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FARANEWS
ISSN 15908585
MENSILE DI
INFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Fara Editore
1. Gennaio 2000
Uno strumento
2. Febbraio 2000
Alla scoperta dell'Africa
3. Marzo 2000
Il nuovo millennio ha bisogno di idee
4. Aprile 2000
Se esiste un Dio giusto, perché il male?
5. Maggio 2000
Il viaggio...
6. Giugno 2000
La realtà della realtà
7. Luglio 2000
La "pace" dell'intelletuale
8. Agosto 2000
Progetti di pace
9. Settembre 2000
Il racconto fantastico
10. Ottobre 2000
I pregi della sintesi
11. Novembre 2000
Il mese del ricordo
12. Dicembre 2000
La strada dell'anima
13. Gennaio 2001
Fare il punto
14. Febbraio 2001
Tessere storie
15. Marzo 2001
La densità della parola
16. Aprile 2001
Corpo e inchiostro
17. Maggio 2001
Specchi senza volto?
18. Giugno 2001
Chi ha più fede?
19. Luglio 2001
Il silenzio
20. Agosto 2001
Sensi rivelati
21. Settembre 2001
Accenti trasferibili?
22. Ottobre 2001
Parole amicali
23. Novembre 2001
Concorso IIIM: vincitori I ed.
24. Dicembre 2001
Lettere e visioni
25. Gennaio 2002
Terra/di/nessuno: vincitori I ed.
26. Febbraio 2002
L'etica dello scrivere
27. Marzo 2002
Le affinità elettive
28. Aprile 2002
I verbi del guardare
29. Maggio 2002
Le impronte delle parole
30. Giugno 2002
La forza discreta della mitezza
31. Luglio 2002
La terapia della scrittura
32. Agosto 2002
Concorso IIIM: vincitori II ed.
33. Settembre 2002
Parola e identità
34. Ottobre 2002
Tracce ed orme
35. Novembre 2002
I confini dell'Oceano
36. Dicembre 2002
Finis terrae
37. Gennaio 2003
Quodlibet?
38. Febbraio 2003
No man's land
39. Marzo 2003
Autori e amici
40. Aprile 2003
Futuro presente
41. Maggio 2003
Terra/di/nessuno: vincitori II ed.
42. Giugno 2003
Poetica
43. Luglio 2003
Esistono nuovi romanzieri?
44. Agosto 2003
I vincitori del terzo Concorso IIIM
45.Settembre 2003
Per i lettori stanchi
46. Ottobre 2003
"Nuove" voci della poesia e senso del fare letterario
47. Novembre 2003
Lettere vive
48. Dicembre 2003
Scelte di vita
49-50. Gennaio-Febbraio 2004
Pubblica con noi e altro
51. Marzo 2004
Fra prosa e poesia
52. Aprile 2004
Preghiere
53. Maggio 2004
La strada ascetica
54. Giugno 2004
Intercultura: un luogo comune?
55. Luglio 2004
Prosapoetica "terra/di/nessuno" 2004
56. Agosto 2004
Una estate vaga di senso
57. Settembre2004
La politica non è solo economia
58. Ottobre 2004
Varia umanità
59. Novembre 2004
I vincitori del quarto Concorso IIIM
60. Dicembre 2004
Epiloghi iniziali
61. Gennaio 2005
Pubblica con noi 2004
62. Febbraio 2005
In questo tempo misurato
63. Marzo 2005
Concerto semplice
64. Aprile 2005
Stanze e passi
65. Maggio 2005
Il mare di Giona
65.bis Maggio 2005
Una presenza
66. Giugno 2005
Risultati del Concorso Prosapoetica
67. Luglio 2005
Risvolti vitali
68. Agosto 2005
Letteratura globale
69. Settembre 2005
Parole in volo
70. Ottobre 2005
Un tappo universale
71. Novembre 2005
Fratello da sempre nell'andare
72. Dicembre 2005
Noi siamo degli altri
73. Gennario 2006
Un anno ricco di sguardi
Vincitori IV concorso Pubblica con noi
74. Febbraio 2006
I morti guarderanno la strada
75. Marzo 2006
L'ombra dietro le parole
76. Aprile 2006
Lettori partecipi (il fuoco nella forma)
77. Maggio 2006
"indecidibile santo, corrotto di vuoto"
78. Giugno 2006
Varco vitale
79. Luglio 2006
“io ti voglio… prima che muoia / rendimi padre” ovvero
tempo, stabilità, “memoria”
79.bis
I vincitori del concorso Prosapoetica 2006
80. Agosto 2006
Personaggi o autori?
81. Settembre 2006
Lessico o sintassi?
82. Ottobre 2006
Rimescolando le forme del tempo
83. Novembre 2006
Questa sì è poesia domestica
84. Dicembre 2006
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
85. Gennaio 2007
La parola mi ha scelto (e non viceversa)
86. Febbraio 2007
Abbiamo creduto senza più sperare
87. Marzo 2007
“Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
88. Aprile 2007
La Bellezza del Sacrificio
89. Maggio 2007
I vincitori del concorso Prosapoetica 2007
90. Giugno 2007
“Solo facendo silenzio / capisco / le parole / giuste”
91. Luglio 2007
La poesia come cura (oltre il sé verso il mondo e oltre)
92. Agosto 2007
Versi accidentali
93. Settembre 2007
Vita senza emozioni?
94. Ottobre 2007
Ombre e radici, normalità e follia…
95. Novembre 2007
I vincitori di Pubblica con noi 2007 e non solo
96. Dicembre 2007
Il tragico del comico
97. Gennaio 2008
Open year
98. Febbraio 2008
Si vive di formule / oltre che di tempo
99. Marzo 2008
Una croce trafitta d'amore
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Numero 84
Dicembre 2006
Editoriale:
La poesia necessaria va oltre i sepolcri?
Mese di fine anno, di avvento e preparazione (per i cristiani)
al Natale di una Parola che salva. C'è una tensione che immette
l'oltre nell'adesso (il regno dei cieli è vicino) riconsidera
il principio come apocalissi, desidera una eternità… Se
il tempo "ha il proprio fondamento nel soggetto" – come
ci ricorda Laura Meneghello – forse anche i poeti
ci propongono, con il codice inesauribile delle loro parole, un at-tendere,
un per-durare, una interpretazione dell'ora già proiettata non
tanto nel futuro ma nel presente sondato negli abissi in cerca di una
luce mai completamente visibile o certa (v. Cristina Babino)
eppure inesauribile come il dubbio che ci corrode il cuore. La poesia
non può essere solo consolazione, solo sfogo, solo denuncia:
la poesia "è" se vive nel tempo quasi non ne avesse
bisogno, ovvero se sa trasfigurare i vissuti evidenziandone il bagliore
di eternità senza renderli eterei perché la voce senza
corpo è fiato inutile, e i versi non possono non essere anche
espressione della carne e della storia che quella carne ha attraversato.
E infatti Adeodato Piazza Nicolai scrive: "Quasi
arrivato alla foce senza / mai scoprire la sorgente, mi /perdo nei gorghi
dell’immenso / e non sono Ungaretti…"; mentre Carmine
De Falco si domanda: "Che mezzo ci trasporterà nel 2099,
pirati / Ci disperderanno, gli studi degl’artisti, / Che cognome
hanno sul citofono?"; e Alessandro Ansuini si
chiede se è possibile: "che si sia scavati da una cosa /
che scava (come) le onde / elettrostatiche della televisione –".
E la forza meforica dei versi di Roberto Morpurgo ci
"dona il cielo / quasi un velo rupestre" rivelandoci
ancora una volta lo slancio ipermaterico dell'anima. E così la
recensione di Perilli a D'Alessio e le note
di lettura a Guglielmin, Sichera, Magalotti, De Santis, Camurri
propongono autori che "sudano" parole percolanti di vita a
vibrabre non inutili nei lettori. Bello, stimolante e ricco di spunti
anche il Logbook D'Altrocanto. Importante è
però che il lettore giochi con la macchina del testo, come suggerisce
Andrea Parato, perché – conferma Carla
Bariffi – c'è "… questo sentire che affonda
/ in questa scrittura che / riempie". E se per Mattia
Pari "la fine valorizza l’istante"; e Mimmo
Cangiano scrive: "E in ciò mi pare / di riposare ogni
certezza, / in ciò che non è vita / ed è fotografia";
Ivan Nicoletto non a caso suggerisce che ai nostri
giorni: "forse, l’unico miracolo è che ci sia ancora
fede, che il cristianesimo comprende anche lo sfacelo della croce, l’abbandono
ad un amore più grande, la forza insperata di una resurrezione."
Di
qua dall’aldilà
di Cristina
Babino
L’aldilà per me non c’è.
Non ne ho le prove, nessuno le ha. Di questo o del contrario. Ma per
me non c’è.
Credere nell’aldilà significa sperare. La speranza ha che
vedere con la fede. La fede si definisce un “dono”. Che
ti viene infuso, per alcuni. Per me, che uno si fa da solo. Uno sceglie
di credere, come di non credere. E le ragioni di entrambe le scelte
sono le più disparate.
A me manca, lo ammetto, un po’ questa speranza. Sarebbe bello
sperare di non finire qui, di vivere in un altro modo, in un’altra
forma (o senza forma alcuna), in un altrove che non si può descrivere
e non si può neanche immaginare. Un mondo dove ritrovare mio
padre morto troppo presto, e i nonni con cui non ho parlato mai abbastanza,
e tutti quelli che non ho incrociato in questo margine di cielo. Sarebbe
davvero bello, e sarebbe di grande consolazione. Ecco, per me la fede,
forse ancora più che speranza, è consolazione. Che senso
ha vivere, soffrire tanto, amare tanto, lavorare tanto, se poi tutto
ciò che siamo stati così disperatamente in vita finisce,
e nulla resta? Se si crede che tutto non finisca qui, un senso, una
parvenza di senso, si trova. Se uno non ci crede, il senso, semplicemente,
non c’è. O meglio, si trova soltanto nel vivere stesso,
come insegnava Sartre. Si trova nei giorni che si consumano cercando
di fare qualcosa che resti: una poesia, un’opera d’arte,
un’opera buona, un figlio. Si fanno figli per compiere se stessi,
perché si vuole continuare in qualche modo: fare figli è
una delle cose più egoiste che ci siano, l’ho sempre pensato.
Ma di un egoismo così sublime e necessario che ci si convince
sinceramente di aver fatto qualcosa di altruista. La conservazione della
specie umana passa anche, e soprattutto, da questo benevolo inganno.
Se non si crede nell’aldilà, allora solo questa vita ha
importanza, solo questa conta. E la verità è che, credenti
o no, l’unico mondo che conosciamo, l’unico luogo di cui
abbiamo esperienza è il presente e vivo. Per questo
ci siamo così irrimediabilmente attaccati, anche nel dolore,
anche nella malattia, anche nella disperazione. Ci siamo così
attaccati perché è l’unico luogo di cui siamo sicuri.
Tutto il resto è speranza, è racconto che ci è
stato tramandato e a cui ci piace credere. È consolazione.
L’aldilà per me non c’è. Ma magari mi sbaglio.
