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Titolo Faranews
 

FARANEWS
ISSN 15908585

MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE

a cura di Fara Editore

1. Gennaio 2000
Uno strumento

2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa

3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee

4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?

5. Maggio 2000
Il viaggio...

6. Giugno 2000
La realtà della realtà

7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale

8. Agosto 2000
Progetti di pace

9. Settembre 2000
Il racconto fantastico

10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi

11. Novembre 2000
Il mese del ricordo

12. Dicembre 2000
La strada dell'anima

13. Gennaio 2001
Fare il punto

14. Febbraio 2001
Tessere storie

15. Marzo 2001
La densità della parola

16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro

17. Maggio 2001
Specchi senza volto?

18. Giugno 2001
Chi ha più fede?

19. Luglio 2001
Il silenzio

20. Agosto 2001
Sensi rivelati

21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?

22. Ottobre 2001
Parole amicali

23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.

24. Dicembre 2001
Lettere e visioni

25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.

26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere

27. Marzo 2002
Le affinità elettive

28. Aprile 2002
I verbi del guardare

29. Maggio 2002
Le impronte delle parole

30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza

31. Luglio 2002
La terapia della scrittura

32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.

33. Settembre 2002
Parola e identità

34. Ottobre 2002
Tracce ed orme

35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano

36. Dicembre 2002
Finis terrae

37. Gennaio 2003
Quodlibet?

38. Febbraio 2003
No man's land

39. Marzo 2003
Autori e amici

40. Aprile 2003
Futuro presente

41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.

42. Giugno 2003
Poetica

43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?

44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM

45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi

46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario

47. Novembre 2003
Lettere vive

48. Dicembre 2003
Scelte di vita

49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro

51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia

52. Aprile 2004
Preghiere

53. Maggio 2004
La strada ascetica

54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?

55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004

56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso

57. Settembre2004
La politica non è solo economia

58. Ottobre 2004
Varia umanità

59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM

60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali

61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004

62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato

63. Marzo 2005
Concerto semplice

64. Aprile 2005
Stanze e passi

65. Maggio 2005
Il mare di Giona

65.bis Maggio 2005
Una presenza

66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica

67. Luglio 2005
Risvolti vitali

68. Agosto 2005
Letteratura globale

69. Settembre 2005
Parole in volo

70. Ottobre 2005
Un tappo universale

71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare

72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri

73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi

74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada

75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole

76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)

77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"

78. Giugno 2006
Varco vitale

79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero tempo, stabilità, “memoria”

79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006

80. Agosto 2006
Personaggi o autori?

81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?

82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo

83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica

84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?

85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)

86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare

87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”

88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio

89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007

90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”

91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)

92. Agosto 2007
Versi accidentali

93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?

94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…

95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo

96. Dicembre 2007
Il tragico del comico

97. Gennaio 2008
Open year

98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo

99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore





Segnalati e menzionati iiim 2002

 

Viaggio inverso di Alberto Casadei

L'odore del vomito si è fatto disperante. Sto in piedi solo in quanto non c'è modo di cadere, sorretti implacabilmente dai corpi dei vicini, pressati come una carne unica e macerata. Guardo gli occhi di mia figlia, che mi chiedono perché.
Ma non è questo il dolore. Non sono i giorni di navigazione nella coperta di una nave vecchia di secoli, che ha trasportato schiavi per tutto il Mediterraneo. Tanti hanno sofferto più di noi, e nessuno lo ha mai saputo. Il dolore non è nello stare peggio degli altri.
Ho visto cadere mio marito. Era l'ultimo posto di blocco prima del mare, stavamo per lasciare la Turchia, la nostra terra di pietre. La guardia sembrava corrotta e disponibile, come tante prima. Ma quando Salim gli ha voltato le spalle per tornare da noi, e già sorrideva, quello gli ha sparato alla schiena, come viene fatto ai fuggiaschi. È caduto con un'espressione di stupore e ancora un'ombra del sorriso.
Abbiamo urlato, io e mia figlia, stringendoci forte, il mio velo nero la copriva ma i suoi occhi vedevano lo stesso, mentre suo padre moriva dissanguato. Quelle mani, le sue mani mi sembrarono per un attimo stringere la terra. Poi restò fermo, come le pietre intorno. Non urlammo più, anche il pianto era sottile, quasi che il poco di forza che ci rimaneva, dopo settimane di cammino, se ne fosse andato con la nostra voce.
Dovemmo proseguire. Non ci aiutarono gli altri, ognuno bada a salvarsi quando si fugge. File di uomini e donne si muovevano verso il mare, e noi due fummo trascinate, tanto da non poter pensare, o ricordare. Vivemmo guardando la strada, alzando gli occhi per scorgere un luccichio che ci avevano detto avrebbe annunciato il Mediterraneo. Io stringevo la mano di questa mia figlia, per infonderle quel po' di coraggio che le permettesse di arrivare.
E poi arrivammo, e non ci nacque nessuna nuova illusione. La grande nave nel buio della notte era solo la sagoma di una bestia immensa, crudele come il nero, e noi dovevamo entrare nel suo ventre, sfidarla per vivere. Come tanti combattono ogni giorno per non essere preda. Noi due piccole: dentro. Con gli altri, tutti uguali, nella più perfetta uguaglianza che c'è, la miseria di chi a metà della vita non ha più niente. Tutti uguali, tutti schiacciati. Poi chiusero, e fu ancora più buio.
Traversammo un mare che non vedevamo, calmo e ugualmente terribile, costeggiammo isole e terre senza nome per noi, solo le voci dei marinai ce le indicavano, "terra a dritta", ma non era mai quella giusta. Non era mai tempo di arrivare.
E così ci abituammo a non essere altro che carne, a non sperare più nemmeno nella fine. Eppure è così facile morire. La mia bambina forse non sopravviverà. E forse sarà meglio.
Ho sognato di arrivare in una terra bella come niente sulla terra, come il paese delle favole che mi hanno raccontato e che anch’io racconto alla mia bambina, che ci crede, e vede il verde che spunta dal mare, la sabbia come appoggiata sull’acqua, come un dono. E di poterci fermare lì, e di essere felici, perché la felicità del viaggio è l’arrivo. E di…
Il dolore vero è che ho capito che anche questo sforzare all'estremo tutte le nostre fibre e i nostri pensieri, anche questo sarà inutile.
Stanno muovendosi sopra. La nave è ferma da un po'. Apriranno i boccaporti. Vorrei che apparissero degli angeli, e invece vedrò soltanto delle guardie dentro altre divise.

Alberto Casadei è nato a Forlì nel 1963. Si è specializzato in Letteratura italiana presso la Scuola Normale Superiore e l'Università di Pisa dove attualmente insegna come professore associato. Fra le pubblicazioni: La strategia delle varianti (Lucca, Pacini Fazzi, 1988), Prospettive montaliane (Pisa, Giardini, 1992), Il percorso del «Furioso» (Bologna, Il Mulino, 1993: vincitore del premio "Cesare Angelini" 1994), La fine degli incanti (Milano, F. Angeli, 1997), La guerra (Roma-Bari, Laterza,1999). Collabora con il Consorzio interuniversitario ICoN (Italian Culture on the Net) e con le principali riviste di filologia e letteratura italiana. Da tempo si occupa della storia del romanzo contemporaneo: il suo ultimo studio s'intitola Romanzi di Finisterre. Narrazione della guerra e problemi del realismo, e riguarda i romanzi che narrano vicende relative alla II guerra mondiale (vincitore del premio "A. Todaro-Faranda" dell'Università di Bologna, sezione saggistica 1998, pubblicato dall'editore Carocci di Roma nell'aprile 2000). Nel 2001 sono usciti due manuali per la didattica universitaria, La critica letteraria del Novecento (Bologna, il Mulino) e L'italiano all'Università (con Mirko Tavosanis; Milano, Sansoni RCS).

