccio di famiglia.
Cencio umano
abbandonato in mani bianche,
camici bianchi,
mura bianche,
affidato all’indolenza
di cure improbabili.
Feccia umana
devastata.
Auscultano il mio cuore,
ma non s’avvedono
che è spezzato.
Tastano il mio polso
ma non percepiscono
il sangue putrido
che scorre nelle vene.
Palpano il mio corpo
ma non scorgono
l’anima morta che alberga in me.
Non immaginano il peso
di questa anima fetida
che si dissolve,
a poco a poco sostituita
dalla alienazione
del mio essere,
della mia mente.
A che pro stare qui?
Marco
Scalabrino è nato a Trapani nel 1952. Poeta
(Palori, 1977; Tempu, palori aschi e maravigghi, 2002),
saggista,
traduttore
ha pubblicato anche commedie in siciliano.
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