Cristina Babino è nata
ad Ancona il 24 luglio 1976. Ha pubblicato la raccolta di poesie L’abitudine
del cielo (Blu di Prussia, Piacenza, 2003 - prefazione di Alessandro
Seri) e suoi testi sono inclusi in varie antologie, tra cui L’opera
continua (a cura di Giampaolo Vincenzi, Giulio Perrone Editore,
Roma, 2005). Si è laureata in Letteratura Italiana presso la
sezione Arte del DAMS di Bologna con una tesi dal titolo Montale
critico d’arte, discussa con Gian Mario Anselmi e Alberto
Bertoni. Affianca alla produzione poetica l’attività critica
e giornalistica, ed è stata redattrice del mensile di cultura
«Buon Gusto Marche». Suoi testi poetici tradotti in inglese
sono recentemente apparsi su diverse riviste di poesia contemporanea
britanniche, tra cui «Aesthetica» e «Coffee House
Poetry». Ha vinto diversi premi letterari, tra cui il Premio Rabelais
(edizioni 2004 e 2005) ed è membro della giuria del Premio “Poesia
di Strada” di Macerata. Attualmente vive e lavora a Bristol. Il
suo sito lacuginaargia.splinder.com
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Tempo
e memoria
di Laura
Meneghello (Semi-filosofici)
Nell'Estetica Trascendentale della sua Critica
della Ragion Pura, Kant aveva posto il tempo come forma pura (a
priori) dell'intuizione o forma pura del senso interno; il tempo è
quindi la modalità secondo la quale io percepisco ciò
che è al mio interno, dentro di me: l'Io è intuito dall'Io
secondo la modalità "tempo", ma rimane pur sempre fenomeno
e non viene reificato. Il fondamento del tempo è dunque soggettivo,
e tuttavia universale perché si tratta di un Io trascendentale.
Credo sia interessante rilevare come anche il fatto che diverse ricerche
antropologiche abbiano dimostrato che la percezione del tempo (e dello
spazio) varia a seconda delle epoche e delle culture, non faccia altro
che dare ragione a Kant: il tempo non è qualcosa di oggettivo
ed esterno a noi, ma ha il proprio fondamento nel soggetto, quindi è
un prodotto storico e culturale.
Il tempo è anche per Fichte un prodotto della facoltà
dell'immaginazione (la produktive Einbildungskraft), "la
più meravigliosa delle facoltà" per Kant, il quale
già diceva che la continuità dei fenomeni è una
nostra produzione, poiché noi, grazie allo schema della permanenza,
connettiamo quelle che altrimenti sarebbero soltanto esperienze atomiche.
Per questo motivo non è mai possibile avere l'esperienza iniziale:
sempre qualche ricordo deve precederla (per Bergson, la nostra coscienza
del presente è già memoria).
Questa concezione del tempo implica dunque il pensare l'esperienza come
qualcosa di sfuggente, un concetto-limite (Non-Io) capace di farsi avvertire
solo come urto (Anstoß), se non ci fosse l'immaginazione
a sostenere e sciogliere un paradosso che l'intelletto non può
neppure pensare: solo l'immaginazione può appropriarsi della
contraddizione fra Io e Non-Io e sostenerla mediante la produzione del
tempo che è l' "estensione" di quella opposizione,
mediante il librarsi dell'immaginazione fra "termini inconciliabili".
Origine principale del tempo e della memoria è, anche per Fichte,
l'Io.
Kierkegaard tratta del tempo nella parte in cui descrive l'uomo estetico,
che costituisce la prima delle tre sfere in cui la vita umana può
venirsi a trovare, seguita da quella etica e da quella religiosa. Dell'uomo
estetico è propria l'incapacità di programmare e ricordare,
poiché non pensa al futuro né al passato: egli vive nell'orizzonte
della possibilità infinita, poiché non ha scelto se stesso
infinitamente. Ne deriva una personalità frammentata, una parcellizzazione
dell'individualità. Nel momento in cui ne prende coscienza, l'uomo
estetico non può più rimanere in questo stadio "innocentemente":
egli può operare la scelta della sua personalità, ed in
questo caso si trova già nello stadio etico, oppure può
tentare di salvarsi dalla disperazione più assoluta attraverso
la ripetizione infinita dello stesso gesto (la seduzione) per dare una
parvenza di stabilità e di continuità alla sua vita.
Per l'uomo estetico ogni atto è come se fosse eterno, egli non
ha memoria nel senso che non ha presenti alla mente né il passato
né il futuro, poiché egli è nel momento, si perde
totalmente nello stato d'animo senza essere in grado di controllarlo.
Nel suo agire non c'è un principio e una fine, ma ogni momento
ha valore per se stesso, e non in funzione di un futuro che ne sarà
effetto e di un passato che ne è causa.
Una concezione ciclica del tempo, propria in Kierkegaard dell'uomo estetico
e contrapposta a quella lineare dell'uomo etico, è presente e
anzi centrale nel pensiero di Nietzsche, solo che per quest'ultimo se
si vuole vivere bisogna dimenticare tutto e l'unico uomo felice al mondo
è quello assolutamente inconsapevole, che ha una concezione a-storica,
non lineare del tempo proprio come il don Giovanni di Kierkegaard.
Questo pensiero è espresso nella dottrina dell'eterno ritorno
dell'uguale, secondo cui ogni attimo deve essere vissuto per se stesso,
come se dovesse ritornare per l'eternità, non come semplice anello
di una catena di cause ed effetti in cui solo il termine dà senso
a tutto il resto. Ogni attimo è quindi già perfetto così
com'è, tanto che il motto cui lo spirito libero fa riferimento
è: Divieni quello che sei.
A questo punto, sembra sussistere un dualismo irrisolvibile tra quello
che ho chiamato tempo lineare, o oggettivo, o della storia, e quello
che invece ho chiamato tempo ciclico, o soggettivo, o della natura;
tuttavia, se, come osservavo all'inizio, anche la concezione soggettiva
del tempo è determinata culturalmente e socialmente, e quindi
storicamente, bisogna ammettere che entrambe le dimensioni stanno tra
loro in una relazione di reciproco scambio e influenza.
A questo proposito credo sia significativo il fatto che in ogni autore
che si occupa del tema del tempo sia presente anche il recupero della
tradizione, la valorizzazione del passato e l'importanza della memoria,
per cui la concezione che il soggetto ha del tempo non è mai
slegata dal rapporto con la storia (individuale, ma anche, e soprattutto,
collettiva).
Così, in Kierkegaard, l'uomo etico, avendo scelto se stesso infinitamente
ed essendo ciò che è divenuto, ha presente alla mente
il proprio passato e da esso impara in vista del proprio futuro; e persino
Nietzsche, nel paragrafo della Gaia Scienza intitolato "Agi
e Ozio", dice che i nostri antenati ci hanno insegnato ad avere
una fede e a fare sacrifici per essa, e noi dobbiamo essere all'altezza
del nostro passato.
Allo stesso modo James Joyce, che nelle sue opere rappresenta attraverso
il monologo interiore il flusso di coscienza dei personaggi e il tempo
ne risulta incredibilmente dilatato o ristretto, rivelando quindi una
percezione da parte dei personaggi del tutto diversa da quello che è
considerato il suo computo oggettivo, utilizza però anche il
mythical method, una sorta di sintesi del passato collettivo
in cui tutte le lingue si mescolano e si fondono insieme per dar vita
ad un nuovo idioma.
Bibliografia
Henri Bergson, Opere 1889-1896, Mondadori, Milano, 1986.
Johann Gottlieb Fichte, La dottrina della scienza, Laterza,
Roma-Bari, 1987.
Daniele Goldoni, Filosofia e paradosso, E.S.I., Napoli, 1990.
James Joyce, Ulisse, Mondadori, Milano, 1971.
Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Utet, Torino, 1967.
Søren Kierkegaard, Enten-Eller, Adelphi, Milano 1981.
Friedrich Nietzsche, Opere, Adelphi, Milano, 1973.
Il gruppo dei Semi-filosofici
riunisce giovani studenti di lettere e filosofia delle università
di Venezia e Padova, e si propone come uno spazio di riflessione e approfondimento
volto a garantire e coltivare, anche al di fuori dell’ambito accademico,
il confronto su tematiche di interesse filosofico, letterario, civile.
Le nostre riunioni hanno affrontato temi e problemi legati ai principali
ambiti d’interesse del dibattito filosofico contemporaneo, prestando
particolare attenzione ai risvolti di carattere pubblico e sociale e
all’integrazione fra ambiti disciplinari distinti. Da circa un
anno cerchiamo di coinvolgere un pubblico più vasto, partecipando
a diverse attività culturali veneziane e non solo, con una forma
espressiva che tenta di conciliare l’intimità della riflessione
e l’esigenza di risultare quantomeno “accattivanti”
per le persone che ci vengono a sentire. Per leggere i nostri articoli,
conoscere le iniziative cui abbiamo preso parte, mettersi in contatto
con noi: www.semi-filosofici.it
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Lacrima
Nera
di Mattia
Pari
Guardai l’orologio, sette minuti a mezzanotte;
un minuto per peccato capitale.
Si sedette davanti a me e capii che non mancava molto alla fine.
Guardai il suo volto dipinto da clown, la lacrima nera disegnata sulla
guancia sinistra; il tempo pareva immobile.
Erano passati molti anni dal nostro ultimo incontro, ma nulla aveva
scalfito la sua pelle.
“Credevo non arrivassi più.”
“Mantengo sempre le promesse.”
“lo sospettavo…”
“Tutto ciò che mi hai chiesto l’hai ottenuto.”
“Il denaro non compra tutto e la felicità è altra
cosa.”
“I patti sono patti, mi sembra tardi per pentirti, in tutta la
tua esistenza hai sempre operato con accidia e avaro hai accumulato
ricchezze per il solo piacere personale. Ora vieni a farmi la predica?
Speravo che almeno con te la vecchiaia fosse stata clemente salvandoti
da inutili moralismi.”
Guardai la pregiata cornice che lustrava il prezioso
quadro e sottolineava il lusso della mia maestosa residenza.
Continuò: “Non puoi neanche immaginare
quante volte abbia vissuto questi minuti; per te sono intensi, unici,
carichi di tensione; per me semplice consuetudine.”
“Invidia?”
“Forse sì, la fine valorizza l’istante.”
“Allora la vecchiaia non ha risparmiato neanche te.”
“Hai sempre la battuta pronta…”
Il terzo minuto era allo scadere.
“Cosa hai fatto in questi anni?”
“Quello che ho fatto con te, con altre migliaia di persone.”
“Una vita proprio noiosa la tua…”
“Lunga però, al contrario di voi umani.”
“Già, ma – la fine valorizza l’istante –
parole tue.”
“Stai cercando di farmi irritare? Vuoi provocarmi, stupido! Non
sei nulla di fronte all’eternità!”
“Pretendi il mio rispetto?”
“No, io ordino il tuo rispetto!”
“Dunque la superbia non è condizione solo umana?”
“Ora ne ho abbastanza…”
“Tranquillo, tranquillo, mi dispiace, non sapevo che i clown fossero
così suscettibili.”
La mezzanotte, prospettiva implacabile, era ormai prossima.
“Se il denaro non ti ha soddisfatto, almeno lo
avranno fatto le innumerevoli donne che ti ho concesso?”
“Abbandonarsi alla lussuria è prospettiva accogliente,
ma quelle donne mi seducevano su tua volontà, amavano la mia
carne, non la mia anima.”