Motivazione della giuria
Nonostante alcune cadute di stile - come l'odore "disperante" del vomito - è un racconto di una indiscutibile ed alta umiltà e sincerità; ci si sente un piglio onesto, la volontà di raccontare qualcosa di indescrivibile, di affrontare comunque questa indescrivibilità e con apprezzabili risultati.
C'è scritto: "E poi arrivammo, e non ci nacque nessuna nuova illusione" e basterebbe. Leggerlo, è come ascoltare un amico.

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Il coltello di Barbara Serdakowski

Non avrei mai potuto prevedere quello che sarebbe successo. L'aria era sudicia, si vedevano distintamente le molecole e la polvere aleggiare nei raggi di sole ocra. I muri, grigi e porosi, portavano le sbavature notturne degli uomini e dei cani. La gente drappeggiata in vesti dalle larghe falde predominantemente beige o blu, si spintonava febbrilmente. Le loro invocazioni modulate ed ininterrotte avevano un ritmo ed un senso che mi sfuggiva quasi interamente. Era forse vero che avevo l'aria persa, qui, con i miei capelli gialli, la mia aria di altrove e i miei vestiti troppo al corpo. Alzai la mano istintivamente, come a scuola per avere il diritto di parlare. Il mio braccio mi serviva d'ombrella, di punto fisso, di guida da seguire nella folla.
Forse se non avessi avuto gli occhi verdi, forse se avessi tenuto l'ascella chiusa… Il bambino si avvicinò rapidamente, lo guardai, intenerita, pronta a dargli qualche spicciolo. Ma lui, con gesti precisi, senza alcun preavviso e soprattutto senza la minima esitazione, piantò un coltello, uscito dal nulla, nel mio braccio alzato. Incredula, lanciai un'imprecazione rauca e il ragazzino scomparve con un'aria cattiva sul visino concentrato. Le monete, già pronte nella mia tasca, affondarono precipitosamente come la lama scintillante nella mia carne. Rivedevo il ragazzino, il suo viso franco, i suoi contorni netti, i suoi piccoli occhi gialli, perforanti ed il suo alito a tanfo di colla.
Da lontano aveva avuto l'aria di un bambino spensierato, anche abbastanza disinvolto con la sua andatura insolente, il suo mento acuto… Ma in lui, l'infanzia non aveva alcun senso, era ad uno stato latente, sopraffatta. Nella strada quest'infanzia non voleva dir altro che essere più piccoli degli altri. Sì, adesso che ci pensavo bene, ci eravamo riconosciuti da lontano, attratti come due poli. Lui aveva ubbidito ad un impulso. Aveva preso il tempo di sentire e di vedere la lama penetrare la pelle e poi, come al rallentatore, i suoi occhi si erano legati ai miei, un istante, per vedere l'effetto causato. Un colpo di coltello, così, in pieno giorno, in piena strada, in piena quotidianità, nella mano di quel piccolo d'uomo, e poi il sangue liberatorio.
Colò sul mio braccio come del succo di pesca rovesciato da una mano esasperata. Opaco, spesso, immediato. Le gocce fuoriuscivano rapide come i passi del ragazzo testardo che scappava, agile e silenzioso lungo i marciapiedi, tra i passanti che si rigiravano con disapprovazione perché correva con le mani avanti e respingeva con convinzione tutto quello che gli intralciava il cammino.
Un attimo di caldo intenso, aloni di sole movente, un asfalto che non reggeva più il mio passo ed ancora la colata untuosa sul mio braccio pulsante.
Sul marciapiede, adesso ero lui e correvo ubriaca d'impeto, ricca del mio coltello dalla punta rossa, intinta. Non avrebbe mai dovuto guardarmi così. L'ha ben meritato! Ma no, è certo, lui non pensava tutto questo, non poteva pensare a niente, la sua rabbia encore bollente, la mano ancora tesa, il suo coltello ben nascosto in fondo alle tasche come io nascondevo le monete. Non pensava più a me, era adesso un uccellino libero e fremente. Per questa lunga corsa era carico d'aria senza fiato, correva sfrenato, colmo, obliterato. Senza pensare che avrebbe dovuto ben presto tornare al capannone e che non aveva mendicato abbastanza soldi. Oggi Idris lo avrebbe picchiato di nuovo ma lui gli avrebbe fatto vedere il sangue sul coltello, lo avrebbe convinto che gli avevano rubato i soldi ma che era riuscito a ferire il ladro al viso. Che domani lo avrebbe ritrovato, che avrebbe ripreso tutto, di non preoccuparsi. Passando strappo' un paio di pantaloni appesi tra la biancheria che pendeva su un filo di metallo arrugginito tra due pali di legno. Forse a Idris, sarebbero piaciuti.
Io misi la mano sul taglio, le labbra dell'apertura erano fredde, sentivo un male atroce invadermi fino ai pori. Dovevo seguirlo adesso, il sangue sulla punta del coltello mi chiamava, sentivo un bisogno imperativo di alzarmi e di raggiungerlo. Passo dopo passo seguii il mio sangue, lungo le stradine, tra i bidoni e i depositi, vicino al porto e dietro i mercati. Il mio braccio teso e la mente annuvolata… il richiamo del sangue era forte.
Camminavo, correvo, e sempre il flusso appiccicoso che stillava dal mio braccio. Stradine che seguii senza indecisione, corti, vicoli bordati di miseria, donne dalle dita grosse, sguardi scrutatori o sfuggenti, bambini senza mutande, carta giornale tinta d'escrementi, contenitori di plastica, lattine, siringhe e preservativi. L'essenza stessa dell'umanità, la mia, perché adesso, con il mio sangue tra le dita appartenevo, con lo sguardo allibito, i vestiti disfatti, il sudore sporco sulla fronte e i tratti contratti di dolore potevo passare, ero accettata. Nessuno avrebbe pensato a rubarmi la borsa, alzarmi la gonna, ridere di me o abbassare la voce sul mio passaggio. Passai inosservata tra loro. Non erano dunque i miei capelli gialli o gli occhi verdi, era l'assenza di dolore che aveva attirato il coltello.
Un grido, una commozione, pianti e colpi. Avevo trovato il mio aggressore. Avevo seguito e ritrovato il mio sangue. Era disteso per terra, in una scatola di cartone disfatta, accovacciato, piccolissimo, molle e bianco. Mi avvicinai al suo viso tumefatto. Le lacrime si prosciugarono alla mia sola vista, il corpicino reagì, ma non riuscì a perdere così presto il labbro gonfio di bambino arrabbiato.
- Il a pris mon couteau*…
- Non piangere, te ne comprò un altro.