“A quella penserò io!”
“Ingordo! Non sei mai sazio di anime, davvero non comprendi? Solo
la tua può sanare il vuoto che hai nel cuore.”
“Insinui forse che io non abbia un’anima?”
“Oh no, ne possiedi molte, ma nessuna che ti appartenga.”
“Io, io non…”
Le lancette avevano raggiunto la loro destinazione,
il pendolo suonò dodici volte e la lacrima nera scese dalla guancia
del clown frantumandosi al suolo.
Mattia Pari,
classe 1983, lavora in una azienda del settore credito, è laureando
in Scienze Giuridiche e insegna difesa personale da oltre un lustro.
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La meta è quasi
sbiadita
di Adeodato Piazza
Nicolai
OTTOBRE
Come il pungitopo è l’aria di mattina,
il sole rosicchia le foglie ma il corpo
avverte uno squilibrio non registrato
dagli strumenti, un mormorio zodiacale
che pizzica i nervi e le vene senza
lasciare una traccia. Segnala forse
un’altra stagione, un altro anello
nel tronco del pino prima che arrivi
la morsa del gelo. Non so veramente
cosa vuol dirmi, però qualche cosa
sembra cambiata. Viene a visitarmi
la sorella bipolare dal sorriso glaciale
che affanna e consola? Spero di no
tuttavia mi preparo con medicamenta
e con meditazione, le sole azioni
che neutralizzano ma non cancellano.
Padova, 17 ottobre 2006—12,32
QUASI ARRIVATO
Quasi arrivato alla foce senza
mai scoprire la sorgente, mi
perdo nei gorghi dell’immenso
e non sono Ungaretti. Vorrei
tanto assomigliargli, purtroppo
la meta è quasi sbiadita.
Nell’onda eraclea la melma si
ispessisce, le paludi del delta
sembrano virtuali, gradite solo
da certi animali quasi spariti
dalla memoria. Sapessi fare
un po’ di baldoria prima del
tuffo nel porto sepolto forse
l’inganno terrebbe ancora.
Non parlo di autoironia bensì
di pazzia, di quella via negationis
nascosta dall’alga e dai marosi
negata alle sabbia dalla bufera
che acceca perfino i cammelli.
Meglio restare sommersi vicino
alla piovra finché si fa vivo
quel vecchio martin pescatore.
Padova, 19 ottobre 2006 – 10,35
DUTO DIPENDE
Son straco come l bosco
de novenbre, no ei pì vuoia
de fei nuia. Le foie toma dò
da la mea schena, i rame se
piega come le gianbe dei vecie
su par la Riva de la Madona.
I grope dei laris no bicia fora
nianche na gioza de resina
e le radis somea bisse morte
n medo al mus-cio. L’ è na
stracheza che no capiso,
la pesa pì de n darlin pien
de grassa, pèdo dei ruoi
che me mare portaa prima
de dì a semená le patate.
Me sento straco come la tèra
che á tanto bisuoi de dormì.
Se me desedo ncora na ota
spero de biciá fora autre
radis ntin pì fresche e
calche bozol mai visto.
Duto dipende da come
che cianta sta primavera.
Padova, 19 ottobre 2006 – 18,35
Nota: Nel ladino cadorino d’Oltrepiave la “z”
(p.e., gioza, stracheza, ecc.) si pronuncia come la “th”
interdentale della parola inglese “father”, mother”
ecc.
Adeodato Piazza
Nicolai nato a Vigo di Cadore nel 1944, è emigrato negli
Stati Uniti nel 1959. È docente, poeta, saggista e traduttore.
Laureato in Lettere al Wabash College, Master of Arts all’Università
di Chicago, dopo 30 anni di lavoro presso un'azienda siderugica, si
è pensionato nel 1996. Ha insegnato lingua italiana e letteratura
moderna all’università di Purdue Calumet, Indiana. Ora
vive in Italia e si occupa di traduzioni, conferenze, “workshops”
sul ladino (fa parte del Comitato Scientifico dell’Istituto Culturale
delle Comunità dei Ladini Storici delle Dolomiti Bellunesi).
Una sua silloge è inserita nella Coda
della galassia. Ha pubblicato le raccolte: La visita di
Rebecca (1979), I due volti di Janus (poesie
e traduzioni, 1980), e La doppia finzione (Insula editore,
1988; Introduzione della Prof. Rebecca West); il Professor Glauco Cambon
ha presentato una selezione di poesie in ladino del Cadore, sulla rivista
culturale Forum italicum,
autunno del 1987. Ha tradotto nove poeti del Friuli Venezia Giulia (tra
i quali Pier Paolo Pasolini e Biagio Marin) inclusi in Dialect Poetry
of Northern & Central Italy, Legas editore, 2001. Alcune sue
poesie ladine sono apparse nell’edizione trilingue dell’antologia
Via terra (An Anthology of Contemporary Italian
Dialect Poetry, Legas editore, 2000) curata da Achille Serrao,
Luigi Bonaffini e Justin Vitiello. Dall’italiano all’inglese
ha tradotto poesie di Giulia Niccolai, Donatella Bisutti, Silvio Ramat,
Emanuel di Pasquale, Fabio Franzin, Luciano Troisio e Luciano Zannier,
mentre dall’anglo-americano all’italiano ha tradotto alcune
poesie di Erica Jong e di Adrienne Rich; sta preparando una antologia
di poetesse afroamericane (Gwendolyn Brooks, Nikki Giovanni, June Jordan,
Rita Dove, Maya Angelou, Elizabeth Alexander, Wanda Coleman, Marilyn
Nelson, Alice Walker e Margaret Walker). Nel 2005 ha tradotto poesie
di W.S. Merwin. Nel 2000 è uscita la raccolta di poesie Diario
ladin (Grafica Sanvitese) in italiano e inglese, con il patrocinio
della Union Ladina del Cadore de Medo. Ha tradotto in inglese il poemetto
di Luigina Bigon, Cercando
O, accompagnato da un saggio critico (Panda editore, 2001), il volume
di poesie Saccade
di Cesare Ruffato (Optical Fibrillations, Quaderni dell’Istituto
Italiano di Cultura, Edimburgo, 2001), Sequenza friulana di
Marilla Battilana (Friulian Sequence, Panda Edizioni, 2004), Il
nudo è il tuo abito talare di Arnold de Vos (Nakedness
Is Your Priestly Robe, di prossima pubblicazione), la raccolta
di poesie di Mia Lecomte, Autobiografie
non vissute (Unlived Autobiographies, Piero Manni Editore,
2004), poesie di Manuela Bellodi, Renzo Cremona, Gianpiero Giuliucci,
Jorge Monteiro Martins, e un saggio di Luigi Ballerini, Le
macchine inadempienti di Lawrence Fane (2006).
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Su Versi di lotta
e di passione di Vincenzo D'Alessio
Ed. Gruppo Culturale F. Guarini, Montoro Inferiore, 2006)
recensione di Plinio
Perilli apparsa in Gradiva
n. 30, Fall 2006
D’Alessio
è un esploratore civile e in fondo anche un votato sacerdote
lirico, appassionato e in lotta, in nome e per conto, per canto del
suo Sud – che è poi quello di tutti, il Sud stesso del
Mondo, come immensa implorante radice di fatica e speranza mai dissuase,
mai umiliate, fra mille patimenti, al credo dell'Altissimo: "Tossisco
al buio ammalato / di eguaglianza che nel mondo / non c'è del
pane ai poveri /sognato senza energia. / Dio sorride a noi òmeri
/ di campi bagnati dal sudore. / Alla fine delle ore il tuono".
Un pathos solare, e un immane, oneroso dovere d'impegno, che già
fortificò i versi e le immagini di un Rocco Scotellaro, di un
Carlo Levi, di un Domenico Rea… E ciò nonostante, "quest'antico
amore / senza speranza" e "la terra dei miei padri",
trovano qui forza nuova nel sofferto magma e nel rispettato, celebrato
destino antropologico-culturale di quelle che Pasolini
chiamò, diagnosticò e invocò com e le ragioni e
le radici dell'Antistoria, cioè di una mitica e incorrotta, rischiarante
Nuova Preistoria. Dove anche l' "Agosto solofrano" si fa enigma
e formula, cabala e mottetto lirici, di antica, imperitura, italica,
pascoliana ma rigemmante vera poesia: "Muggisce lontana, nell'aria
pesante, / la trebbiatrice all'unisono delle cicale / che qui cantano
tranquille, assolate."
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Negli occhi
di Carla Bariffi
Tu non chiedi nulla
solo mi dai
questi occhi nuovi
L’immensità di un luogo
che sacro racchiude le forme
Ma i sensi dispiegano un punto
- Qui, sopra l’alloro –
Nel chiostro che vibra
unisono il nostro respiro.
***
Trovarti
nell’ora che tarda
la sera stellata tremante…
Averti trovato e sapere
di nuovo negli occhi
quell’oro del seme,
la luce che porta la gioia
ad un cuore bambino.
***
Hai mai guardato il lago
con occhi che si allargano?
Da questa solitudine sierosa
dove ogni suono esploso
avvinghia il corpo
– Le increspature grevi del sentire –
Ma ancora lungo è
il nome della sera…
***
Conosco i segreti del lago
percorsi di mani
sul viso che vibra silenzi…
E questo sentire che affonda
in questa scrittura che
riempie.
***
Sostava la notte
di là da quel tratto di campo,
sostava con me
aspettando un colore.
***
Stupore
negli occhi che intorno
cercavano appigli sicuri.
Ma calma la voce sapeva
nutrire la vena,
aprirmi lo sguardo…
***
Luccica ora il pensiero
dilata i ventricoli spenti
- dal troppo sperare –
Dilata il respiro
che d’indaco copre la sera.
***
Sentirsi vicino alla vita
– la pelle è una fibra sottile –
Ricalca il profilo dei giorni
e denso il dolore li riempie.
Interstizi che sfuggono al senso
Ma poi
la ragione prevale.
***
Le geometrie dell’anima
smussate
ci rendono nuovi respiri…
***
Come un canto
leggero ti posi sul cuore
L’asfalto bagnato riluce.
***
Riprendo la penna
le dita veloci a tracciare
Simbiosi – verrebbe da dire –
È questo bisogno assoluto
che spurga la mente, è questo
presente che preme, la porta mai chiusa.
***
Lo sguardo è l’intreccio
di questi destini
giostrati con cura nel nome
del Dio che li unisce.
Carla Bariffi vive
a Bellano sul lago di Como. Sue poesie sono state pubblicate in alcune
antologie. La raccolta poetica Aria
di lago è la sua prima pubblicazione.
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Aforisimi e
Poesie (dall'inedito L'autunno dell'anima)
di Roberto Morpurgo
Corpo sarà pure l’anagramma di porco:
ma se è per questo mente è addirittura il programma
di menzogna.
Ciò che è precoce nell’Uno è tardivo e feroce
nei Molti.
Coram populo confessò la sua ignoranza – ma al
forsennato grido di ‘Socrate! Socrate! A morte!! A morte!!!’
tradì prontamente tutta la sua ineccepibile conoscenza
del Codice Penale.
Viveva more uxorio con l’ironia, con la lussuria e -
incredibile dictu! – con la solitudine.
Aveva la puzza sotto il naso, il pince-nez sopra, la cipria intorno
e la cocaina dentro. Di lui si diceva fra l’altro che amasse dormire
fra quattro guanciali.
Imputava al Male quel che amputava al Bene.
Si muore perché prima o poi ci si stanca di morire – questo
direbbe un filosofo: che in silenzio, e a testa china, subirebbe, socratico
martire, la veemente correctio populi: ‘Di vivere –
vorrai dire!’
La parola è l’unica merce per la quale il valore d’uso
coincida sic et simpliciter con il valore di scambio; e alla fatidica
Medaglia dalle coincidenti Facce il popolo dà giustamente un
coincidente nome: significato.
***
Notte d’amarezze e presagio
in grappoli amari
scende la sera
a nubi
in lumi
solitari
sfoglia
uno a
uno
i cieli
ingravida
zattere
e una
è la mia
terra
Quasi annotta (quale specchio)
Quasi annotta
a mezzodì quest’oggi
di tristi ricordi,
tristissime
penombre
E nell’autunno
del giorno
che è la sera
quale
specchio?
Quale chimera?
Insonne
scrivo
giorni di quaderno,
fogli di vita
e invecchio…
Il pino marittimo
I
Sembra che soffra il pino
fra terra e vento
nuvole e sassi
due dilemmi di
pittore
L’anima dentro e fuori
risacca di polveri
votive
In nidi vuoti
nei teschi
vasche di
calcare l’informe
vuoto delle
foglie.
II
Nella medusa fossile
che infuria nel
cielo entro cornici
d’orizzonte
china
la fronte
alla rugosa roccia
palpitante.
III
Un gabbiano di giada
preso all’amo fra gli aghi
inscena il Sole.
IV
Lassù ritesse boccoli
irsuti come
pettini
affabula
pene
a chi lo illude
dona il cielo
quasi un velo rupestre
sui capezzoli nudi
delle Veneri
sbriciolate
dal sale
Roberto Morpurgo
ha 47 anni. Ha cominciato a scrivere a 5 anni, poesie e canzoni. È
laureato in filosofia (passione che tuttora coltiva), si è occupato
a lungo di cinema, teatro e letteratura. Ha scritto vari libri (due
dei quali in uscita presso Joker):
un libro di viaggi in Grecia, un volume di racconti, una voluminosa
raccolta di aforismi, due raccolte di poesie, quattro pièces
teatrali, soggetti cinematografici.
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3 inediti da
Vernissage d'un mixage
di Carmine
De Falco
ACTION PAINTING
Dopo questo spazio. Unghie. Pennello numero 3, sotto questa linea.
Forza, forza, all’armi! Perché questo spazio s’incurva.
Il verde in un oceano di bianco, crudeli.
Sei mai andata a trovarla? Di cosa si muore a Ny Ålesund sotto.
Poi sopra m’immergo. Questa linea. Mi stendo su un tetto e m’interseco.
Violente lucine. Semafori deformi che segni? Quanto questo tempo.
Se il sole illuminasse la tela… Tutte queste lucine.
Mi getto. Una porta. Dove le butti le unghie?
Un balcone, una finestra. Essenza per stanza.
Le cogli o raccogli? Un faretto, sopra questa forma. Mi affianco.
Se solo Pollock m’attorcigliasse una maschera pre-pop e allora
alcuni strati del corpo perdessero tridimensionalità.
Frammenti di denti ne lavi spesso? T’immagini, toccare strisce
di te: piane.
Campanelli, hai finito studi?
Anche i vecchi piangono. Schizzi.
Che pezzo dell’opera prediligi. Domani mi addormento in una piramide
capovolta.
Toccala. È sparito un poliedro. A volte l’oblio non giova.
Gettati.
Gli allestitori non si avvalgono di (validi) lightdesigner.
Ma è un muscolo di un Caravaggio mal illuminato. Tu pensi alle
candele?
Svincoli del raccordo velocissimo come il braccio che m’ha generato.
Mi colano addosso materiali. Piume di topi.
Perché questa forma significa. Domani mattina la barba. Bucce
d’arancia. Dopo questa linea.
… amore anche quest’anno non ci vedremo.
MINIMAL BLUES
La pizza, rosso, color pane, pasta,
Farina, gli occhi, msn crociere,
Un nuovo hub, pontili moderni, la mozzarella
Bianchissima come un seno fonte,
Scaturchio in mano a stranieri, le cravatte
Infiammate d’olimpo, pomodorini cinesi,
Borghi medievali dissotterrati, navi
Fantasma da rompere, teche di vetro e neon
Numerici, sangue disciolto e pietre templariche,
Scudi di bronzo che appoggiano mestoli, scope, volti
Invisibili, padelle di rame illuminate
Dall’olio, falli oblunghi, dorati
E rischiaranti “mendiniani” nella villa, baby
Gang e metropolitane, giornalisti-show girl furbe
E stereotipanti, una pizza e una birra,
Il metrò del mare, caffè per turisti e caffè alla
nocciola, rampe
Che s’avvolgono consapevoli di anni di scuola di tango è
assalto
Onirico ai castelli. Vapore e spuma.
Cunicoli novecenteschi si sommano ai sotterranei perduti.
Che mezzo ci trasporterà nel 2099, pirati
Ci disperderanno, gli studi degl’artisti,
Che cognome hanno sul citofono?
GIARDINO NON_
Jardin del Real
Verdi di sole ordinati
Filari metafisici verso porte
Che aprono il nulla al mondo.
Al castello, Marat
Corpi inermi e violenti. Lasciati
Ammollare in bianche vasche-bacinelle vernice
Che cade qua e là come il mal lavoro
Di un imbianchino e pezzi di arti
Che si intravedono come
Se l’acqua avesse buchi. Pericoli
Di borseggio. Statue immobili
Non abbronzo
La mia pelle alle sette ma almeno
Lascio che sia baciata, pesata
Di vetro solitudine
Due case (speculari) cancellate_
Una di guerra, l’altra
Di morti con parto-aeroplani e disegni
Di bimbi. Altrove distese folli
Di colori, treni, casette con camini, bambole
Deformate, gonne a quadratini azzurri, aquiloni,
Città ricoperte, incendi, memorie.
È il verde in un oceano di bianco.
Bisogna. I fuochi, vestiti accesi
Di carminio esploso, le gambe
Con pelle che arde, la Settimana
Missile aereo che è una tavola
Su cui fuggire – ineluttabilmente –
Intorno a cui spasmodicamente e terribilmente girare.
Gli sfondi vaporosi sempre che non sanno celare.
La Settimana, crudele con gli esseri umani, investimenti
D’estasi, non ben inghiottite
Le cose lente, i fiumi
Verdi non fiumi di Valencia.
Carmine
De Falco, nato a Napoli nel 1980, trascorre l’infanzia a Pomigliano
d’Arco. Vive i primi anni d’università tra Napoli
e Salerno, con una parentesi lavorativa a Roma e nel 2003, vinta una
borsa Erasmus, trascorre sei mesi in Finlandia, dove accumula esperienze
e riflessioni da cui nascerà la silloge Linkami
l’Immagine (con la quale ha vinto il concorso Pubblica
con noi 2005). Si laurea in Scienze della Comunicazione nel 2005
e matura esperienze lavorative come Web Editor. Altri suoi inediti si
trovano nel sito di Chiara
De Luca.
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Piccolo
dialogo tra Bibliotecario e Scrittore
di Andrea Parato
Alle ultime luci della sera, nelle sale della vecchia
biblioteca, ormai vuote, si attarda, solitario, il bibliotecario. Lo
raggiunge, silenzioso, un giovane: scrittore di mestiere, di fama locale,
aspirante a maggior gloria. Da tempo si conoscono, i due, almeno da
quando il giovane ha preso la penna in mano per la prima volta, perché
il bibliotecario lo supera in decenni, ma non tanto in libri letti.
E tale è la loro famigliarità che l’uno chiama,
con un filo di saccenza, Bibliotecario l’altro, e questi, con
un poco di stanca rassegnazione, chiama il giovane: Scrittore.
Scrittore - Ancora a catalogare copertine, Bibliotecario?
Bibliotecario spostando un mucchio di libri da un tavolo -
Sai bene che c’è altro sotto a questi involucri. Riecheggia
la nostra esistenza da libro a libro, da storia a storia.
Scrittore - Io le storie le creo, e sempre di nuove. Manipolo quello
che la realtà mi suggerisce, le elaboro secondo formule e schemi
che mi permettono di avere il prodotto migliore per me, per la cultura,
per il mercato. Tra me e gli scrittori di una volta, geniali uomini
- è vero - ma capaci solo di riportare i casi dell’esistere,
passa la differenza che c’è tra l’alchimista e lo
scienziato.
Bibliotecario estrae un libro da uno scaffale, lo apre e legge:
“L’arte di scrivere sta nel saper tirare fuori da quel nulla
che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina
si riprende la vita e ci si accorge che quel che si sapeva è
proprio un nulla.” (1)
Scrittore - Facciamo solo quello che i nostri lettori desiderano. Leggere
storie è pesante. E noi le “acconciamo” per loro.
Bibliotecario con tono incredulo - Leggere storie è
pesante?
Scrittore - Certo. I lettori hanno poco tempo e troppi impegni. Ci sono
però miglia di interstizi in cui inserire i nostri testi, se
vogliamo che ancora ci leggano. Tutti producono testi: è questa
la verità palesata dal risveglio dell’era della comunicazione.
Se vogliamo che i nostri testi sopravvivano, dobbiamo presentarli nella
maniera più affine, non dico al lettore, ma al mercato dei lettori.
Bibliotecario - Avete tradito il patto. Quel patto narrativo che da
sempre lega indissolubilmente un autore con il suo lettore.
Scrittore - Semmai lo abbiamo rinnovato.
Bibliotecario - No. Lo scrittore ha tradito il patto, ora cedendo alle
lusinghe del mercato, ora disperando di poter sfuggire alle dinamiche
di qualcosa più grande di lui: il marketing editoriale.
E il lettore ha tradito il patto. Ha accettato di farsi raccontare storie,
perdendo però il gusto del chiedere. Anche il bambino che ascolta
una fiaba domanda“perché?”. Ma il lettore non più.
Si è fermato. Non gioca con la macchina pigra del testo. Non
riempie le artistiche lacune della narrazione, non colma le buche, non
scende nelle grotte del mistero narrativo. Semplicemente lascia che
lo facciano altri per lui.
Scrittore - I lettori sono cambiati. Il tempo è poco. E ci sono
mezzi concorrenti a spartirselo.
Bibliotecario - E avete tradito il simbolo. Siamo gonfi di immagini,
ma è persa la strada unica del segno che le interpreta.
Scrittore- Ma di tanti segni non sappiamo il senso ormai da secoli...
Bibliotecario - Dovevamo conservarlo, allora. E di tanti altri avete
forgiato interpreataioni a vostro uso, e con questi attrezzi spuntati
pretendete di spaccare la crosta della Storia e della vita. Non ricordate
più che il simbolo è tramite per comprendere la vita?
Scrittore - “Le civette sono segni” (2). Ma senza una spiegazione,
non è più possibile comprendere il senso. L’educazione
è a carico delle immagini più che del testo lineare. Sappiamo
quanto può essere imprevedibile ciò. Non si può
gestire la portata di un’immagine senza didascalia. Noi conteniamo
questa possibile confusione, questa proliferazione di sensi, ponendo
didascalie di sapere alle immagini di vita.