* Ha preso il mio coltello

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Un salto nel buio di Gabriele Astolfi

Frino non aveva scuse, sapeva come sarebbe andata a finire ancora prima di cominciare.
Fin dall’inizio avrebbe potuto tirarsi indietro, troncare sul nascere l’impulso che l’aveva spinto sull’orlo dell’abisso. Persino un istante fa, quando aveva affrontato, gradino dopo gradino, la scala più lunga della sua vita. Sapeva che, arrivato in cima, sarebbe venuto il momento di scendere. Di scendere senza prendere le scale.
Se la portava dentro da giorni, quella spina di carne, come una cisti maligna, che dopo essere stata covata e nutrita, non chiedeva che di essere recisa. Perché questa è la natura di certe escrescenze, nutrirsi per poi morire.
E il momento era venuto, l’attesa era finita. Con tutti di sotto a domandarsi se chi era stato capace di un tale passo avrebbe avuto il fegato di continuare col secondo. E a gridargli di ripensarci, di lasciar perdere. Ma lui sarebbe andato avanti.
Soprattutto, cosa a cui teneva quanto a nessun’altra, non sarebbe passato da vigliacco col fratello, che, sorrisino in bocca, l’aveva messo in guardia dall’imbarcarsi in simili imprese. Dal fare, guarda un po’, certi salti nel buio.
- Se vai lassù, lo sai, poi devi buttarti - l’aveva avvertito. - La gente si aspetta che tu faccia ciò per cui sei salito. Magari ti dice il contrario, ma in realtà vuole che tu quel balzo lo spicchi eccome. Che figura ci fai se ti tiri indietro? Dammi retta, non salire. Se però sali, poi devi buttarti.
Da quando in qua i fratelli minori danno consigli ai maggiori?
Semmai il contrario.
Frino di consigli non ne dava; non era abbastanza in gamba. Non aveva la stoffa, e perciò non poteva far da maestro. Sarebbe stato come chiedere di vino a un astemio, o di sesso a un eunuco. La stoffa, se uno non ce l’ha, non se la può dare, il fegato nemmeno.
Ma stavolta avrebbe preso per mano il suo destino.
Però doveva decidersi. Più indugiava e più montava la paura, e più era difficile buttarsi. L’attesa del coraggio necessario a lanciarsi nel vuoto gli stava asciugando il sangue. A quelli di sotto sembrava invece aver asciugato il cuore. Infatti ora, accanto ai due o tre che continuavano a urlargli di rientrare in sé e tornare indietro, la maggioranza gli gridava di gettarsi, di farla finita, che aveva rotto. Era chiaro che andavano di fretta, ognuno coi propri impegni, e dabbasso, per colpa sua, era tutto bloccato.
Il coraggio però continuava a farsi attendere. E, di conseguenza, a venir meno sempre di più la pazienza della platea ai suoi piedi.
A un certo tratto il cristo in bilico s’accorse che qualcuno stava salendo. Lo venivano a prendere. A quel punto si decise. Fece un passo in avanti e abbracciò il cielo, e dopo un istante senza fine fu preso nella morsa del gelido abbraccio.
Quando riemerse dall’acqua Frino vide la platea che gli inveiva contro bagnata fradicia. Mentre aspettava che si tuffasse dal trampolino più alto s’era avvicinata alla piscina, apostrofandolo e schernendolo perché si decidesse. Quel tuffo a gambe larghe, ultima prova, sia pur non obbligatoria, ma a cui non aveva voluto sottrarsi, del corso di nuoto a cui s’era iscritto col fratello aveva fatto il resto. Risultato, innaffiata fuori programma per i compagni di corso che, ormai asciutti, erano saliti sul bordo della piscina certi che non si sarebbe mai tuffato, e degli iscritti all’ora successiva che, parimenti asciutti e con la stessa certezza, non vedevano l’ora di cominciare la lezione.
Frino però ce l’aveva fatta a vincere la paura del vuoto. L’attesa del salto, per lui, non era stata vana.

Gabriele Astolfi è nato nel '55 a Bologna. Lavora in banca e recita in una compagnia dialettale. Ha scritto una raccolta di racconti (due pubblicati nella rivista «Inchiostro»), un romanzo e un'opera in dialetto. Sta scrivendo un romanzo.

Motivazioni della giuria
Un racconto che sa creare suspence, che è la stessa per grandi tragedie e piccoli avvenimenti.


Silvana Mangano di Massimo Zaina

L'avevo conosciuta qualche mese prima, in un bar del centro.
Quella domenica sembrava una come tante altre. Vermut al sole in Plaza Olavide sfogliando l'edizione domenicale del Pais ed un paio di cani che si annusavano i culi gironzolando fra i tavolini modello Martini. Era bello passare le domeniche mattina nella piazza. Solitamente mi svegliavo verso le undici e scendevo al bar di Rodrigo. Ci passavo diverse ore, faccia al sole e mente serena.
Il bar di Rodrigo non sarebbe piaciuto ad Hemingway, probabilmente l'avrebbe trovato sporco e non abbastanza all'altezza del personaggio però a mi me dava igual ! Era da molto che avevo lasciato perdere il bluff Ernesto, quel posto mi piaceva e trovavo incredibilmente rilassante il sedersi li. Ci scendevo alla mattina e vi rimanevo fino al pomeriggio inoltrato. Leggevo di come andavano le cose nel mondo. Leggevo dei massacri in Algeria, di negri condannati a morte negli Stati uniti, leggevo delle donne bruciate vive da mariti gelosi in Spagna, leggevo di tutto e mi toglievo il sapore amaro a forza di vermut, uno dopo l'altro. Avevo un range di dieci morti a vermut e me ne andavo solamente quando le parole iniziavano ad impastarmisi nella bocca. Per allora solitamente avevo già letto tutto il fottuto giornale compresi gli annunci economici e Rodrigo m'aveva offerto un paio d'ultimi vermut che non avevano bisogno di una carneficina per esser bevuti.
Alcune volte mi chiedevo se non avessi potuto concretizzare qualcosa in quelle domeniche, se non avessi dovuto fare qualcosa di utile ma i dubbi duravano giusto il momento in cui me li formulavo. Rapidamente svanivano nella convinzione che quella fosse la migliore maniera di comportarmi. Il non stressarsi nel giorno dedicato al riposo ed al Signore era la migliore maniera per rendergli grazie, specialmente in Spagna, figlia prediletta della Santa Madre Chiesa. Sicuramente l'ubriacarmi ed il dormirci su era la via più sicura per arrivare al paradiso.
Quella Piazza era uno spazio in terra battuta dove bambini giocavano a pallone o si rincorrevano sotto lo sguardo paziente dei genitori mentre cameriere con gigantesche tette modello Ispano sculettavano fra i tavolini sostituendo i cadaveri con dei nuovi bicchieri traboccanti d'energia e linfa vitale. Manteneva intatta la sua essenza Spagnola minimo fino alle cinque ed il sole la impregnava di una libido che non mancava di far sentire i suoi effetti ai cani che s'annusavano reciprocamente il culo, ai vecchi che guardavano le gambe delle ninfe sedute sui motorini o alle mammine in calore che scendevano nell'arena a cercare quello che probabilmente non trovavano sotto al tetto coniugale.
Da parte mia io rimanevo seduto al tavolino del bar fino a quando il sole scendeva dietro all'hotel Niagara.
Stavo leggendo Terenci Moix, il Catalano. Stavo leggendolo all'ombra di un ramo che pochi giorni dopo si sarebbe rotto cadendo in testa a una mezza dozzina di vecchie signore che s'erano radunate nella piazza mandandone un paio all'ospedale. Dovevo essere già al quinto o sesto vermut e cercavo qualche altra decina di morti qua o la. Sicuro che a ben cercare qualcosa avrei trovato: qualche traghetto con 500 persone inabissatosi in India, un massacro di civili in Cechenia... El Pais non si faceva pregare a fornirmi statistiche o notizie d'ultima ora.
Quando vidi le gambe della tizia che s'era seduta davanti a me lasciai perdere il numero delle salme e mi concentrai sulle forme umane. Quelle gambe non dovevano aver camminato più di 30 anni, probabilmente anche meno. Erano avvolte da un collant rosso e terminavano esattamente dove iniziava una gonna rossa che non lasciava molto all'immaginazione.
Non volevo alzare lo sguardo, sicuro che la tizia m'aveva beccato che la squadravo e non volevo sembrare il pirla del quartiere. Tentai di ritornare ai miei cadaveri però era difficile. Ripresi ad osservare le gambe sovrappostesi l'una all'altra. Il piede destro dondolava. Ero sicuro che la proprietaria delle gambe mi stesse guadando.
Alzai lo sguardo.
La tipa mi stava guardando.
- Sei del quartiere? - mi chiese.
- Non proprio - risposi - a meno che tu non definisca quartiere i 2000 chilometri che separano Madrid dal Friuli.
La tipa non sembrò capire. Probabilmente non era molto sveglia però l'avevo dato per scontato. Avevo trent'anni e dovevo ancora trovare una tizia che oltre ad essere desiderabile ed attrattiva fosse pure sveglia.
Aveva delle tette enormi e dei capelli stile anni '50, lunghi e pettinati all'indietro. A parte la corta gonna rossa indossava una camicetta di cotone bianco sbottonata fino all'attaccatura del seno e sembrava sprigionare sensualità da tutti i pori.
- No, no - le risposi - non sono del quartiere, sono Italiano.
- Mi piacciono gli Italiani.
- Mi fa piacere - risposi.
- Davvero - aggiunse - adoro l'Italia.
- Ci sei stata qualche volta?
- Mai.
- Ah.
Rimanemmo a parlare circa mezz'ora, poi ci alzammo ed andammo a casa mia.
Non sembrava molto refrattaria a stringere rapporti con perfetti sconosciuti.
Arrivati, le dissi che probabilmente la casa avrebbe puzzato di gatto. Vivevo con due tizi: uno aveva una gatta e l'altro un gatto. Gli animali vivevano nel corridoio e i tipi avevano sistemata una cassa piena di sabbia mischiata a merda esattamente all'entrata, proprio di fronte alla mia porta. Tutto il corridoio sapeva di merda di gatto ed io non potevo dire nulla, ero in minoranza.
- La casa sa di merda di gatto - le dissi per prepararla.
- Non preoccuparti - rispose - anch'io ho un gatto.
Quando entrammo puzzava più del solito.
- Dio mio, che odore.
I gatti avevano raspato e ravanato nella sabbia della cassa spargendola in giro. Praticamente camminavamo sulla sabbia e sulla merda dei gatti. C'erano due piatti di mangime rovesciati ed una bacinella piena d'acqua infetta dalla quale i gatti non avevano bevuto mai. Preferivano attaccarsi al rubinetto della vasca di bagno e ciucciare l'acqua direttamente dalla tubature.
Entrammo in camera mia. Solitamente era un caos però da poco avevo comperato un contenitore per la biancheria sporca e questo era stato un gran salto in avanti nella mia igiene personale. Avevo anche comperato un deodorante di quelli che s'attaccano alla corrente elettrica e da allora la stanza aveva smesso d'odorare di morto profumando di pino silvestre.
- Che buon odore - disse la ragazza chiudendo la porta alle sue spalle.
- Pino silvestre, baby - le risposi. - È per controbilanciare la puzza di merda dei gatti.
Si sedette su letto ed io andai in cucina a prepararle un Cuba libre.
- Non ho Havana 3 - le dissi - dovrai accontentarti di Negrita.
Aprii la porta del frigo e tolsi dal congelatore in alto dei blocchi di ghiaccio. Li passai velocemente sotto all'acqua del rubinetto per togliergli l'odore di frigo e li gettai in un paio di bicchieri rubati ad un Pub Irlandese vicino a casa. Spremetti un po’ di limone sfregandolo attorno al orlo del bicchiere e quindi vi aggiunsi un po’ di zucchero.
Ritornai nella stanza.
- Spero ti piaccia - le dissi porgendole un bicchiere.
Era ancora seduta sul letto, aveva preso un paio di cose che avevo scritto e stava tentando di leggerle.
- Questa roba la scrivi tu?
- Sì - risposi.
- Non scrivi in Castellano?
- No - risposi. - Non saprei scendere nei particolari con la stessa forza con cui posso farlo in Italiano.
- Ah - rispose senza probabilmente aver capito nulla.
- Cin cin - aggiunse alzando il bicchiere.
- Viva - risposi.
Si tolse le scarpe e tirò su le gambe sedendocisi sopra. Sembrava Silvana Mangano in Riso Amaro, o almeno mi pareva, visto che non avevo mai visto quel film.
- Hai la ragazza - mi chiese?
- Ne avevo una - risposi - però credo che alla fine abbia capito che le cose le sarebbero andate meglio senza di me.
Le misi una mano sulla coscia e giocai con l'elastico del collant.
- Sei uno scrittore - chiese?
- No - risposi. - Mi piacerebbe esserlo però non lo sono.
- Perché?
- Dovrei scrivere di più, suppongo.
Guardò un racconto a cui stavo lavorando, un racconto su un bar Blues.
- L'hai scritta tu quella roba - chiese.
- Sì.
- Dio, io non sarei capace di scrivere tutta quella roba neppure se vivessi 100 anni - disse.
Non avevo dubbi.
- Non è così difficile come sembra - le risposi. - Bisogna solamente mettersi lì e scrivere, alla fine se sai dove vuoi arrivare, le cose ti vengono fuori in un modo o in un altro.
-Sei il primo scrittore che conosco.
- Non sono uno scrittore - ripetei dando un buon sorso al mio Cuba libre.
Si alzò dal letto e mi chiese se poteva andare in bagno.
- Accomodati.
Lasciò il Cuba Libre sul pavimento ed andò in bagno. Ne approfittai per farmene un altro. Ritornai in cucina e vidi che non c'era più ghiaccio.
- Scendo al bar a prendere del ghiaccio - le urlai.
- Va bene - rispose dal bagno.
Scesi al bar e chiesi un po’ di ghiaccio. Conoscevo il tipo del bancone.
- Chi è quella che ti sei portata su? - mi chiese.
Rimasi sorpreso.
- Quale - risposi.
- Ti ho visto passare con una tipa con tette da 100 ed una gonna rossa. Ho visto che te la stavi portando su.
- È un orfana del Kossovo - risposi.
Presi il ghiaccio ed uscii.
Risalii in casa ed andai in cucina, misi un paio di cubetti di ghiaccio nel bicchiere ed incastrai la borsa nel congelatore. Coprii il ghiaccio del bicchiere con Rum e c'aggiunsi della Coca Cola e della spremuta di limone mischiata con dello zucchero.
Rientrai in camera.
La tizia stava distesa a letto, s'era tolta la camicia rimanendo in reggiseno. Era un reggiseno in pizzo rosso e lei aveva delle tette enormi. Mi chiesi se fossero operate.
- Lo so a cosa stai pensando - disse.
- See.
- Credi che io sia una tipa facile, credi che potresti scoparmi solo perché sono salita a casa tua.
Era esattamente quello che pensavo però non credevo volesse saperlo veramente. Bevetti un sorso di Cuba libre e vidi che lei aveva già finito il suo.
- Ne vuoi un altro? - chiesi.
- Vuoi ubriacarmi per scoparmi, vero?
E dai! Che mania, ostia. Scoparmi di qua, scoparmi di là e non le avevo visto ancora un pelo.
- No - risposi. - Volevo solamente essere gentile".
- Tutti voi uomini volete essere gentili solamente per scopare.
Ero completamente d'accordo. Bevetti il mio Cuba Libre e le sedetti di fronte.
- Com'è che uno scrittore come te non mi chiede nulla?
- Non sono uno scrittore - ripetei.
- E come cazzo potresti esserlo se non ti rendi conto che hai di fronte a te una possibile storia?
- Non mi interessano le possibili storie.
- E di cosa scrivi, allora.
- Suppongo di quello che mi viene in mente.
Si guardò in giro.
- C'è una puzza orribile nel bagno - disse - puzza orribilmente di merda di gatto, come fai a vivere con una puzza così terribile. È necessario al tuo ego di scrittore vivere in una casa così bohemia?
Rimasi sorpreso dai termini che aveva usato.
- Semplicemente non ho soldi per cercarmi un altro posto.
- Se tu fossi un vero scrittore i soldi ce li avresti - disse.
- Già - risposi.
- Probabilmente è vero che non vali nulla come scrittore - disse.
- Probabile.
- Anche se io avessi una storia da dirti che ti farebbe diventare milionario non te la direi perché è sicuro che saresti capace di rovinarla - aggiunse.
Mi alzai dalla sedia e mi sedetti sul letto vicino a lei.
- Non ti racconterei nulla neppure se mi implorassi.
Le misi la mano destra sul reggiseno e le presi una tetta fra le mani. Non sembravano operate.
- Credevi mi fossi operata?
- Mi sembrava.
Si tolse il reggiseno e rimase con quelle tette all'aria. Sembravano sfidare la legge di gravità. Rimase con le tette all'aria e con la gonna rossa.
- Ti sembravano operate?
Le misi le mani sulle tette, una sulla destra e l'altra sulla sinistra. Non riuscivo a coprirle, c'era un mucchio di carne soda che usciva da entrambi i lati.
- Non hai nulla da bere che non sia Rum - chiese.
- Tipo?
- Della birra, per esempio.
Birra. Disse che le sarebbe piaciuto bere della birra. Che le sarebbe piaciuto bere qualcosa di fresco e che non fosse un superalcolico.I superalcolici non li reggeva e non voleva ubriacarsi in casa di uno sconosciuto.
Scesi nuovamente al bar e comperai due confezioni da sei di birra San Miguel. Non era gran che però era quella che vendevano nel bar.
- Ti sei portata Silvana Mangano in casa, Italiano - mi disse il cameriere.
- Non ho visto il film.
- Non importa - rispose. - Lei ce l'hai in casa.
- Mmmmm.
Pagai ed uscii ritornando dove vivevo. Andai in cucina e misi le birre nel frigo. Non c'erano problemi di spazio, quel frigo era sempre vuoto.
Ritornai nella stanza con un paio di birre.
Si era rimesso il reggiseno e stava sdraiata a letto. Stava tentando di leggere qualcosa di quello che avevo scritto.
- Mi piacerebbe riuscire a capire l'Italiano - disse. - Non dev'essere tanto difficile.
- Provaci - le risposi passandole una birra.
Finii d'un sorso il mio Cuba Libre e quindi aprii la lattina.
-Salute.
- Cin Cin.
Bevve la lattina tutta d'un sorso.
Ritornai alla cucina e ne presi altre due. Ne aprii una e gliela porsi. La bevve a metà.
- È quello che ci voleva - disse. - Vado pazza per la birra.
- L'ho notato - risposi.
- Sai perché mi piacciono gli Italiani? - chiese.
- No - le risposi.
- Una volta ho avuto una parte in un film Italiano.
Sperai non arrivasse dove sembrava voler arrivare.
- Non vado al cinema - le dissi.
- Ma probabilmente m'avrai visto in qualche fotografia.
- Può darsi - risposi.
Non volevo si spingesse oltre, non avevo nessun interesse a saper che m'ero portato in casa una tizia che si credeva Silvana Mangano.
- Il film si chiamava Riso Amaro.
- Ahh.
Detti un sorso prolungato alla birra.
Mi guardò sorridendo.
- Davvero non sai chi sono? - chiese.
La guardai.
- Lasciami indovinare.
Feci finta di guardarla meglio.
- Dio mio - aggiunsi quindi. - Come ho fatto a non accorgermene prima.
La ragazza sorrideva annuendo per incitarmi a che dicessi quel nome.
- Silvana - esclamai. - Silvana Mangano.
Annuì. Bevve un altro sorso di birra ed annuì sorridendo. Sembrava soddisfatta che l'avessi riconosciuta. Il fatto che la vera Silvana Mangano dov'essere esser morta da vent'anni non sembrava causarle il minimo problema.
Si alzò in piedi e si tolse nuovamente il reggiseno rimanendomi di fronte con quelle stupende tette. Si tolse la gonna e vidi che non portava le mutande.
- Ti piacerebbe scoparti Silvana Mangano - mi chiese?
Misi la lattina sul pavimento, la presi attorno alla vita e la alzai deponendola nuovamente sul letto. Mi tolsi i pantaloni rimanendo in mutande ed infine mi tolsi anche quelle.
- Sì - le risposi.
Le misi le mani sulle tette ed iniziai a pomparla pensando che mi stavo scopando Silvana Mangano, una diva del cinema Italiano degli anni '50. Quando venni mi dissi che in fondo avrei dovuto far venire pure lei però era troppo stanco per rimettermi al lavoro. Rotolai giù e rimasi a guardare il soffitto chiedendomi se era normale che in Aprile facesse già così caldo.