Bibliotecario - Sono didascalie artefatte, sensazioni che altri hanno
disposto e che lasciano morire l’immaginazione. Poiché
voi selezionate le immagini migliori e imponete le gabbie in cui devono
stare.
Scrittore - Abbiamo solo trovato alcune strategie utili e le usiamo
per ingabbiare il senso. Calcolato il numero dei capitoli, l’esatta
lunghezza per non stancare l’occhio, valutato i tempi medi di
lettura. Anche i paragrafi sono spezzati in modo da essere altamente
digeribili. Lo facciamo per loro.
Bibliotecario - Ma le vostre trame si ripetono, gli stratagemmi testuali
si mordono la coda come serpenti ancestrali.
Scrittore - Non è forse la stessa cosa con la poesia? Non è
una continua ricerca di ridondanze semiche e foniche? Abbiamo storie
adatte tanto per un libro, che per un telefilm che per una trasmissione
dal vivo. Basta adattarle a supporti diversi: non si vende più
l’idea, ma il pacchetto tutto compreso: dal racconto alla trama
per il film.
Bibliotecario - Avete venduto la fantasia al marketing della cultura.
Scrittore - Sì, la fantasia… abbiamo preferito dare risposte
immediate e concrete ai nostri lettori. Ancora una volta, Bibliotecario
apre un volume, dalla copertina sottile e lucida: “La fantasia
presenta anche un inconveniente essenziale: è difficile pervenirvi”
(3).
Bibliotecario - Spiegare non significa indurre a interpretazioni univoche.
Avete mezzi per metter a tacere tutto il resto e fare gridare solo le
vostre storie ben preparate. La storia diventa mito falso. Mentre i
vostri racconti assurgono a verità. Perché dovrebbe esserci
del vero vostro libro? Perché vero il vostro segno scelto e preparato?
Perché non lasciare più al vaglio del tempo?
Scrittore - Non c’è storia oggettiva. Non mito che sia
riconducibile alla verità. Tutto è racconto, quante volte
lo devo ripetere? Scegliamo i racconti più adatti, ora al pubblico
dei lettori, ora a quello dei telegiornali, del cinema, della radio,
dell’internet. E ciò che ne deriva, la combinazione di
informazioni che ne genera altre, ha del miracoloso: le informazioni
proliferano come un coacervo di testi che da monocellulari generano
storie complesse. Sono i nostri testi che fanno la realtà, ora.
Bibliotecario - Bella illusione la vostra: che ciascuno possa scrivere,
quando poi sono pochi a essere noti e scelti e pubblicizzati. Finite
col fare degenerare l’autoreferenzialismo e chiudete i cancelli
del sapere ostruendoli con migliaia di copie di testi che nessuno avrà
mai voglia di leggere. Invece è “il mito getta luce sul
mondo” (4).
Scrittore - Non abbiamo tempo di attendere alcun vaglio. Le scelte le
facciamo noi. I romanzi di educazione sono roba dell’altro secolo.
Le grandi epopee narrative sono materiale da bignami. I classici servono
per le citazioni. Anche la televisione ha smesso da trent’anni
di voler educare, informare, intrattenere. Siamo noi che impostiamo
e offriamo nuove storie, nuovi miti. Poco importa quanto di vero ci
sia dietro.
Bibliotecario – Dunque le storie prendono il posto del mito o
della Storia. Ma se la storia non è più tale, un falso
mito la supplisce: “La storia spesso rassomigli al mito, perché
l’una e l’altro son della stessa materia” (5). Non
siete più mi-ti-fi-ca-to-ri, creatori di miti dall’impasto
del vero della Storia umana. Ma mistificatori. Sentito questo, il
giovane si volta e attraversa la porta della biblioteca. Il bibliotecario
fa per richiamarlo, poi si arresta. E mentre con un vago sorriso ricomincia
a rassettare i libri sparsi, un pensiero gli passa per la mente: “ormai
sono ammutite le canzoni/ e il mondo va in malora” (6).
(1) Italo Calvino, Il cavaliere inesistente.
(2) J.R.R. Tolkien, Sulle Fiabe.
(3) Ib.
(4) Ib.
(5) Ib.
(6) J.R.R.Tolkien, Il ritorno di Beorhtnoth.
(Santarcangelo, in occasione dell'open
day fariano 22 ottobre 2006)
Andrea Parato
ha pubblicato con noi Da
luoghi intravisti e Il
nostro esilio quotidiano. È stato anche nostro giurato.
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Poesie
di Mimmo Cangiano
Ad ovest stamattina
è un luminar di vetri,
nella casa di fronte, al quarto piano,
la bimba Carlottina si perde un poco sul balcone
e tace. Dev’essere così che prende il via
quel sentimento che porta all’onniscienza
così, con lentitudine in spagnolo,
spaventosa chiaroveggenza, inettitudine.
La mamma, ancora un po’ nel buio,
lascia una scia di cipria e di rossetti,
io risfoglio con pazienza qualche lampo
di ricordo e mi appresto
a metter via i cocci della sera,
gocce di grappa e fata,
mi recito qualche poesia
qualcuna che ti avrei letto
ma l’ho dimenticata,
via Paradiso adesso
sarà uno sfaccendare di macchine e caffè,
io prima e io adesso siamo in due
mi ripeto, ma ci credo poco
tutto conosco ed anche
tutto ignoro
se l’innocenza è colpa di me,
colpa l’assenza
e stolto io soltanto a immaginarlo
l’imprevisto, la punta del tuo dito
che si perde sulla scia
del perdono e dell’etere
e invia.
Penso che passeranno queste sensazioni
ricordi quasi a zero, mal di testa
sentori vaghi di aglio e di cedrina
al terzo piano la fine della festa
colori della piazza alla mattina.
Fuori un asilo
Quello che non ti ho detto
è la cosa che più amo e più detesto:
fermarsi. Indugiare al limitare
degli affetti, e dove in larghi giri
risuonano i richiami dei bambini.
Qui ancora non esiste l’esistenza,
e nell’ora che precede il pranzo
si sta come arginati,
in un sentore di convalescenza.
E in ciò mi pare
di riposare ogni certezza,
in ciò che non è vita
ed è fotografia.
Carlotta mi torce le dita
“dai Mimmo andiamo,
andiamocene via”.
per G.
Disceso anche che sia lo stesso tratto
o persa
al limitare della via
tu non m’abbandonare
e resta intatta.
Facile cosa è ricordarti qua,
ferma in una ferocia senza traccia
quando la notte avvampa e tutto intorno
il buio cade, si sfa.
E il chiosco di giornali alla mattina
e la signora che… ma tu te la ricordi la signora
io non ne parlerò, dirò della discesa timida,
rapida sulla curva che s’avanza
e ride, e spicca un salto
sopra il cerchio ricurvo, alla montagna.
Dirò l’acciottolato che si perde
dentro un’altra città che inarca il viso
e dove si protende (lento) un suono
di campanella e di confetteria
che risplende a un declivio, d’improvviso.
Forse non ci consola una parola
scagliata sullo sfondo, oltre il confino
o sulla schiusa
del tuo profilo appena reclinato
sulla ciocca.
Rientriamo assai composti e in maestria,
uniti nel commiato che prospetta
un’altra citazione, l’ultima,
un’altra cortesia.
Poi domani sarà un altro cammino,
i tuoi passi leggeri, i miei più stanchi,
questa tara che appare sulla scia,
questo andare terribile degli anni.
***
A ripensarci bene
non mi è rimasto molto
del tuo passaggio breve:
l’odio per tuo padre,
il violino mai voluto
né comprare né suonare
(qualcuno mi ha poi detto che eri bravo
ma io non gli ho creduto).
Il tuo gesto (se c’è stato)
riserba intatte le sue cause,
da vecchio amico mi limito
qui ad annotare
quel poco che abbiam detto
quel poco (niente quasi)
che rimane.
Il 9 ottobre del ’98
seduti all’osteria, tu pensa,
noi si parlava di ontologia,
positiva nel suo farsi
o nemica?
E tu:
“è temporale
si lega al filo doppio della storia, ci inganna
e già scolora
nel bordo della pagina, si insacca
nelle pieghe, da lì
dilaga”.
***
La mia faccia, straccia d’acqua
e opaca, a breve parrà
quella di un satiro,
un eczema un giorno
la prenderà del tutto.
Una buona volta (mi dico)
rinuncia a vendicare,
ugualmente rinuncia
a consolare.
Il mondo non può vivere
nel mondo in cui lo collochiamo
perché tu e te sono solo pronomi
modi di fare
che gli prestiamo,
e inazione e movimento
non sono sostantivi
(mai stati, credi)
sono aggettivi,
non si scorda il destino,
del verbo la dittatura
al congiuntivo.
Ho solo l’immagine di me
di te appena più lontano
perché il tu
è sempre un’invenzione
il suono del telefono
occupato.
“Mimmo cattivo Cangiano (dice)
quand’è che imparerai?”
Poi alla festa la spinta,
lo strattone.
***
Giuliana,
che i miei nuovi amici non sappiano
niente, di te, del trentuno luglio,
del ’93, ti suonerà normale,
“dovuto” quasi, ripetevi ad ogni incontro
di polvere e liquame sull’asfalto.
Se dopo il mare
(tua madre sorrideva dal balcone)
e rinfacciava il caldo alle persiane,
tu fa’ silenzio, non lo diremo,
giura.
E poi di corsa
al passo delle scale
che rimbomba alla porta
e alla paura,
ma tu come la svanghi?
Io, per me, penso,
m’inganno, studio
faccio letteratura.
Mimmo Cangiano è
nato a Caserta nel 1981. Si è laureato all’Università
di Bologna con una tesi sulla ricezione di Nietzsche nel primo Novecento
italiano. È redattore della rivista Tabard.
Collabora al blog Fuoricasa
dove sono apparsi suoi interventi critici. Ha pubblicato due racconti
a quattro mani con Eugenio Santangelo su Atelier.
È attualmente dottorando in Italianistica presso l’università
di Firenze.
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Una sorpresa
in quattro tempi
di Ivan
Nicoletto
1/Dalla necessità alla libertà
Stiamo scorrendo nel flusso delle ultime settimane dell’anno
liturgico che sfocia nel tempo di Avvento. Vorrei cogliere in un frammento
del vangelo di Luca – che ci accompagnerà nel cammino domenicale
del nuovo anno – l’occasione per suscitare una sorpresa
in quattro tempi.
Luca mette in bocca a Gesù la non entusiastica constatazione
che se i miracoli compiuti nelle città abitate da credenti fossero
stati compiuti in città di miscredenti, queste avrebbero cambiato
modalità di esistere già da tempo (Lc 10,13).