Massimo Zaina è nato in Friuli nel 1964. Laureatosi in Architettura a Venezia si è poi specializzato alla Escuela Técnica Superior de Madrid, città dove attualmente vive e lavora.

Motivazioni della giuria

Una storia ammiccante e scanzonata che con misura sa raccontare una situazione "ideale" da un punto di vista tipicamente maschile, per riderci su, magari un po' "amaramente".

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Poesia per la fine di un secolo di Rita Garzettti Chianese

La mia bambina mi ha chiesto un sito,
“Mamma, voglio fare un sito!”
lei non sa leggere
non sa scrivere
ama giocare.
Accende il computer da sola,
mi fa arrabbiare,
“Mamma, voglio vedere i siti!”
Un secolo fa
bambini come lei
dicevano “Voi” ai genitori,
scrivevano con il pennino,
leggevano sotto il lume.
Alice salta sulle mie ginocchia,
vuole schiacciare i tasti,
“Mamma, fammi giocare con i siti!”
Un secolo fa
bambini come lei
giocavano con la scopa fingendola cavallo
e alla sera si addormentavano senza televisione.

Rita Garzetti Chianese vive a Novara.

Motivazioni della giuria
Riflessione sui nostri tempi e sulle accelerazioni che viviamo condotta attraverso una semplice proiezione generazionale che presenta la forza e l'evidenza di un ragionamento quotidiano, pur con la leggerezza della poesia.

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Opere menzionate

Primavera a Jenin di Roberto Pasquali

Si era detto mai più caino
Nella lingua dei fratelli
E oggi la morte banchetta tra le macerie
E appesta con la sua immagine le nostre tavole imbandite
Il popolo eletto non riconosce l’umile segno della pace
Si guarda allo specchio e vede solo passato
Stelle gialle e notti di orrore
Mentre i suoi figli marciano nel sangue
Negli occhi la paura il vuoto della notte
Difficile capire l’ostentata follia del mio e del tuo
Nello spazio diviso nella cieca potenza
Senz’acqua le ferite bruciate nell’odio
Senza voce le madri a sostenere il cielo
Dov’è il futuro di chi uccide il presente?
Mi guardo osservare una rosa
La sua sfacciata fioritura

(maggio 2002)

Roberto Pasquali, nato a Bologna, organizza laboratori di poesia all’interno di alcune scuole elementari e medie di Firenze, Bologna e della provincia di Grosseto. Collabora con riviste italiane e straniere in qualità di traduttore di poesia ispanoamericana. Ha organizzato e promosso iniziative culturali presso centri d’Arte di Bologna, in particolare rassegne dedicate alla salute all’ambiente e all’educazione, tra le quali la rassegna estiva svoltasi presso Villa delle Rose nell’ambito di “Bologna Sogna 1993”. È statopubblicato su riviste italiane e straniere.

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91-BAR di Costantino Loprete

Chi non ama la natura non può amare. Da tempo, riusciamo fare a meno di scontrarci con bestie feroci per sopravvivere, anzi abbiamo cominciato a proteggerle controllandone le abitudini di vita selvatiche e circoscrivendo aree e territori protetti destinati alla coesistenza equilibrata di diverse specie.
Purtroppo, esiste una specie umana, che è di certo in via di estinzione, che si procura materialmente del male, non per le solite questioni di soldi o di donne.
Uno di questi individui, diciamo pure esotici è Tony. Non ha mai avuto problemi con la giustizia.
Tuttavia fuma, roba che si procura da un pusher, Mario, per niente sconosciuto alla polizia locale.
Tra esseri umani, molti lo pensano, dovremmo tentare di non farci del male, anche se in tanti, avendo vissuto abbastanza sentono senza dubbio di amare di più le bestie.
Se Tony non fosse stato considerato, non dico selvatico - in fondo un po' selvatici lo siamo tutti - ma proprio un selvaggio, forse adesso sarebbe ancora in vita.
Da quando conosce Mario tutte le sere le passa al 91-BAR. Chiacchiera poco. Guarda un po' di TV, gioca, mentre beve un W.T., il solito whisky on the rocks. Ha un buon lavoro, è solo ma non si lamenta.
A vederlo così solo, si può pensare di tutto - un po' matto, un po' artista, esotico appunto, ma che si trattasse di un tipo capace di sputtanarti alla polizia, questo nessuno lo avrebbe mai pensato. A questo punto qualcuno può arguire il motivo della sua morte. E invece no. Diciamo pure che si è suicidato.
Quella del 91-BAR è la zona franca per lo spaccio di fumo. Tony è qui tutte le sere - compra raramente, fuma poco e sempre da solo.
In quanto a Mario anche lui è qui tutte le sere, per i suoi motivi ovviamente. La cosa che deve essergli apparsa strana è che lo beccavano e requisivano tutte le volte che vendeva del fumo a Tony. Questo cominciò a procurargli, diciamo pure, una certa paranoia. Cominciò a maltrattarlo, quasi per scherzo. Tony lo capiva.
Purtroppo, le coincidenze sembravano giocare a loro sfavore. L'ultima volta che Tony comprò del fumo, diedero qualche tiro insieme - lo abbiamo visto tutti. La notte stessa, la polizia perquisisce e arresta Mario. Dopo una settimana, era tarda sera, lo hanno visto già strafatto, avvicinarsi minaccioso al suo cliente, che dalla strada, stava raggiungendo il bar.
Tony riesce a togliergli un grosso coltello dalla mano, e comincia a urlare, 'mi uccido, mi uccido'. Lo abbiamo visto e sentito tutti. Si è piantato il coltello in gola e si è ucciso. Poco dopo l'ambulanza se lo è portato via. Suicidio. Noi tutti, sappiamo, che Mario ha tentato di salvarlo.
Probabilmente, la polizia li seguiva entrambi. Il motivo per cui avessero puntato proprio su Tony era evidente: una pedina sicura. Quando Tony comprava la roba era in giro. Era l'unico selvatico tra noi, esotico, certamente in via di estinzione. Non aveva nessun parente e non ha voluto rovinare un altro selvatico, il suo pusher.
Deve essere andata proprio così, sono il suo barman e qui al 91, l'ho conoscevo meglio di tutti.

Costantino Loprete vive a Salerno. È docente di scuola media superiore.


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Fuga da Bomoref di Pietro Santi

L’allarme risuonava intermittente lungo i corridoi metallici resi spettrali dalle luci rosse e viola dell’emergenza livello 5, mentre i robot “cerca-matti” cozzavano impazziti fra nugoli di scintille incandescenti e squittii elettronici. Potr ce l’aveva fatta, complice una tempesta magnetico-solare che aveva reso momentaneamente inutilizzabili i sistemi contenitivi automatici del Centro Antidepressivo Integrale della megalopoli di Bomoref.
Certo aveva dovuto corrompere gli unici due guardiani umani con 60 milioni di europ provenienti dalla cospicua eredità della nonna passata alle camere di ibernazione di Scat alla età di 179 anni.
Arrivato in superficie con il sollevatore gravitazionale di servizio si rese conto imprecando che era notte fonda e questo significava un problema in più, visto che a Bomoref oramai la vita si svolgeva quasi esclusivamente di notte. Al Centro Antidepressivo gli avevano proprio fatto perdere la cognizione temporale pensò Potr mentre osservava con disgusto il paesaggio urbano composto di un’alternanza di palazzi verdi-rosa alti alcune centinaia di metri collegati fra loro da una ragnatela di ovovie su cavo, e lunghi serpentoni di vetro-acciaio alti solo poche decine di metri circondati da pedane mobili su cui si affollava indaffara la folla variopinta della megalopoli. La paura di incontrare una ronda di Guardiani era troppo forte: Potr ridiscese in fretta di un livello per salire sulla monorotaia sotterranea, ora gratuita, stringendo ancora fra le mani i due oggetti avuti dai Guardiani corrotti e che gli erano stati basilari per la sua fuga: il coltello laser con cui si apprestava a tagliare il bracciale contenitivo rivela-matti, e la scatola di Exis123 contenente una sola delle due pastiglie neuro-attive fuori-prontuario che avrebbero permesso al suo fisico debilitato di arrivare all’astroporto di Cittan senza ricadere nella depressione neurale indottagli dalle cure del Centro.
Potr era stato uno di loro: Sotto-soprintendente del Centro Grafico Computerizzato della città; si trattava dell’ufficio automatico che memorizzava in tempo reale le caotiche trasformazioni prive di una logica subite da Bomoref, la megalopoli padana che contava più di 140 milioni fra umani e biorici escludendo naturalmente i robot. Potr si era stancato di veder costruire attraverso gli schermi dei computer, si era logorato a tal punto da non riuscire a superare la visita biannuale di integrità psico-attitudinale e gli era stato ordinato un periodo di internamento nel Centro Antidepressivo Integrale al 14° livello inferiore…
Il tubo cilindrico di vetro plastico della monorotaia sbucò con un balzo alla superficie, confondendosi subito fra le nebbie perenni verde-scuro dell’astroporto; Potr scese alla fermata insieme a due roboperai riattivatisi senza danni dopo la tempesta magnetica e ad un silenzioso umano, o almeno tale sembrava, dal volto celato da un casco musicale completamente nero. L’attività di Cittan era ridotta al minimo e completamente automatizzata, scomparso l’uomo dal casco non si vedeva in giro nessun altro umano.