Proviamo a riconoscere alcuni di questi miracoli, che stanno forse avvenendo
sotto i nostri occhi ma passano inosservati o trovano resistenze proprio
negli stessi soggetti credenti, che li avvertono come destabilizzanti,
incutono paura, chiedono un sovrappiù di affidamento…
Un primo miracolo che è avvenuto nel nostro tempo lo scorgo nel
passaggio dalla necessità alla libertà di credere
in Dio. Credo che mai come oggi sia possibile ringraziare Dio di
essere liberi da Dio, come si esprime con una delle sue folgoranti intuizioni
Meister Eckhart. Spesso la credenza in Dio è stata indotta dal
bisogno di immaginare una forza onnipotente e rassicurante che sta al
di sopra di noi, presiede ai processi cosmici, naturali o storici come
un architetto alla sua costruzione, supplisce alle carenze di spiegazione
umana dei fenomeni, fissa e giustifica le norme e le forme di convivenza
sociali di una data cultura…
Mi sembra che oggi, grazie all’autonomia acquisita dalla coscienza
e dalle conoscenze umane veniamo disarmati della necessità di
dover ricorrere a Dio come necessità, come garante di un ordine,
di un senso univoco o di una struttura rassicurante. Il credente è
invitato dalla stessa fede a sbarazzarsi del Dio che è chiamato
in causa quando l’uomo non può fare altro, appellandosi
a presunte azioni divine nella storia.
Si creano così tanti spazi liberi e creativi di ricerca e di
comunicazione grazie ai quali offrire i nostri corpi alla presenza operante
di Dio perché maturino frutti di fede, di speranza e di carità.
Invece di un atteggiamento dispotico e altezzoso ci è chiesto
di collaborare, con umiltà e coraggio, nelle peripezie della
conoscenza umana, per promuovere dinamiche di vita più ricche
e promettenti rispetto a quelle che sono emerse finora nella storia.
Una libertà della fede che si fa apertura di un Dio sempre più
grande e ulteriore rispetto alle nostre umane conoscenze e linguaggi,
che tendono facilmente a trasformarsi in universi escludenti e concentrazionari.
2/Il miracolo del superfluo
Un’altra esperienza sorprendente alla quale stiamo
affiorando la chiamerei il miracolo del superfluo. Forse per
la prima volta nella storia ampie zone di umanità accedono ad
una condizione di benessere, di eccedenza, di godimento il cui problema
non è più tanto quello di produrre i beni necessari, sotto
la condizione del bisogno, quanto semmai di smaltirne i rifiuti. Tutto
questo solleva senz’altro la questione della sostenibilità
di un certo modello di sviluppo, ma al contempo fa sorgere la domanda
se le religioni, e fra di esse la veste istituzionale che ha assunto
anche quella cristiana, legate dagli inizi ad una società della
mancanza, della contingenza, del sacrificio possono venire incontro
ad una società che sta bene, che per certi versi affonda nel
superfluo, che rivaluta l’umana abitabilità del finito,
della corporeità, dell’emozionale, del ludico, del desiderio…
Non chiede, forse, questa svolta, di passare da un regime moraleggiante,
molto spesso proibitivo, ad una concezione bene-dicente dell’uomo
e della amabilità della vita? Di passare da una falsa identificazione
con la sofferenza ad un accompagnamento fiducioso delle tante situazioni
imprevedibili che vengono alla ribalta della storia, nei confronti dei
quali spesso non sappiamo offrire altro che condanne, come nel caso
dei divorziati, dei gay o delle coppie di fatto?
Credo che il mutamento in atto ci connetta più intensamente al
mistero dell’in-carnazione immersiva di Dio. Un Dio appare nella
finitudine arrischiata della carne umana irraggiando gesti, sguardi,
immagini e parole che eccedono le misure dei corpi sociali, politici
o religiosi, detentori del senso e dell’ordine prestabilito. Inaugura
una dinamica di smisuratezza nell’accoglienza di ciò che
viene ritenuto impuro o maledetto, e nel perdono portato all’eXtremo.
Abbatte le frontiere fra sacro e profano, laico e sacerdotale, bene
e male, e condensa questa arditezza nel gesto amante della lavanda dei
piedi. Risveglia, al cuore dell’umana produttività e dell’accumulo,
le dimensioni lussuose dell’inutile, dell’inoperoso, dello
spreco, dell’impossedibile, del gratuito, del consumo… fino
alla consumazione di sé.
3/Dall’omologazione alla personalizzazione
Un terzo miracolo in atto vorrei coglierlo nel mutamento
dalla omologazione alla personalizzazione dell’esistenza.
In alcune zone geografiche della terra stiamo vivendo il passaggio da
forme di massificazione omologante, attraverso istanze democratiche
e oltre. Nel corso di questi mutamenti si sono create per i singoli
delle condizioni di libertà tali da poter corrispondere con creatività
alle potenzialità che ci sono affidate in dote e in pegno, nel
dispiegamento di sé e in relazione agli altri. Negli sviluppi
delle forme organizzate della vita, quali si sono date finora, sono
prevalse istanze istituzionali e sociali o corpi rappresentativi che
hanno imposto una cornice di comportamento costrittivo e impositivo,
un’appartenenza coatta, un’interpretazione univoca e assoluta
dell’esistenza, fuori della quale non era nemmeno possibile immaginarsi.
Ogni tentativo di mutare il codice prestabilito, di uscire dalla circoscrizione
assegnata di senso veniva puntualmente espiato con l’esclusione,
la reclusione o la cancellazione dell’alterità.
Gli inediti contorni del mondo di cui iniziamo a fare esperienza, seppure
minacciato dalla nostalgia ricorrente di poteri istituiti totalizzanti,
si dispiega invece in una proliferazione di differenze, di racconti
parziali e relativi, di identificazioni multiple, di disseminazioni
di verità di cui ciascuno è portatore singolare e irripetibile,
nella condivisione e nello scambio.
Non crediamo più ad un centro o ad una meta obbligata della storia,
ad una totalità di senso, ad una produzione autoritaria di verità,
ma ciascuno di noi è invitato a scoprire le tracce di un Dio
che non ha pietra dove posare il capo, in un esodo che non ha sosta,
su di una strada in cui ogni giorno si comincia di nuovo, in un confronto
con l’altro che ci interroga e ci chiede di essere ospitato. Una
fede che si espone ad un Dio non più immediatamente riconoscibile,
fede in un Dio innominabile, vissuta nell’anonimato, eppure lievitante
la pasta della nostra umanità.
La prassi di Gesù, del Dio incarnato, implica un innesto senza
riserve nell’ambiente umano, un’attenzione capillare diffusa
ai dettagli della vita quotidiana, la propensione a dare voce e corpo
alle storie quotidiane sommerse, quelle ritenute insignificanti, infinite
e infime di ciascuno, incluse le parti dissonanti, ferite o risentite,
sfigurate, che chiedono anch’esse espressione e riguardo.
Questa personalizzazione è l’inveramento di uno spirito
evangelico di pietà per ogni storia, magari piena di crepe, ad
immagine dell’accoglienza di un Dio crocifisso, ridotto a nulla,
accomunato ai molti crocefissi della storia… Eppure, in quel vinto,
in quel sommerso che si impatta con il negativo, che si lascia consumare
o divorare dalla vita, si manifesta tutta la passione creatrice del
divino… L’affidarsi di un Dio alla ricettività e
responsabilità personale di ciascuno, a cui dare la propria voce
e carne, senza previa garanzia o copertura istituzionale contro il rischio…
4/Da una chiesa eurocentrica ad una chiesa eccentrica
Un quarto miracolo lo scorgo nel passaggio da una chiesa
eurocentrata ad una chiesa eccentrica, aperta e interattiva con la pasta
della storia. Qui il mutamento è davvero radicale. Chiede la
fede di Pietro, quella che lo autorizza ad uscire dalla barca, dal cenacolo,
da Gerusalemme per camminare sulle acque incerte e tumultuose del mondo.
Spogliati di tanti segni maggioritari, prominenti e imponenti, il corso
degli eventi ci depriva dello sfarzo a cui per secoli ci siamo abituati,
ci chiede di rinunciare volontariamente ai vantaggi di posizione acquisiti,
alla preminenza di una chiesa che fa parte dell’ingranaggio della
società e che a sua volta supporta i poteri istituiti che la
sostanziano nelle sue declinazioni sacrali, etiche o valoriali. È
lo sfaldamento di una forma di cristianesimo, la cristianità,
nata dall’idea di essere garante e mediatrice del regno di Dio
nella città terrena, attraverso le forme politiche e sociali
del mondo. Un progetto che la modernità ha fatto crollare e che
può diventare occasione favorevole per immergersi nelle sorgenti
evangeliche dell’affidamento allo Spirito dell’Amore.
Mi sembra che nel processo di mondializzazione in cui siamo entrati,
veniamo sollecitati ad una convivenza non violenta dei diversi. Siamo
posti innanzi a tante espressioni dell’ineffabile mistero divino
che attraversa ed è presente in tutte le regioni dell’esperienza
umana. Il Divino, mistero incontenibile, è il respiro di tutte
le forme, i linguaggi, le pratiche che lo esprimono, e tuttavia non
è da nessuna contenibile ed esauribile. Nessuno è il centro,
il tutto, la parola definitiva, ma tutti riceviamo l’energia,
il respiro dalla Sorgente della Vita. Il che ci spinge a non asserragliarci
in chiuse e impermeabili identità ma ad aprirci gli uni gli altri,
ciò che le persone profondamente religiose da sempre fanno e
vivono, indipendentemente dai loro ruoli e dalle loro appartenenze.
Lungo questo cammino possiamo scoprire il volto inedito di Gesù
che ci si può rivelare sulla strada di Emmaus, nel volto dell’estraneo
e dello straniero, del mussulmano o del buddista, del cinese o del senegalese…
Da questa ospitalità e contatto non sappiamo se ne nascerà
qualcosa di nuovo… ma intanto lasciamo vivere le differenze, anche
se in modo sofferto.
Tutto questo ci conduce a dire che, forse, l’unico miracolo è
che ci sia ancora fede, che il cristianesimo comprende anche lo sfacelo
della croce, l’abbandono ad un amore più grande, la forza
insperata di una resurrezione. Il mistero cristiano crede che in Dio
ci sono relazioni, aperture, istanze diverse, dialogo, polarità,
libertà plurime, processi di trasformazione e gusto per l’avventura,
fantasia del possibile, per un avvento di grazia…
Ivan Nicoletto (Vò
Euganeo, PD, 1958), monaco all'Eremo
di Camaldoli, si è laureato in filosofia all'Università
di Padova e si è licenziato in teologia alla Pontificia università
gregoriana di Roma. Accanto ai servizi che svolge nella propria comunità,
si interessa principalmente dell'intreccio tra fede, pensiero ed espressione
artistica. Ha pubblicato presso Edizioni Dehoniane I
passaggi di Dio.
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3 poesie
di Alessandro
Ansuini
CORA
Cora, lascia cadere così profonda l’ombra
il sesso della notte sfasciato
fa rumore d’acqua – ragni e stalattiti
osservano da un unico occhio cieco le mani
che a tastoni nel buio
cercano la sicurezza delle lampadine –
4 e 27 di notte – dove le lancette
degli orologi tondi mimano
pallavoliste in ricezione –
diresti mai che a quest’ora in vietnam
una ragazza con le calze a rete bucate
si piega, con un ombrellino, a raccogliere
una penna? Chi vuole essere moderno
parli ora o taccia per sempre
invecchiando dentro a golfini logori
con le tasche delle giacche logore piene
di fazzolettini di carta induriti,
la lista della spesa di Schiele
prevedeva gambe rachitiche e una vena
di anemia mediterranea mentre quella
di Joyce dei coglioni di toro e
piccole Silvia Plath in piedi dietro
ai vetri delle finestre ad alitare
condensa sul vetro, possibile
che ogni ragazza sia ansiosa
di indossare le movenze
di tua madre (così goffa
nel bagno così precaria) oppure
perso nei riflessi non ti accorgi
che tua madre sei tu – possibile
che si sia scavati da una cosa
che scava (come) le onde
elettrostatiche della televisione –
Cora, questo lessico sbagliato
quando dico amo non so
di che cazzo sto parlando
magari sto pensado a ragazze vietnamite
con lo smalto nero sulle unghie, dico amo
e forse intendo proprio un uncino
una cosa che ti si incastra nella guancia
e non si tira più via, vuole te
vuole te vuole te e non c’è nulla
da temere – ho almeno sedici prove
della mia inesistenza, persone che
dicono di avermi visto nel 1968,
appuntamenti sbagliati, ho le tasche
piene di scontrini puoi verificare
Cora, mia adorata, voglio sentirti correre
lungo un corridoio in penombra,
voglio sentire il rumore dei tuoi
piedi scalzi, c’è una quantità
d’immaginazione ed egoismo
nella parola desiderio che purtroppo
ti esclude, amore mio – nel mio regno
sei sempre la stessa ragazza
che sparisce, il corto
circuito di un sogno che ti vede
tornare ogni volta, fantasma,
non potrei dire di essere reale
non potrei assolutamente dire
di essere reale non ho certezze
di essere reale le mie mani
non esistono, sono atavico,
sono giallo sono una foglia
di insalata iceberg non potrei
dire di esistere figurati che Pynchon
vede solo De Lillo due volte l’anno -
pensa cosa ci poteva capitare, Cora
amore mio, te lo garantisco, io non esisto
sono innocuo perciò non capisco
come pretendi possa
confutare te.
LA SITUAZIONE DEL CORALLO
Rovinare è la parola, l’atteggiamento,
il tuo modo di irrompere nella situazione
è rovinare, dentro, nell’attimo, scavalcare,
hai un’attitudine invasiva, una permanenza
ottusa e incantata, come una fotografia.
“Sono nan goldin con un occhio rosso
dopo essere stata pestata” dicevi
con i piedi a mollo dentro la piscinetta che
avevamo gonfiato e portato su
nella terrazza abbondanata, volevi essere
patti smith fotografata da mapplethorpe,
dicevi che era così sessuale mapplethorpe,
così nervoso, ricordava iggy pop, dicevi
sono nan goldin ma stavi cercando
la posa di patti smith, e mapplethorpe non solo
ha fotografato iggy pop, ma quando
penso a lui mi viene in mente un culo,
e qualcosa che entra, o esce, fruste,
o mani, e comunque, fra questi specchi,
tu, dove sei tu?
Dovrei portare un registratore con me
e parlarci dentro rivolgendomi a un terzo
dicendo, magari:
lei deve sapere che oggi, oppure, lei
deve essere informato del fatto
e annotare piccole cose, l’impaccio
della cassiera nel supermercato, o tutti
i miei problemi inerenti la volontà, l’impossibilità
di concentrare le forze verso
il gesto della volontà, desiderare
qualcosa e farla, immaginare qualcosa
e compierla, anzi, il terzo a cui mi rivolgo
dovrebbe essere una donna, dovrei dire
giulia, mi ricordi di prendere, oppure, giulia, oggi ho visto
immaginare una segretaria, un conforto, un rifugio,
comporre un’entità, un privilegio, un vizio,
confidarcisi, parlare, aprirsi
comunicare
(giulia, ricordami che devo fare la pulizia dei denti)
ammirare la natura è un altro atto di forza che vorrei costringermi
a perpetrare, la contemplazione, in fondo, è una questione importante
e assolutamente trasversale, dalle raccolte di racconti di kafka
fino allo scopo ultimo dei monaci certosini, la contemplazione
assurge a ruolo di dottrina, essere un occhio appannato, instancabile,
giulia, lei deve sapere che ho paura di guardare nei buchi degli scarichi
–
una stazione radio, un’antenna d’insetto, ricettori sensoriali
sulla
ruota karmica i poeti hanno disdetto il patto sociale, questa
confraternita del dolore immaginato che si specchia
nelle pozzanghere e non riesce a stabilire un soddisfacente
e vicendevole rapporto con la propria sessualità fotografica
– giulia, mi ricordi di essere criptico e affascinante, come un
salvadanaio –
uscita dalla piscinetta e sdraiata nel sole non vuoi sentirmi parlare
del dolore, di gadda, della sottrazione del dolore alla generazione
che vive proprio sotto questo balcone, un vecchio in una stanza ovale
pare avesse intuito questo e non sia riuscito, nonostante la sua consapevolezza,
ad evitare il vietnam ad una serie di giovani procreatori americani,
millenovecentosessanta e qualcosa, colori più tenui, all’epoca,
e sotto la lingua una lingerie di chimica colorata,
i giovani di oggi vogliono piangere per una paese lontano, vogliono
difendere lo zibellino maltrattato dai cinesi, vogliono indossare
sciarpe bianche e nere ma non vogliono tirare i sassi, vogliono
sentire il dolore del dalai lama in esilio assediato dai cinesi –
giulia, ricordami di inviare un articolo con la modifica del concetto
di famiglia su wikipedia –
cosa posso dirti, sei sdraiata, così bianca, dotata di smalto,
inconsapevole, potremmo parlare per un’ora e divertirci per un’ora
io potrei pensare questo mentre lo facciamo e alla fine
dire che siamo apparsi così poco brillanti, eravamo rigidi,
tu diresti siamo stati bene, io così confortato nella pianificazione
anticipata di questa situazione mi sentirei a mio agio,
appena un attimo, e poi mi volterei verso il vino,
– giulia, il tempo passa?
Come ti dicevo, rovinare, in un moto di crollo,
uno straripare convulso, insetticida, ti desidero
perché non c’è nient’altro da desiderare,
o forse
sono qui per custodire un’integrità che non è solo
mia,
fra me e te chi è appendice e chi ponte?
La situazione del corallo, o della monnalisa,
mi sono care e incantate per perfetta aderenza al silenzio.
Eppure nei pigmenti tu accatastavi le grida, dicevi
che un solo pigmento di colore era una grata di bocche
straziate - tu così drammatica, quattro sonetti e una rassegna
domenicale sul cinema russo, potresti essere così radical chip
oppure semplicemente impaurita, un caso comune di
sovrimpressione di personalità materna, siamo fatti in calco
profumati col talco da mani ancestrali che ci vogliono
rovinare dentro, allungare orribili ricurve maniospedale
dentro i nostri costati bunker bambini –
giulia, ho visto una bambina sbattere la testa contro un muro
giulia, ho visto un piccione parlare
giulia, ho una leggera tachicardia, mi prenoti un check up
giulia, il fatto di non avere nulla mi garantisce contro gli esattori
giulia, mi ricordi di creare una serie di personaggi per una serie televisiva
(di almeno 12 puntate)
gulia, mi si chiudono gli occhi
(a questo punto c'è l'osservazione prolungata e netta
di un fiore finto, rosa, in un vaso verde, dal collo lungo
per un tempo indefinito, in cui pensavo
alla polvere)
CIABATTE O CAMOMILLE O FILM DI JODOROWSKI
Poiché eclettica e giustamente disordinata, lei,
(e sua sorella di fronte a lei come
in uno specchio) butta giù un alcolico
dietro l’altro – noi sui divani o con lo
sguardo posato sul lungofiume
di qualche cornice di quadro, a stipulare patti
sottobanco con l’anima nera dell’arte, quella
che non si confessa e prende
una pistola in mano per scardinare
le coordinate: party / droga / indice di gradimento
ma "Chi vuole prendersi cura
di un pensiero stasera alzi la mano",
proclamai a piena voce in piedi
sopra il tavolo calpestando il cd aperto
di live in pompei dei pink floyd,
syd barret non si lamenterà, imbottito
come un animale impagliato nel verde
della campagna inglese sogna di noi
che cominciamo a comunicare
a gesti minimi, e lui stesso,
lui stesso ha istruito
un piccione viaggiatore che si prenderà
la cura di consegnare le sue
ultime parole - scritte in calce
ad un’annotazione polemica
sulla fotografia - signori,
si nasce dalle gambe aperte
di una serata nata per altro,
ciabatte o camomille o film di jodorowski,
e si finisce dinoccolati su divani rossi rossi
alla fine di corridoi tremendamente bianchi
imprecando per la mancanza di una cinepresa
o di una fotocamera digitale, parlando
con uno di potenza per esempio,
o con un altro di lipari, adducevo
che si è strani recettori di impulsi,
filtri distorcenti che in possesso
di una penna trasformano, in possesso
di una macchina fotografica imprimono
un senso alle cose che tutte, noi compresi,
stanno in fila o in disordine, cosa importa
a un posacenere della filologia
nessuna esegesi è stata richiesta
la volta che lei con parole sacre
ti ha lasciato lì, in un ristorante cinese
o in un anfiteatro, con la scritta
VAFFANCULO
incisa nelle carni di quest’estate
in cui gli u2 avrebbero potuto scrivere october*,
e non era arte quel suo uscire dalla stanza
in gonne svolazzanti, e non era forse scalza?
Affaccendàti, inconsulti, carichi di sperma
da perdere senza pretese e variegati di rum,
liquore buono a stirare sorrisi
e inarcare schiene, vaghi come nebbie
in un campo al mattino siamo sempre
sul punto di andarcene, ma le sorelle
custodiscono alcuni segreti
di straordinaria importanza,
nella circostanza, trasformata in stanza
del circo con trapezisti francesi dondolanti
dai lampadari e alcuni siciliani (di agrigento)
che aprono bottiglie con la mano sinistra,
bratislava è tremolante sulle luci sospese
lungo il davanzale eretto
in difesa della cristianità e le due sorelle
ballano una nuova danza chiamata “tsatsiki”
(in onore di una salsa greca) sopra just dei radiohead,
siamo nel 2006, il sessantotto ha dato
le scarpe a quelli che ora occupano le cattedre
con i loro capelli lunghi e i cortocircuiti di senso,
“ogni poeta è un avanguardia” mi viene da dire
alla ragazza dalla carnagione scura
che mi ricorda la segretaria
di uno studio notarile con il lucidalabbra
e un profumo troppo forte (chanel nr.5)
“Guarda questa stanza” dice lei “Guarda
questa stanza, ognuno
fa quello che cazzo gli pare” dice
mentre io scivolo dal gradino, sbilanciandomi
con le braccia e mulinandole
come icaro sul ciglio del burrone,
per rientrare dentro me stesso
come un astronauta che dopo una riparazione
rientri nella navicella, asserend
“Allora ogni poeta è molte avanguardie, anzi”
e sorridere, ubbidire, puntare lo sguardo,
distendere le gambe ad angolo scaleno,
sentirsi rispondere: “anzi cosa?” e lo dice lei,
lei che vuole sapere, novella lolita
carica di attenzioni per la sua amica
impreziosita dalla conoscenza del balletto
di futurama e da un piccolo rasta
sulla parte sinistra del cranio,
vuole che le sia rivelata la formula,
che la stanza si spalanchi e ci lasci
eretti come moccoli di candela sbrodolati,
bruciando da una sola estremità,
le risposte, le spiegazioni, le vuole,
le vuole tutte, ma è tardi, perché
quel qualcosa che stavamo cercando tutti,
con ogni probabilità ci ha già trovato,
me e le sorelle e la ragazza col rasta
e tutti i dondolanti in questa stanza, e dunque:
“Anzi” dico io.