Potr che sudava freddo e si sentiva svenire ingollò l’ultima pastiglia di Exis e corse barcollando in direzione dell’area privata di lancio, ed evitando per ben due volte
enormi piattaforme mobili di carico, arrivò sbattendoci contro alla nave di cui aveva fatto copia dei circuiti di proprietà: l’astronave del dirigente politico del suo ex ufficio.
La “Imis”, una moderna astronave con lo scafo a forma di proiettile schiacciato giallo-metallo e verde lungo circa 40 metri, era provvista abusivamente di un assistente biorico femmina. Potr batté febbrilmente i codici di accesso ed il portello sotto la pancia della nave si aprì silenziosamente illuminandone l’interno dove l’assistente che si era già risvegliata dal suo sonno-indotto lo sollevò per le braccia e lo aiutò a sistemarsi senza porre domande nella cabina di iberno-guida mentre contemporaneamente la parte biorica del suo cervello, collegato direttamente a quello della nave, impartiva le prime direttive per il lancio.
- Dove andiamo? - chiese infine con voce allegra Arien, l’assistente biorica dai lunghi capelli biondi e gli occhi chiarissimi quasi bianchi il cui luccichio sembrava esprimere più del 20% di patrimonio genetico umano previsto per legge.
- Non lo so, vai dove ti pare - rispose Potr che ormai assopito dalle sonde inseritegli e confuso dagli occhi di Arien finalmente si addormentò.
- Ma guarda che matto! - pensò ad alta voce l’assistente e fra il sibilo dei motori al plasma e i richiami inutili ed insistenti del radio-controllore dell’astroporto chiuse il coperchio trasparente di Potr; poi si accoccolò con uno strano sorriso in uno dei cilindri di iberno-guida al suo fianco non senza prima aver dato al computer della nave, che ormai solcava già la nebbia scura di Cittan, l’ultimo paio di coordinate trimiche questa volta però in modo del tutto casuale.

Pietro Santi è nato e risiede a Modena.

 

A scuola da Apollinnaire di Pierubaldo Bartolucci



M Ombre non sono, fra gli alberi strani,
figure di nani;
la luna è più grande, più vaga la notte,
se questa è la notte,
dietro l'ameno corteggio di Orfeo.

A Non è poesia, piovuta magia
carezza le labbra...
Potessi fermare il silenzio
e contare d'un tratto sinonimi
molti, di gioia.

G Non più meraviglia:
la mano nasconde i ricordi,
assai più delle dita,
nel caldo fango dei fiumi,
nelle superbe contrade d'azzurro.


I Temi forse il romantico addio
dei fiori?
O cos'altro il cuore non dice?
E certo il colore dell'erba
fa invidia alle nuvole in alto.

A Si muovono rapidi i sogni
se adesso ferisce la luce del giorno;
per poco brontola il vento:
nascono e ancora
evangeliche forme gemelle.

A Ne sont pas détails mélodieux voix d'amour.


Pierubaldo Bartolucci è nato e vive a Fossombrone (PU). Laureato in Filosofia a Firenze, ha pubblicato il libro
39 carte, ed. Montedit Collana I gigli (poesia). Inserito nell'antologia Angela Starace 2001.

 

L'addio di Gilberto Ciavatta

Il sole era alto nel cielo e i bambini correvano sul sentiero. Il padre li seguiva.
Li osservava in silenzio e frugava nelle tasche.
Chiuse gli occhi un istante e respirò profondamente. Poi chiamò i figli a sé.
Padre – Volete riposarvi un po’?
Andrea – No babbo, è così bello che non vorrei fermarmi mai.
Luigi – Dove stiamo andando?
Gli occhi del padre si fecero più tristi e stonavano con la luce del sole.
Padre - Dobbiamo scendere fino in fondo per poi risalire.
Andrea – Andiamo e magari ci riposeremo tra un po’.
Luigi – Quando saremo stanchi come faremo a tornare indietro?
Padre - Non vi preoccupate per il ritorno.
I bambini si fidavano del padre e non chiesero più niente.
Dopo un po’ arrivarono su un prato.
Il padre aveva ancora le mani in tasca e continuava a frugare come chi ha qualcosa d'importante e ha paura di perderlo.
I bambini sembravano di non accorgersi di niente o facevano finta.
Chiamò nuovamente i figli a sé.
Gli uccelli cantavano e la campagna era piena di vita.
I bambini si sedettero sul prato di fronte al padre. I loro occhi erano fissi sulle sue mani che erano ancora in tasca. Tutti tre capirono che era arrivato il momento.
Il padre tolse le mani dalle tasche e le aprì mostrando il contenuto.
Vennero alla luce due palloncini e un sorriso si aprì sul viso dei bambini.
Il padre sembrava assente, lontano. Pareva che avesse pensato e preparato quel momento da molto e adesso stesse eseguendo perfettamente ciò per il quale si era preparato.
Prese il primo palloncino e cominciò a gonfiarlo. Ogni suo movimento era seguito da un sussulto dei figli. Quando il palloncino era così pieno d’aria che stava per scoppiare, il padre con un movimento deciso lo annodò. Prestò attenzione che non uscisse nemmeno un po’ d’aria e lo porse ad Andrea. Poi fece la stessa cosa con il secondo palloncino e lo diede a Luigi.
I bambini rimanevano di fronte al padre come in attesa di qualcosa che doveva succedere, ma che non succedeva. Il padre attendeva.
I bambini capirono. Abbracciarono il padre e andarono a giocare.
Andrea lasciava il palloncino abbandonandolo al vento e si divertiva a seguirlo e riprenderlo.
Luigi lo teneva stretto per paura che volasse via.
Il padre guardava i figli che sembravano essersi dimenticati di lui. Il suo viso era teso e stanco come chi è al termine di un viaggio, ma i suoi occhi brillavano di una strana luce e il suo sguardo era posato molto lontano.
In quell’istante gli uccelli smisero di cantare. In pochi secondi scese una fitta nebbia e il sole si oscurò.
La nebbia era così fitta che l’uno non riusciva a vedere l’altro.
Cominciarono a chiamarsi, ma non si sentivano.
Cominciarono a cercarsi, ma non si trovavano.
Quando la nebbia di diradò e il sole torno a brillare non sapevano quanto tempo era passato.
Gli uccelli tornarono a cantare.
I bambini si accorsero di essere vicini e adesso si guardavano, anzi si vedevano.
Subito si girarono intorno per cercare il padre.
Forse lo vedevano, anche se non c’era.
Sicuramente lo avrebbero amato per sempre e lui sarebbe sempre stato con loro.
Improvvisamente si ricordarono dei palloncini.
Andrea non l’aveva più. Subito guardò in alto e sorrise nel vedere che il palloncino volava verso il cielo.
Volse lo sguardo verso il fratello. Luigi piangeva e aveva tra le mani il palloncino sgonfio.
Senza rumore, in silenzio l’aria se n’era andata.
Andrea porse la mano al fratello ferito che non indugiò un attimo ad accettarla e insieme presero la strada del ritorno.
Luigi non piangeva più.
La strada era in salita ma non era così difficile come poteva sembrare.
Un vento tiepido e delicato li avvolgeva e li spingeva sulla via.
Un nuovo cammino era cominciato.

Gilberto Ciavatta nato a Riccione nel '68. È sposato e ha 2 figlie. Lavora come tecnico elettronico. Si occupa di teatro. Ha fatto parte della compagnia "Teatro per". Attualmente fa parte della "Compagnia del Piccolo Punto" dove svolge i ruoli di regista e attore. Solitamente collabora anche alla stesura delle sceneggiature. È un appassionato della natura, ama la montagna e tutti gli sport che vi si praticano. Ama leggere, scrivere, pitturare e tutto ciò che è creativo.