E comincio a ballare.
* artur scantini
Alessandro
Ansuini, romano, classe 1974, vive e lavora a Bazzano. Ideatore
della editrice clandestina Smith
& Laforgue Indipendent Press, membro fondatore del gruppo Karpòs,
è parte integrante del progetto Camera Mix, ensemble di sonorizzazione
d’ambiente, col quale ha fatto numerosi interventi in italia e
all’estero. Opere pubblicate: Ronde
de la nuit (Ed. Liberodiscrivere, 2002) Appena
(Ed. Ifiglibelli 2003), Zero (2005) Indagine
di uno stalker a proposito della muraglia cinese (2006) Ed. Liberodiscrivere.
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Su La distanza immedicata
e altre note di lettura
di AR
La distanza
immedicata / The Immedicate Rift di Stefano
Gugliemin (Le Voci della
Luna Poesia, 2006, testo inglese a fronte a cura di Gray Sutherland)
… la poesia è ancora possibile proprio
perché è il divenire stesso del mondo, è l’emblema
stesso della continua lotta che caratterizza gli opposti che fanno essere
la realtà. (…) E attorno al concetto di movimento, cioè
di caduta e separazione, si impernia il libro (…) laddove non
è possibile raggiungere l’opposta riva o fermare lo scorrere
del tempo, è la capacità metamorfica del linguaggio poetico
di dire le cose che permette l’esistere (il farsi) del mondo…
– così Giovanna Frene nella prefazione.
L’acqua, corrente oceanica stagnante, è l’elemento
primordiale in cui si fluttua, ci si dibatte e in cui si sviluppa la
domanda sereniana che funge da esergo alla nuova raccolta di Guglielmin:
“Di noi che cosa fugge sul filo della corrente?”
L’Autore estende la domanda al mistero che sta oltre, a un dio
“che veramente sia felice, che lo sia / eternamente, e per noi”
(p. 17). Un dio necessitato da un bisogno umano o un bisogno necessitato
da Dio? La risposta mi pare resti sospesa, i versi di Gluglielmin tranciano
l’esistenza dei corpi e delle menti (delle anime?) come se la
sottoponessero a una tomografia: “a che cosa pensa il piede /
sull’erba e il cuore a che cosa / la bocca e ogni più bella
parola…” (p. 19); “… se sei punto o covo / io
che in me batti e sporgi fuori / e parli e vedi e scampi / al vuoto
«dove cominica – chiedi – / dove finisce io dove finisco
/ (…) / se parlo e ovunque muoio?»” (p. 23). Questi
versi, appartenenti alla prima parte (quasi una cosmogonia) del libro,
“Oceano e Teti”, dà il là alla distanza
immedicata della parola (anche e specialmente se poetica) e della
vita: quella di un essere che sa di non poter perdurare in questa forma,
di un pensiero che si trova immerso in una realtà intimamente
inattingibile che può solo sfiorare, come in fondo non esistono
definizioni esaustive del mistero che siamo a noi stessi (parafrasando
S. Pio che ha probabilmente presente S. Agostino).
Lo stile di Guglielmin è pulito, icastico, con scabrosità
sintattiche non inficianti la purezza di un dettato che poggia su una
tradizione secolare (si veda la sezione intitolata al petrarchesco fiume
Sorga) non esibita ma intelligentemente accennata con linguaggio affatto
moderno: “e nessuna vita d’avanzo nessun cielo / se non
questa città tutta tosse e vecchie ragazze” (p. 39). Sì,
versi in cui le cesure sono forti e il significato sembra stallare eppure
le immagini sono vivide, stagliate: “in ogni verbo dove girano
mano / e piede s’accampa una pietra / dura come la donna che si
chiama / laura ma anche l’acqua l’olio o cavarsi / il seme
ogni cosa in montagna / sfianca però poi rinasce stalla…”
(p. 35); “… l’intera specie e ogni luogo sulla pelle
/ come capro esposto o fàntolo neonato / solo nel sacco / perduto”
(p. 41). Passando poi per la sezione “Stige” arriviamo al
verso da cui l’intera raccolta è “nominata”:
“… per ogni pietra / vera una felicità / di vanga
come / suoi fuochi le anime in rivolta o / al lascito dei baci / la
distanza immedicata” (p. 49). Segue la sezione più prosastica
intitolata all’ “Ouse” in cui si immerse Virginia
Wolf: “… il / corpo lascia terra per sempre. e vola, un
poco. e sale. poi cede / perché corpo, costa estesa e dunque
peso, ostile al nuoto e / all’aria a volte…” (p. 59).
Al fiume esclitense è intitolata la sezione “Lèogra”
in cui l’Autore ricorda “l’insieme remoto dei libri
mentre risale la torba / e salda s’infila in questo suono o rumore
in questa / lama che tiene a bada le cose” (p. 71), Segue “Dripping”
(vocabolo legato all’action painting) “là dove l’arte
s’impargola / per darsi schietta alla radice / e cavare al blu
altro avvenire” (p. 87); per arrivare infine a “La riva
/ I nomi” di cui ci hanno colpito particolarmente questi versi:
“… ecco mettiti qui, a lato del libro, e scendi / se puoi,
là dove s’increspa la gioia…” (p. 93), “…
alleva l’agnello al chiodo” (p. 95).
Un percorso dunque che è sintesi di cammino di vita, di un pensiero
fluido e inquieto sotto la superficie increspata dalle parole-sasso
(a volte pietra) che cercano sapendo di non poterci mai completamente
riuscire, una geometria al senso sconfinato dell’esistere.
***
Il
cielo interrato di Alessandro
De Santis (Edizioni Joker, 2006) pur non essendo esente, a tratti,
da qualche ridondanza lessicale o barocchismo (“Riluci meraviglia
d’insoddisfazione / ebbri di te peccatori cadono / e nude pietre
accettano del vento l’alito…” p. 30) ha versi che
si impennano per la loro efficace capacità immaginifica folgorante
(spesso stile haiku): “I piedi si svegliano in scarpe allacciate”
(p. 7), “S’aprono varchi tre le fronde / La notte è
altrove / Domani trasloco anch’io…” (p. 9), “molto
vedesti, ma è ancora nulla…” (verso della poesia
Don Chisciotte, p. 16), “sublimi silenzi mi sorprendono
nudo / ed il vento ha smesso di pensarmi” (p. 29), “È
un treno che rallenta / perché ha capito dove non vule andare…”
(chiusa della poesia Obiettore, p. 55), “La notte scivola
sul vetro / … / e il cielo mi cade addosso senza stelle”
(p. 56), “Il legno degli alberi ama aspettare” (p. 63),
“La verità è una città invisibile / un sentiero
di accoppiamenti giudiziosi” (p. 74). Una raccolta da assaporare.
Gustosi (e salaci) anche gli aforismi autoprodotti (Milano,
2006) raccolti in Yogurt e limone di Maurizio Bottoni
(pseudonimo di Luca Camurri).
Ci hanno particolarmente colpito i seguenti: “Non mi fido / delle
prime impressioni / Preferisco avere più tempo / per sbagliarmi”
(p. 6), “Non mangio mai / a stomaco vuoto, / sennò mi passa
l’appetito” (p. 16), “Ho abbracciato / la solitudine”
(p. 18), “Credo nella vita / prima della morte” (p. 28),
“Chi trova un tesoro / trova anche tanti amici” (p. 59),
“Perché nell’indice / non è indicata la pagina
dell’indice” (p. 108), “Il futuro? Mettiamoci una
pietra sotto!” (p. 110). Sì, un libro per riflettere in
modo piacevole e invero un po’ cinico, sulle contraddizioni che
ci offre la vita. Per averlo contattare l’autore lucamurri@hotmail.com
Intime
frane di Alessandro
Sichera (Lietocolle, 2004) è una raccolta di esordio che
esprime, sono parole dell’autore,“la sensazione della impossibilità
di superare il dolore, ma il piacere privato di aver imparato a conviverci”
(p. 54). Troviamo un linguaggio che ricorda quello di certe ballate,
con esiti non sempre originali e a volte un po’ prosastici, ma
ci sono immagini di vera poesia: “questa notta vi invidio / la
domestica certezza del dopo (Echi di solitudine, p, 16), “ma
sragiono e scrivo: / ho naufragato dio e / tu non mi appartieni”
(p. 19), “ho ucciso la mia ombra / ubriaca / contro un muro”
(p. 28), “ti dirò di non credere / ad un padre amico /
che cancella su di te / il livore di antiche suture” (p. 36),
“le mie dita sono / solchi pesanti di passi, / assonanze grinzose
/ di parole: / sono l’archivio segreto dei miei errori”
(p. 41), e questi ultimi versi possono essere una riuscita metafora
del lavoro del poeta.
Di’
a qualcuno che sono qui (Erickson, 2006) è una testimonianza
che sa unire la leggerezza antiretorica di una corrispondenza via mail,
alla testimonianza vibrante el tempo stesso professionale (l’autrice
è infatti psicologa) di mesi di volontariato a La Paz all’interno
del carcere di San Pedro e con i ragazzi/bambini di strada: una sequenza
di eventi che scuotono il nostro torpore e che a volte riescono persino
a farci sorridere perché, nonostante brutture, abusi, violenze…
la vita, se ci sporchiamo un po’ le mani, può diventare
più bella anche per gli ultimi (e per noi!): “Il segreto
è tutto qui: dare il proprio piccolo contributo, come esseri
umani che si avvicinano ad latri esseri umani, senza la presunzione
di essere i migliori, ma con la consapevolezza della sconfinata fortuna
di essere nati in un posto anziché in un altro. Consapevoli di
aver vissuto l’angoscia, il dolore, la fame, la solitudine e l’ingiustizia
come dimensioni passeggere, episodiche e non normali, quotidiane. Il
segreto è tutto qui: più dai e più ricevi. Più
condividi e ouù il tuo cuore si apre e ti rende consapevele di
quanto sia preziosa e bella la vita.” (p. 180)
Barbara Magalotti sta ripartendo
per la Bolivia, e visiterà anche il centro di Teresa Cremonesi,
di cui al romanzo autobiografico Cercando
il Nord.
Segnalo infine – anche perché contiene pungenti
e azzeccatissme note critiche al sottoscritto :) ma soprattutto perché
presenta e postilla con sagacia e acume l'opera critica e poetica di
Roberto Galaverni, Daniele Piccini, Gabriela Fantato, Paolo Febbraro,
Francesco Marotta, Massimo Morasso, Milo De Angelis, Edoardo Zuccato,
Pasquale Di Palmo – il Logbook
D'Altrocanto (Calligrafie,
2006) a cura di Roberta
Bertozzi e Domenico
Settevendemie, con postfazione di Gianfranco
Lauretano, il quale afferma: "i poeti che scrivono oggi, scelgono
la propria tradizione, coerentemente con ciò che scrivono"
(p. 113) – condivido.
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