 

La trappola di Marco Bolla

Quella volta mi svegliai di soprassalto. Mi sentivo dannatamente spossato e privo d’entusiasmo. La stanza era buia, completamente avvolta dalle tenebre. Il mio desiderio più grande, in quel frangente, era quello di tirar fuori la mano dal letto e premere l’interruttore. Più volte, in pochi secondi, tentai l’agognata azione, ma più volte la paura, inesorabilmente, bloccò il mio istinto di salvezza.
Fin da piccino l’oscurità aveva sempre destato in me viva apprensione, ma non avendo mai fatto nulla per risolvere tale problema, ora ci dovevo convivere. Ancora adesso, quando dormo, prendo il lenzuolo e me lo avvolgo tutt’intorno al corpo per ripararmi e sentirmi protetto. Gli occhi invece li tengo ben scoperti, perché provo immenso piacere nell’osservare i macabri disegni, che la mia turpe immaginazione suol creare nel buio della notte.
Mi decisi. Dopo aver compiuto un lungo sospiro, gettai via il lenzuolo di scatto ed accesi la luce. Pensieroso, guardai la stanza in ogni suo angolo più nascosto e impenetrabile. M’alzai dal letto e a piccoli passi raggiunsi la scrivania, qui mi lasciai cadere sulla sedia. Riguardai un’altra volta la stanza più di prima, meglio di prima, approfonditamente. Cominciai a strizzare nervosamente gli occhi, ma ero sveglio, incredibilmente sveglio! Se un momento fa avevo l’impressione di non esserlo, ora lo ero, non c’era nessunissimo dubbio.
Con pacato fragore dal mio cuore scoppiò un’ansia angosciosa che l’avido sangue condusse con vigore e fermezza in ogni parte del corpo. In poco tempo fui invaso dal panico più sconvolgente. Portai una mano alla fronte tremendo, cercai di rilassarmi massaggiandola delicatamente. Stordito, contemplavo impotente l’orrore. Ora, se volevo raggiungere la quiete, dovevo abituarmi a quella terrifica visione. Quello che vedevo con tanto rammarico e disgusto non era possibile, era del tutto privo di qualsiasi logica, anche la più banale. Era come essere fuori dal tempo e dallo spazio, in una dimensione formidabile, non più terrena, meravigliosamente disumana.
Un po’ alla volta la paura cominciò a scemare, lentamente stavo ritornando in me e avrei così potuto finalmente pensare, per trovare una risposta ragionevole a tutto questo.
M’alzai dalla sedia con lo sguardo sbalordito e raggiunsi la parete di fronte. Posi una mano sul muro e cominciai ad accarezzarlo. D’un tratto con tutta la forza che avevo nei polmoni emisi un grido: nella stanza non c’era più né la porta né la finestra, ma solo muro! Ero intrappolato in una stanza senza vie d’uscita! Non era possibile!
Di colpo ritornò l’angoscia, riuscii però a controllarla, a dominarla. Certo, dovevo star calmo e pensare, senz’altro c’era una spiegazione a questa apparente insensatezza, a questo inverosimile orrore. Non poteva essere altrimenti, ne ero convinto!
Uno scherzo, la prima cosa che pensai era che qualcuno potesse avermi fatto uno stupido scherzo. Guardai la sveglia: erano le nove del mattino. Poi toccai la parte del muro dove fino al giorno prima c’era la porta, provai a battere, a chiamare: niente, nessuno rispondeva. La stessa cosa feci anche sul muro della parete opposta dove prima c’era la finestra. Se avevano fatto uno scherzo, l’avevano fatto veramente bene, sembrava tutto reale, caspita. Attesi del tempo. Aspettati ancora. Cominciai ad innervosirmi: lo scherzo è bello quando dura poco, poi inizia a stufare.
Mi buttai sul letto e stetti un bel pezzo a pensare fissando il soffitto. Ebbi una preoccupazione: se non trovano un modo per fuggire da questa gabbia, rischiavo di morire asfissiato per mancanza d’ossigeno. Così persi un’altra volta l’autocontrollo. Scesi dal letto e strillando gettai con violenza tutti i libri che trovai sopra la scrivania addosso alle pareti. Mi distesi per terra ansimando e me ne stetti in silenzio. Poi cominciai a piangere. Mi sentivo disperato. Ossessivamente continuavo a ripetere: "Ma cosa diavolo mi sta succedendo? Cosa?"
Dopo essermi nuovamente calmato mi ridistesi sul letto e chiusi gli occhi. Provai a meditare ancora. Probabilmente qualcuno che mi odiava, mentre dormivo, aveva tolto la porta e la finestra e otturato i buchi. Ma se così fosse stato, come ho fatto a non essermene accorto? E poi se qualcuno avesse costruito un pezzo di muro si vedrebbe il segno, invece il muro era tutto bianco, come se la porta e la finestra non fossero mai esistite. Un muro dal nulla! Impossibile! C’era qualcosa che non quadrava, che non aveva senso. Più niente qua dentro aveva un senso da oggi, più niente.
Guardai l’ora: mezzogiorno. Di solito pranzavo a quest’ora. Ma il cibo era in cucina, ed io non avevo niente in camera da sgranocchiare. Oltre che di asfissia sarei potuto morire di fame!
Dopo essere rimasto non so quanto tempo buttato sul letto come un vegetale, cominciai ad avvertire piccoli assalti di noia, così piano mi trascinai vicino alla scrivania e m’accucciai per terra. Aprii l’ultimo cassetto e prelevai un quadernino che scrissi quand’ero ancora bambino, quando tutto cioè aveva ancora un senso, una logica. Qui lessi le poesie che scrivevo sugli uccellini, sui fiori, sulle piante, sulla mamma, … quanta ingenuità! Ed ero la persona più felice di questa terra, la più appagata: mi sentivo amato, libero, protetto e mai e poi mai avrei pensato che tutto questo dovesse un giorno finire: vivevo in una magnifica illusione! Ero come cappuccetto rosso, non conoscevo l’insidia, non sapevo del lupo, ed ora come lei ero rimasto intrappolato nella pancia della bestia. Riposi il quadernino nel cassetto. Mi sentivo triste, stanco e privo di volontà. Non avevo più voglia di pensare, di trovare una soluzione, era sempre più forte la tentazione di subire passivamente gli eventi.
Mi ributtai ancora sul letto, premetti l’interruttore e spensi la luce.

Marco Bolla è nato a Verona nel '79. È iscritto alla facoltà di Scienze Politiche presso l'Università di Padova.

 

Amore nel tempo di Leonello Rabatti

Scendi nel mio corpo
col tuo piccolo scandaglio di sole
e di parole
e il taglio del pensiero
che lacera la carne trasparente
e nella cera s’imprime
della mente
fin dove la nera corrente dei nervi
scava
la ruota d’immagini e colori
del giorno
e di fragili alchimie molecolari
salvate dai vertici rari
d’Amore.

Leonello Rabatti è nato a Reggello il 7 Novembre 1960. Laureato in Lettere moderne, ha stampato in edizione privata due volumetti di poesie e prose, Limite del silenzio e Destino. Ha pubblicato testi poetici e prose su varie riviste italiane. Ha inoltre pubblicato alcuni saggi critici e traduzioni dall'inglese (testi del poeta Peter Russell) e dallo spagnolo (testi dello scrittore cileno Pablo Cassi e del poeta argentino Daniel Calabrese). È lettore in pubblico di testi poetici ed ha partecipato a vari eventi, manifestazioni e performances poetico-letterarie.

 

 

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